Sul rapimento di Aldo Moro indaga la Procura di Reggio Calabria
La perizia balistica del “Moro quater”
La perizia medico-balistica disposta il 2 giugno 1993 dall’allora pubblico ministero Antonio Marini, nell’ambito del quarto processo Moro (23 febbraio 1994, pagine 32, 33), ha ribadito quanto già affermato nella perizia del 1981, ovvero che a sparare in via Fani furono sette armi. I medici legali Silvio Merli e Enrico Ronchetti, con il perito balistico Antonio Ugolini, hanno fornito una ricostruzione dell’agguato divergente rispetto a quella descritta dal brigatista Valerio Morucci nel suo “memoriale”.
Secondo Morucci infatti i brigatisti avrebbero colpito la scorta di Moro con il fuoco di quattro mitra e due pistole semiautomatiche, sparando tutti i colpi dallo stesso lato della strada. I periti hanno invece identificato i bossoli di una quinta pistola, una calibro 9 ed hanno accertato che l’attacco fu portato da entrambi i lati.
Inoltre la nuova ricostruzione peritale rilevò un altro elemento contrastante con la versione fornita da Morucci nel memoriale scritto nel 1986: secondo questa versione l’unico del gruppo di fuoco ad avere una pistola calibro 7,65 sarebbe stato Franco Bonisoli, il quale tuttavia non avrebbe sparato contro il caposcorta maresciallo Oreste Leonardi. La perizia ha invece stabilito che a colpire Leonardi, oltretutto dal lato opposto della strada rispetto a quanto dichiarato da Morucci, sarebbe stata proprio un’arma calibro 7,65. Il che porterebbe a ritenere che il commando fosse composto da un numero di persone superiore alle nove indicate da Morucci (lo stesso Morucci, Mario Moretti, Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Alvaro Loiacono, Alessio Casimirri, Bruno Seghetti).
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L’insieme di tali circostanze porta dunque, ancora una volta, a ritenere che la ricostruzione che i brigatisti pentiti e dissociati hanno fornito dell’azione di via Fani presenta ancora oggi dei vuoti.
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La ‘ndrangheta
Già verso la fine del 1992 entrò in scena con la deposizione di Saverio Morabito, uomo di punta della ‘ndrangheta, che decise di collaborare con la giustizia e venne pertanto interrogato nel carcere di Bergamo dall’allora giovane sostituto procuratore della repubblica di Milano Alberto Nobili. Saverio Morabito riferì della presenza in via Fani di un elemento di spicco della ‘ndrangheta calabrese, Antonio Nirta.
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Il presidente della Commissione d’inchiesta sul rapimento e la morte di Moro, Giuseppe Fioroni, il 13 luglio 2016 disse testualmente: «Possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani c’era anche l’esponente della ‘ndrangheta Antonio Nirta.
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L’audizione di Pignatone il 21 ottobre 2015
Il capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone venne audito dalla Commissione parlamentare presieduta da Fioroni il 21 ottobre 2015. Confermò, naturalmente, la collaborazione della Procura con la Commissione e quella con la Procura generale della Capitale.
Tra Procura e Procura generale di Roma c’è stato uno scambio di lettere che si concludeva così: «In definitiva, l’ambito delle indagini di questa Procura generale è limitato, allo stato, all’accertamento dei fatti di via Fani, con particolare riguardo al ruolo svolto dai due a bordo della moto Honda prima, durante e dopo la strage e a quello svolto da Bruno Barbaro, verosimilmente collegato al colonnello Guglielmi e al colonnello Pastore Stocchi. Strettamente connesso a tale accertamento è quello relativo al presunto ruolo svolto dal “quinto sparatore” o “tiratore scelto” di cui si parla nell’opposizione alla richiesta di archiviazione dell’avvocato Biscotti». Assicurava poi la leale collaborazione fra gli uffici.
In partica la Procura generale – con la quale la Procura ordinaria ha varato il coordinamento di indagini, procedimenti collegati e scambio di informazioni – segue un filone specifico. Tutto il resto tocca alla Procura ordinaria. Ora sappiamo anche in collegamento con quella di Reggio Calabria.
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