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Tutte le guerre dell'ultimo papa

10 aprile 2005
Tommaso di Francesco
Fonte: Il Manifesto


Appena è terminata la lunga, teatrale liturgia del saluto per l'ultima volta in terra, in piazza S. Pietro, al papa globale Giovanni Paolo II, un'altra «liturgia» non smetteva di lavorare, recitando la sua parte. Migliaia e migliaia di militari hanno continuato a vigilare sulla cerimonia e in una città blindata che ha visto all'opera agenti dei servizi segreti di tutto il mondo, tiratori scelti, navi da guerra allertate nei porti, spazio aereo chiuso pattugliato da bombardieri. Non era certo l'eco di un temuto attentato al papa, visto che il seggio è, ancora per pochi giorni, vacante. E' stato invece il segno, tutto terreno, della reale rappresentazione del mondo nel quale ci è dato vivere. Era l'ombra imperante della guerra. Così come inverosimile invece era il recinto che faceva tutti eguali i potenti e i governi della terra. Mentre le contrapposizioni del mondo, mal sopite davanti all'essenziale bara in cipresso del papa, erano solo nascoste dalla scelta del rituale: elencare il potere terreno sulla base dell'alfabeto.

Quando tra alcuni giorni il conclave annuncerà il «gaudio» del nome di un altro papa, allora si capirà che Karol Wojtyla è stato davvero l'ultimo papa. Non certo nel senso della progressione numerica e temporale. In quello profondo della inimitabilità e irriproducibilità insieme della sua esperienza e della sua autorità.

Si è detto che questo papa ha fatto crollare il comunismo, i regimi dell'Est, quello che insomma più correttamente abbiamo chiamato «socialismo reale». Poco si è riflettuto sul principio d'autorità derivato al papa proprio dal crollo di quel sistema che, è bene ribadirlo, è precipitato nel baratro delle sue contraddizioni. Basta ricordare che nel 1972 gli operai in rivolta in Polonia contro il «loro» potere socialista a Danzica e Stettino sventolavano ancora bandiere rosse e cantavano l'Internazionale, poco prima che la polizia di regime sparasse sulla folla. Il sindacato Solidarnosc e il ruolo politico della Chiesa nascono da questa sconfitta precedente. E un pontefice non a caso venuto dall'Est, non poteva non esserne il primo interlocutore ed essere quindi investito di questa eredità che, con la caduta del Muro di Berlino prima e la fine dell'Unione sovietica poi, di fatto cambiava la faccia della terra.

La conquista dell'est. E dei Balcani

Ma l'interrogativo profondo è chiedersi ora come Wojtyla ha speso subito il bene prezioso dell'autorità derivatagli dalla fine di quel mondo, proprio interagendo con quel processo. Se vogliamo rispondere onestamente non possiamo non riconoscere che il papa globale è stato, nell'occasione, parziale, nazionalista, ossequiente al «Cesare» di turno, revisionista storico e co-responsabile di secessioni che hanno alimento guerre sanguinose. E' stato un papa con le mani sporche di sangue. Come potremmo definire altrimenti il ruolo del Vaticano all'inizio del disastro dei Balcani nel 1991?

I governi europei uniti avevano deciso alla fine di quell'infausto anno, di comune accordo, che di fronte alle pericolose secessioni che si annunciavano in tutto l'est, si sarebbero dovute riconoscere solo quelle che avvenivano «democraticamente, non in modo unilaterale, senza il ricorso alla violenza e nel rispetto delle minoranze interne». Solo dopo pochi giorni la Germania e il Vaticano riconobbero l'indipendenza dalla Jugoslavia della Slovenia e della Croazia, nonostante che si fossero autoproclamate indipendenti con la violenza, nel disprezzo delle minoranze e sulla base dei princìpi etnici della slovenicità e della croaticità, ben fissati nei primi articoli delle rispettive costituzioni. Che fine avrebbero fatto in non sloveni - mentre la Slovenia stato indipendente tagliava la Jugoslavia dal resto dell'Europa - e in non croati nella cattolicissima Croazia, Wojtyla non se lo chiese o se se lo chiese pensò ad un nodo facilmente districabile. Quel nodo intanto veniva «sciolto» con lo scatenarsi di una guerra nazionalistica da tempo preparata e da tutti, serbi, croati e musulmani. Mentre ancora esisteva una Federazione jugoslava, con le sue istituzioni, il suo esercito, il suo governo con tanto di sede all'Onu. Fu l'innesco della guerra in Bosnia-Erzegovina, lì dove tutte le etnie erano rappresentate quasi in una piccola Jugoslavia, con il massacro dell'assedio di Sarajevo, ma anche con la strage di Mostar. Era tornata la guerra in Europa, per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale. Certo per responsabilità dei nazionalismi (alimentati anche dall'esterno) e dei limiti della costituzione jugoslava, ma è bene sottolineare che non sarebbe stato possibile senza la deflagrazione dei riconoscimenti internazionali delle indipendenze autoproclamate sulla base di identità etniche, grazie al ruolo della Germania forte allora della riunificazione, e al suggello del rappresentante in terra del dio cattolico, al secolo il polacco Karol Wojtila. Era così tanto amato dai croati quel papa, quanto era odiato dai serbi e dai musulmani. Apostolicamente il papa andò a Sarajevo nel 1997 alla fine della guerra ed accadde che, insieme alla curiosità di una città sostanzialmente laica e moderna che aveva sopportato un feroce assedio, e alla presenza mal sopportata di tanti cattolici arrivati per l'occasione, ci fu un tentativo di uccidere il papa - una potente carica di esplosivo sotto un ponte, qualcosa di più deleterio degli spari di Ali Agca. Sventato all'ultimo momento grazie alla scoperta di un complotto, così misterioso che nei mesi successivi furono uccisi capi dei servizi, vice-ministri, e pezzi del governo di Sarajevo vennero defenestrati dagli americani e dalla Nato. Eppure - ecco il punto - il papa, accettando il nuovo principio dell'«ingerenza umanitaria» aveva dato il suo benestare al bombardamento della Nato delle postazioni serbe che circondavano Sarajevo ad agosto-settembre 1995. Fu l'ingresso della Nato nei Balcani, la prima trasformazione da patto militare difensivo ad azione armata offensiva. E invece lo stesso papa aveva taciuto su Mostar, sui massacri che le cattolicissime milizie croate compivano a danno dei serbi e dei musulmani.

Fu proprio nell'occasione del viaggio a Sarajevo, alla fine di quella guerra - ma può mai finire una stagione che riporta la guerra in Europa - che il papa si domandò se era stato fatto tutto il possibile per evitare quella guerra. Non poteva rispondersi pubblicamente, riconoscendo di avere avuto le mani insanguinate. Da quel che sappiamo, pronunciò solo un enfatico ma significativo: «Che abbiamo fatto..!».

Una Via Crucis tra i conflitti

Si parla tanto di Via Crucis. E' proprio da allora che Giovanni Paolo II ha cominciato, solo cominciato, sulla guerra una sorta di road-map dolorosa, un viatico insieme autocritico da inverare, volta a volta però, o con il rifiuto secco e netto o con il silenzio assenso - come era del resto accaduto per la prima guerra del Golfo nel 1990-91 e poi, più ambiguamente, per la sanguinosa avventura militare in Somalia nel 1993-1994. Una Via Crucis, ma restando fedele allo spirito di conquista delle sue prime iniziative verso l'Est negli anni Novanta. A partire dalla nomina in Russia di 11 vescovi in regioni dove il cattolicesimo era a dir poco improbabile, appena venne ammainata sul Cremino la bandiera rossa, così compromettendo per sempre il rapporto con la chiesa ortodossa; oppure con il suggello dato al revisionismo storico, quando beatificò nel 1998 la figura del cardinale Alojs Stepinac che aveva benedetto il regime nazi-fascista di Ante Pavelic in Croazia; o ancora, più recentemente nel 2000, quando beatificò sacerdoti in Slovacchia demonizzando il comunismo, ma semplicemente tacendo sulle responsabilità della Chiesa che aveva visto il vescovo Josef Tiso, la massima autorità ecclesiale slovacca negli anni Quaranta, governare il paese ed allearsi con Hitler - e dei 90mila ebrei slovacchi non si salvò nessuno.

Una Via Crucis che, da allora in poi, ha portato questo papa ad essere strenuamente contrario ad ogni guerra o presunta ingerenza umanitaria, e limpidamente facitore del messaggio della «pace attraverso la pace». E' accaduto nel 1999 con la guerra «buona», «umanitaria», quella che ha visto protagonista il centrosinistra mondiale al governo in Europa e negli Stati uniti con Bill Clinton, scatenare una guerra impari contro la piccola Jugoslavia. Allora il papa non si limitò a ricordare che c'era ancora la possibilità di trattare e a insistere che nulla sarebbe stato risolto ma anzi aggravato. Lanciò una campagna mediatica per denunciare il sangue degli innocenti ch si stava versando. Non possiamo dimenticare le prime pagine dell'Osservatore romano dell'aprile 1999 che denunciavano i sanguinosi «effetti collaterali» sui civili in Serbia e in Kosovo prodotti dai raid aerei della Nato e vantati da ineffabili premier occidentali che si sono ben guardati dal riflettere poi sui risultati drammatici di quella guerra.

Così all'annuncio del conclave capiremo che è morto l'ultimo papa. L'ultimo capace di passare dalla dimensione trionfale a quella agonale. Il papa sconfitto che voleva portare l'est e il resto del mondo nell'ecumene e lo ha invece portato nel mercato. Che lascia un pianeta più diseguale e misero, più senza speranze di come l'aveva incontrato. Che si esalta nel suo testamento per la guerra nucleare evitata con la fine della guerra fredda, mentre ogni stato costruisce ora la sua atomica. L'ultimo però ad essersi opposto alla guerra di civiltà contro il mondo arabo scatenata dai neocon americani e post-moderni con l'avventura della guerra all'Iraq nel 2003 che non è apparsa al mondo musulmano come guerra di religione solo grazie al no del papa. Bush ieri l'ha pianto e preventivamente seppellito.

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