Perche' non uccidere
difenderci con ogni mezzo. Se mi uccidono mentre lotto per una causa giusta,
muoio vivendo per un motivo umano, e non per mero esaurimento biologico.
Invece, se io uccido, anche per difendermi dall'essere ucciso - per questo
atto (difesa legittima, omicidio legittimo, depenalizzato) la societa' non
mi condanna - mi faccio autore di morte, la morte mi usa; divento rapinatore
di una vita che devo guardare, anche quando e' colpevole, con rispetto sacro
e assoluto, se voglio sperare lo stesso rispetto.
http://lists.peacelink.it/news/msg06876.html
Bisogna chiarire il famoso detto di Christa Wolf secondo cui tra l'uccidere
e il morire l'alternativa e' vivere. Il vivere, infatti, non sfugge al
morire. Il dilemma da cui vogliamo uscire vivi e' tra l'uccidere e l'essere
uccisi. Questa e' la tenaglia maledetta con cui la guerra, e ogni violenza,
ti persuadono ad uccidere, rubandoti l'umanita' per lasciarti la vita
animale.
Da ogni guerra si torna o morti o assassini. Si salvano i disertori.
Uccidere e' morire ancor piu' che l'essere uccisi. Infatti, io moriro'
certamente, o per limite naturale, o per mano umana. Dal punto di vista
della mia situazione (diverso e' per chi mi uccide), il venire ucciso sara'
soltanto un'anticipazione temporale rispetto al morire. Forse potrebbe
essere addirittura meno doloroso e umiliante di una lunga decadenza e
malattia. Non posso sapere se guadagno o perdo vita nel venire ucciso, come
Socrate non lo sapeva del semplice morire. Perdo anni di vita, ma, come
diciamo giustamente, conta di piu' dar vita agli anni che anni alla vita.
Non e' affatto detto che venire ammazzati sia il massimo male, da cui
difenderci con ogni mezzo. Se mi uccidono mentre lotto per una causa giusta,
muoio vivendo per un motivo umano, e non per mero esaurimento biologico.
Invece, se io uccido, anche per difendermi dall'essere ucciso - per questo
atto (difesa legittima, omicidio legittimo, depenalizzato) la societa' non
mi condanna - mi faccio autore di morte, la morte mi usa; divento rapinatore
di una vita che devo guardare, anche quando e' colpevole, con rispetto sacro
e assoluto, se voglio sperare lo stesso rispetto. L'evoluzione umana non e'
ancora arrivata, nelle morali, nelle leggi, nelle stesse religioni, a saper
superare la giustificazione dell'uccidere per evitare di essere uccisi.
Anche le legge migliori (Costituzione italiana, Carta dell'Onu) giustificano
ancora, entro molti limiti, la guerra di difesa. Ma le alternative a questi
omicidi legittimati sono la necessaria direzione di ricerca, spirituale
anzitutto, quindi pratica e politica.
Se io uccido una vita tolgo rispetto alla mia vita. Questo e' il piu' serio
fondamento possibile alla pena di morte: non la vendetta, ma la presunta
perdita del diritto alla vita in chi toglie ad altri la vita, a cui hanno
diritto. Eppure, la pena di morte va ugualmente condannata, perche' bisogna
evadere, come individui e come societa', dal mimetismo riproduttivo del
male, e trascenderlo. La legge contro il crimine non puo' somigliare al
crimine.
Invece, se vengo ucciso, mi e' tolta la vita fisica, ma diritto e dignita',
indistruttibili, sono intatti, anzi risaltano, come afferma l'onore che
rendiamo alle vittime. La dignita' e' inviolabile: "Non vi spaventate per
quelli che possono uccidere il corpo ma non possono uccidere l'anima"
(Matteo 10, 28). Qui non si tratta di una sostanza immortale, come ha
pensato una filosofia, ma del senso e valore imperdibile della vita offesa,
che dunque non rimane perduta.
*
L'obiezione di coscienza alla pena di morte, alle economie omicide, alla
guerra, all'esercito, alla fabbricazione e commercio di armi, alle spese e
alla cultura militare, alle politiche che includono tutto cio' nel catalogo
dei propri mezzi; il rifiuto del reclutamento obbligatorio come di quello
mercenario, la propaganda antimilitarista, la condanna delle culture e
politiche di dominio; queste obiezioni oggi non spettano solo al soldato, ma
al cittadino e alla cittadina qualunque, ribelli nonviolenti alla societa'
violenta, che li vuole coinvolgere in mille modi. Tutto questo, unito
all'impegno costruttivo di gestione nonviolenta dei conflitti, e' l'atto
restauratore di umanita', che afferma l'uscita in avanti, non di lato, dal
dilemma bellico: uccidere o venire uccisi.
A questa tenaglia, in entrambi i casi mortale, sfugge anche l'obiettore,
come Franz Jaegerstaetter, che paga con la vita, che non si sottrae al
venire ucciso da quella stessa autorita' dia-bolica (cioe', operatrice di
divisione), che gli comandava di uccidere. E questa autorita' non e' solo il
nazismo, ma ogni stato o potere che fa guerra e violenza, qualunque sia la
ragione che adduce.
Sulla tomba di Jaegerstaetter, nel pellegrinaggio internazionale compiuto il
9 agosto, nel giorno del sessantesimo anniversario del suo
martirio-testimonianza, ho visto che un morto come questo - incatenato,
decapitato, sotterrato, tacitato, annullato - agisce, parla, convoca,
insegna, ammonisce, testimonia, riunisce, incoraggia, consola, guarisce,
riconcilia, sprona, mette in cammino, costruisce politica e storia,
trasmette uno spirito, dunque vive: e' molto piu' vivo lui oggi di quanto
era vivo e potente chi allora lo ha ucciso. Molto piu' vivo lui di noi che
vivacchiamo nella paura e nell'incoscienza. Sperare si deve. Essere ucciso
per la giustizia e' vivere e produrre vita piu' del sopravvivere
fisicamente. Uccidere e' morire piu' di colui che e' ucciso. In Capitini
c'e' questa idea: la vita senza morte comincia col non uccidere.
Enrico Peyretti e' uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; e' disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente, di cui abbiamo pubblicato il piu' recente aggiornamento nei numeri 714-715 di questo foglio, ricerca una cui edizione a stampa - ma il lavoro e' stato appunto successivamente aggiornato - e' in Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace, Annuario della pace. Italia / maggio 2000 - giugno 2001, Asterios, Trieste 2001; vari
suoi interventi sono anche nei siti http://www.arpnet.it/regis e http://www.ilfoglio.org
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