Il pinkwashing del governo israeliano ai tempi dell'omonazionalismo
In un articolo del 23 Novembre 2011 sul New York Times, intitolato Israel and “Pinkwashing”, la scrittrice americana Sarah Schulman denuncia la cooptazione dei bianchi gay da parte delle forze politiche anti-immigrati e anti-musulmane in Europa occidentale e in Israele (“the co-opting of white gay people by anti-immigrant and anti-Muslim political forces in Western Europe and Israel”). E mette in luce la presa di posizione di un crescente movimento gay mondiale che si mobilita contro l’occupazione dello stato ebraico: Pinkwashing è il nome dato alla deliberata strategia sionista di occultamento della violazione dei diritti umani dei Palestinesi sotto la copertura di un’immagine di modernità esemplarizzata dalla vita gay israeliana. La ricerca di una pratica e di un pensiero che rimetta in discussione la riproduzione delle dinamiche di dominazione all’interno degli spazi di lotta trova nella militanza migrante o di generazione successiva al percorso migratorio le sue posizioni avanzate. “Think before you pink”... mettono in guardia gli attivisti LGBTQ attenti alle derive del movimento e impegnati in una riflessione che tenga conto dei rapporti non gerarchizzabili fra il genere, la razza, la classe e l’orientamento sessuale in una prospettiva anti-egemonica e de-coloniale.
Tra gli interpreti italiani del pinkwashing spicca il nome di Roberto Saviano, che recentemente ha dichiarato: "Tel Aviv è una città che non dorme mai, piena di vita e soprattutto di tolleranza, una città che più di ogni altra riesce ad accogliere la comunità gay, a permettere alla comunità gay israeliana e soprattutto araba di poter gestire una vita libera e senza condizionamenti, frustrazioni, repressioni e peggio persecuzioni."[1]
E’ chiaro allora come un discorso “culturalista” che sbandiera dei diritti, come quello tenuto da Saviano, non soltanto oscura l’azione di organizzazioni palestinesi molto attive nelle politiche sui diritti delle persone con orientamenti sessuali non eterosessuali ("queer") come Al Qaws, Aswat e Palestinian Queers for Boycott, Divestment and Sanctions ma presuppone la superiorità morale dell’oppressore e ha come consequenza la disumanizzazione delle vittime e la leggittimazione della violenza.
Quella fra il governo israeliano e la comunità gay è una liaison esito di un lento avvicinamento ma di cui è possibile tracciare la cronistoria. Secondo La Campagna per il Boicottaggio Culturale dello Stato d’Israele (PACBI) nel 2005 un’operazione di marketing mette in essere una vasta campagna denominata Brand Israel. Nel 2008 i contratti che legavano le missioni all’estero degli artisti israeliani al loro governo contenevano una clausola che definiva lo scopo della collaborazione nei seguenti termini: “promuovere gli interessi politici dello stato d’Israele [...] e creare un’immagine positiva d’Israele”. Nel 2009 The Israeli Projet pubblicava un dizionario delle “parole che funzionano”, mettendo l’accento sul fatto che “la democrazia” israeliana rispetta “i diritti delle donne”[2]. Constatato presto che le femministe continuano ad essere poco influenti in Occidente, il governo israeliano sposta l’attenzione sulla comunità LGBTQ, in crescente visibilità:nel 2010 90 milioni di dollari sono stati investiti dall’Ufficio del Turismo di Tel Aviv per fare di questa città israeliana la meta sognata (un’immensa spiaggia) dai gay di tutto il mondo.
[2] Sulla strumentalizzazione del discorso femminista rimane una referenza fondamentale il lucido intervento di Christine Delphy , « Une guerre pour les femmes afghanes? », in Nouvelles Questions féministes, vol 21, n° 1, 2002: “Nutrire e punire”
[3] Jasbir K. Puar, Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times, Durham, Duke University Press, 2007
http://it.wikipedia.org/wiki/Queer
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