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Superpredator: quando le parole influenzano la realtà

Il mito dei media che ha demonizzato una generazione di giovani di colore
5 dicembre 2020
Carroll Bogert e LynNell Hancock
Fonte: The Marshall Project - 20 novembre 2020

Un superpredator, nell'immaginario collettivo come concepito dall'accademico John DiIulio

L’epiteto esiste da un quarto di secolo, ma fa ancora male: «Li ha chiamati superpredator – insisteva Donald Trump durante il suo ultimo dibattito con Joe Biden – Lo ha detto, ha detto proprio così, superpredator».

«Non ho mai e poi mai pronunciato le parole che Trump mi accusa di avere usato», ha protestato Biden. In effetti non ci sono testimonianze del fatto che Biden abbia usato quest’espressione, ma molte delle durissime legislazioni anti crimine supportate da entrambi i partiti negli anni ’90 continuano a essere una questione scottante ancora ai nostri giorni. Dal momento in cui è stato usato per la prima volta (venticinque anni fa, a novembre), il termine superpredator ha segnato una svolta, in buona parte per via della smisurata copertura mediatica che si è scatenata quasi subito.

«Nel mio ambito questa parola si sentiva sempre – dice Steve Drizin, un avvocato di Chicago che negli anni ’90 si occupava della difesa di adolescenti – e aveva un profondo effetto sul modo in cui i giudici e l’accusa consideravano i miei clienti».

Il termine è stato coniato da uno studioso accademico, John J. DiIulio Jr., per una storia cui è stata dedicata una copertina del «The Weekly Standard», una nuova rivista conservatrice che ha colpito nel segno con l'accattivante titolo «L’arrivo dei superpredator»

DiIulio, che al tempo era un giovane professore della Princeton University, da uno studio fatto su un campione di giovani di Philadelphia aveva estrapolato che soltanto il 6% di questi giovani era responsabile di più della metà dei crimini gravi commessi dall’intero campione. Questi criminali cronici erano, secondo Diluilio, colpevoli di «povertà morale [...] la povertà di non avere al loro fianco degli adulti amorevoli, capaci e responsabili, che gli potessero insegnare a distinguere tra il giusto e l’ingiusto».

John J. DiIulio Jr., lo studioso che nel novembre 1995 ha coniato il termine "superpredator", qui in una sua intervista presso la CBS (aprile 1996).

Dilulio aveva messo in guardia dal fatto che prima del 2000 ci sarebbero stati almeno altri 30.000 giovani «assassini, violentatori, e rapinatori» a seminare il panico per le strade dell’America. E ha aggiunto che si tratta di persone che «non danno alcuna importanza alle vite delle loro vittime, e che le deumanizzano automaticamente come «spazzatura bianca senza valore».

Ma chi è che stava mettendo in atto una deumanizzazione? Appena pochi anni prima i media avevano introdotto i termini wilding (andarsene in giro in gruppo spaventando e attaccando gli altri) e wolf-pack (branco di lupi), per riferirsi a cinque ragazzi, quattro neri e un ispanico, che erano stati condannati, e in seguito scagionati, per lo stupro di una donna a Central Park [1].

«Questo tipo di immaginario animale era già parte del discorso» afferma Kim Taylor-Thompson, professore di diritto alla New York University. «Il gergo sui superpredator ha dato inizio a un processo che ha permesso di sospendere qualsiasi empatia nei confronti dei giovani di colore».

La teoria dei superpredator, a parte il fatto di essere una metafora razzista, in realtà non veniva confermata dalle statistiche sul crimine. Gli arresti minorili per omicidio, e il crimine minorile in generale, al tempo in cui uscì l’articolo di DiIulio erano già in calo. Prima del 2000, proprio quando decine di migliaia di bambini sarebbero dovuti essere per le strade a rapinare e uccidere, l’arresto minorile per omicidio era già calato di due terzi».

Ma anche se questa teoria è stata un fallimento, ha comunque avuto un grandissimo successo nel nutrire editoriali, colonne e articoli di giornale, contribuendo a un costo umano smisurato e persistente.

Quando Terrance Lewis aveva 19 anni, nel 1997, stava tornando a casa dal lavoro e la polizia di Philadelphia lo ha bloccato su un ponte, gli hanno puntato le pistole e lo hanno arrestato per un omicidio: ha trascorso 21 anni in prigione cercando di dimostrare di non averlo mai commesso. Soltanto l’anno scorso il giudice ha finalmente respinto la sua condanna per omicidio, riconoscendo l’inattendibilità della testimonianza oculare».

«Sono un "beneficiario" della retorica del superpredator – dichiara Lewis, che adesso ha 42 anni – i media credevano a questa retorica, tutta la copertura mediatica si basava sulla sua amplificazione».

La grande idea di DiIulio non era originale. Quando si era appena laureato a Harward, il suo mentore, l’influente politologo James Q. Wilson, da anni metteva in guardia da una nuova specie di assassini adolescenti senza scrupoli. «La mia scuola non è stata Harvard – ha dichiarato DiIulio durante un’intervista – la mia scuola è stata Wilson».

Ma Dilulio era un divulgatore ingegnoso, ed è presto entrato nelle grazie del circuito di esperti, e dei media. Lo studio fatto dal Marshal Project su quaranta delle principali testate giornalistiche, mostra che nei cinque anni a seguire il neologismo è stato usato almeno 300 volte, e si tratta comunque di una sottostima.

Sul Philadelphia Inquirer è uscito un articolo adulatorio su Dilulio, che era cresciuto a Philadelphia (fino a poco tempo fa la maggior parte di persone che stavano ancora scontando delle sentenze a vita per dei reati commessi quando erano ragazzini erano proprio in Pennsylvania). È uscito anche un articolo sul New Yorker (seppure più lungo e meno d’impatto), delle colonne sull’editoriale del The New York Times, e un’apparizione televisiva sul notiziario CBS Evening News.

L’iniziale esposizione mediatica ha portato degli inviti a diverse conferenze, e questo ha a sua volta aumentato l’esposizione mediatica. Il termine superpredator è talmente entrato a far parte del vocabolario nazionale che i giornalisti e i presentatori incominciarono ad usarlo senza fare riferimento a Deilulio. Persino Oprah Winfrey, gli ha dedicato uno spazio in Good Morning America.

ll fondatore e direttore responsabile del The Weekly Standard, Bill Kristol, adesso minimizza il successo del titolo sulla copertina della sua defunta rivista, ma ammette che «ha avuto una forte risposta e ha decisamente preso piede».

L’idea di un incombente ondata di ragazzini ha preso piede anche tra i criminologi

«Com’è possibile che nel corso degli anni queste idee abbiano trovato supporto e siano state usate come un’arma? Anche gli intellettuali hanno fatto la loro parte», osserva Jeremy Travis, che al tempo era al National Institute of Justice, la branca di ricerca del Dipartimento di Giustizia, e adesso lavora con Arnold Ventures, una fondazione di beneficenza che aiuta anche il Marshal Project.

James Alan Fox, un professore di criminologia alla Northeastern University, sostiene di non aver mai usato il termine superpredator, ma in diverse apparizioni sui media aveva comunque messo in guardia dall’ondata di crimine giovanile, e si scusa per averlo fatto. «Uno dei problemi delle previsioni è che a volte sono sbagliate» ha aggiunto.

Nel frattempo, dopo aver scatenato la foga dei media, Dilulio ha incominciato a mostrarsi un po’ più incerto. «Credo che il termine superpredator sia entrato a far parte del lessico» ha detto a NPR durante l’estate del 1996. Questa parola «in un certo senso adesso si è allontanata da me».

Tra le 281 volte in cui abbiamo riscontrato l’uso del termine superpredator dal 1995 al 2000, più di tre su cinque usavano il termine senza mettere in discussione la sua validità. Le restanti includevano scrittori che contestavano la tesi di Dilulio, scrittori che scrivevano lettere di indignazione, o giornalisti che citavano chi non era d’accordo con i loro articoli.

Anche se ha raggiunto le pagine delle notizie, il termine superpredator appariva per lo più in editoriali e riviste. Con l’affermarsi della tv via cavo e di internet, nel corso degli anni ’90 andava prendendo forza un nuovo «giornalismo delle idee»: le testate giornalistiche, che prima si concentravano per lo più sulla comunicazione dei semplici fatti, adesso si sentivano in dovere di spiegare, per dirla con le parole dello slogan pubblicitario del Newsweek, «Perché è successo e cosa significa».

Nel gennaio del 1996, un titolo della rivista si chiedeva: «L’arrivo dei superpredator: dobbiamo mettere in gabbia questa nuova generazione di ragazzini feroci?» (Rivelazione: tutti e due lavoravamo al Newsweek negli anni ’90, e ci pentiamo di non aver protestato contro il modo in cui si trattavano le notizie di cronaca nera).

È un luogo comune quello di dare la colpa al giornalismo locale per il modo in cui ingigantisce la paura del crimine, specialmente le televisioni locali, con il loro famoso detto If it bleeds, it leads («Se c’è sangue la notizia vende di più» NdT). Ma negli anni ’90 le notizie di cronaca nera raggiunsero le testate nazionali. Stando a uno studio, all’inizio del decennio le tre emittenti di notiziari nazionali non avevano più di cento storie di crimine all’anno nelle loro edizioni serali, ma alla fine degli anni '90 queste erano arrivate a essere cinquecento. Su NBC News, a febbraio del 1993 c’è stata un’intera sezione di Nightly News che si è concentrata sugli adolescenti assassini delle periferie e delle aree rurali, mentre in un’altra puntata del dicembre del 1994 metteva in guardia da un’ondata di crimine che sarebbe arrivata con l’aumento della popolazione adolescente.

Non ci sono testimonianze del fatto che il presidente Bill Clinton abbia usato il termine superpredator, ma lo ha fatto la First Lady Hillary Clinton. E comunque Clinton ha contribuito a far diventare il crimine una questione di importanza nazionale. I reporter erano impressionati dalla destrezza con cui Clinton ha fatto ricorso a metodi che di solito sono tipicamente repubblicani, come la promessa di aumentare le forze dell’ordine per le strade e di inasprire le pene per i criminali minorenni.

La Crime Bill del 1994, un pacchetto di leggi federali draconiane, era sui telegiornali nazionali. E il Senatore Robert Dole, il repubblicano del Kansas che si candidava contro Clinton nel 1996, con il fermento dell’economia e la fine della guerra fredda, aveva bisogno di un problema su cui battere: quando ha incominciato a parlare dei superpredator, ecco che anche quella divenne una notizia di rilievo nazionale.

Come alcuni criminologi spiegarono al tempo, quello che faceva aumentare gli omicidi compiuti da minorenni non era una nuova generazione di adolescenti violenti. Come osserva Franklin Zimring, un professore di diritto a Berkeley, probabilmente era stata la maggiore disponibilità di armi che aveva reso le risse e le rivalità tra gang più mortali di quanto non lo fossero state in passato. Ma parafrasando Mark Twain, mentre la verità si stava ancora mettendo le scarpe, i superpredator erano già scappati fuori dalla porta. [2]

Quando arrivò la paura dei superpredator a dare una nuova spinta, le legislature statali erano già impegnate a smantellare le protezioni che erano state stabilite in favore dei minorenni nell’arco di un centinaio di anni. New York aveva dato inizio a questa tendenza nel 1978, quando il quindicenne Willie Bosket uccise due persone nella metropolitana. Anche qui i media avevano contribuito a influenzare questo cambiamento: dopo aver letto sul New York Daily News una storia sensazionalistica su Bosket «ha quindici anni e gli piace uccidere... perché è divertente», il governatore Hugh Carey ha immediatamente convocato un’assemblea legislativa straordinaria che privò i giovani di molte protezioni del tribunale minorile.

A partire dal 1982 anche l’Illinois ha seguito l’esempio. Alla fine di quella che nel 1993 seminò il panico passando alla storia (grazie al contributo dei media di Denver) come «L’estate violenta», il governatore Roy Romer fece pressione affinché si rivedesse con fermezza il sistema della giustizia minorile del Colorado. Alla fine degli anni ’90, praticamente ogni Stato aveva inasprito le sue leggi sui minorenni: mandandoli con più facilità nelle carceri per adulti, eliminando e ostacolando i tribunali di famiglia, imponendo condanne obbligatorie tra le quali il carcere a vita senza condizionale.

I lettori, che erano già stati esposti al flusso costante di terrificanti storie di bambini assassini, erano già pronti per accogliere la teoria dei superpredator. A Chicago raccapriccianti omicidi perpetrati da ragazzini scossero la città all’inizio degli anni ’90, tra i quali ci fu il caso di Robert Sandifer, un undicenne il cui amore per i biscotti gli fece guadagnare il soprannome di «Yummy». Alla fine dell’estate del 1994 era ricercato per l’omicidio di una ragazzina di quattordici anni, ma egli stesso venne ucciso dai fratelli Cragg e Derrick Hardaway, di sedici e quattordici anni.

La cronaca nera locale divenne una questione nazionale. Uscì un numero della rivista Time con una foto di Yummy in copertina, seguita dal titolo «Troppo giovane per uccidere, troppo giovane per morire». Quando Derrick Hardaway è stato giudicato da un tribunale per adulti nel 1996, al culmine dell’agitazione scatenata dall’idea di superpredator, gli diedero 45 anni di carcere per l’omicidio di Yummy: non per aver premuto il grilletto, ma per aver guidato la macchina durante la fuga di suo fratello.

Hardaway, che è stato rilasciato nel 2016, lo scorso mese in un’intervista ha dichiarato: «Odio i media, mi sembra che la mia condanna sia avvenuta attraverso i media».

«Si reagì pensando che il modo per risolvere questo problema di crimine fosse quello di colpire con severità», dichiara Don Wycliff, che allora era dirigeva le pagine editoriali del Chicago Tribune, «Non ricordo che al tempo ci fossero molte voci di dissenso nei confronti di tutto questo».

Quando è nata l’idea di superpredator un anno dopo la morte di Yummy, al Tribune erano già pronti a darsi da fare. Appena dieci giorni dopo l’articolo di Dilulio, la redazione ha parlato della sua proposta sulla riapertura degli orfanotrofi. Un rinomato giornalista del Tribune, Bob Greene, ha invitato i lettori a «smettere di pensare ai superpredator come a un fenomeno che riguarda il futuro, e di guardarlo piuttosto come qualcosa che nasce dai fatti del presente». Il Tribune ha persino dedicato l’intero spazio editoriale al pezzo che Dilulio aveva scritto per il Weekly Standard.

«Che posso dire? – si chiede Wycliff – Sembrava che si spiegassero molte cose»

Il Chicago Tribune in seguito ha dedicato molti sforzi per rivelare anni di abusi da parte della polizia e di cattiva condotta da parte dei pubblici ministeri locali. Ma il reporter Maurice Possley ammette che più volte si è sentito chiedere dalle sue fonti «Dove fosse il Tribune quando tutte queste spiacevoli vicende avvenivano nei tribunali».

I giornalisti di colore dicono che la copertura giornalistica della giustizia penale subisse l’influenza di una sostanziale mancanza di diversità all’interno delle redazioni americane. I reporter neri erano talmente costernati dalla ristrettezza di vedute dei loro caporedattori bianchi, che all’inizio degli anni ’90, uno di loro, Dahleen Glanton, organizzò un giro in furgone attraverso i quartieri neri della città.

«C’erano caporedattori che non erano mai stati a South Side Chicago» ricorda (Wycliff and Marcia Lythcott, che erano i redattori responsabili della pagina editoriale del Chicago Tribune al tempo in cui ha riproposto il pezzo di Diluilio, sono entrambe di colore. Nessuno dei due ricorda di aver preso quella decisione. «Lo odiavo quel termine» dice Lythcott adesso.

Alla fine degli anni ’90, la mania dei superpredator era già in declino. «I giovani assassini sono rimasti una rarità di cui si parla molto,» recita un titolo del «Tribune» a febbraio del 1998. «I superpredator non non stanno aumentando come era stato previsto».

Nel 2001, Dilulio ha ammesso che la sua teoria era sbagliata «Mi dispiace per le conseguenze impreviste». Nel 2012, con la Corte Suprema degli Stati Uniti, ha persino firmato una lettera contro l'ergastolo senza condizionale per i minorenni (la moglie di Dilulio ha detto che per motivi di salute non poteva offrirci dei commenti su questo articolo).

Come dimostra il dibattito tra Biden e Trump, i politici adesso prendono le distanze dal termine. Nel 2016, durante la sua candidatura alla presidenza, Hillary Clinton è stata invitata a scusarsi per avere usato il termine superpredator vent’anni prima.

Sono pochi i media che si sono scusati per aver fomentato l'ondata dei superpredator. Il Los Angeles Times a settembre ha ammesso che «un problema insidioso [...] ha offuscato il lavoro del Los Angeles Times per molta della sua storia [...] un punto cieco, o peggio, una palese ostilità nei confronti della popolazione non bianca della città». Certo, la nostra analisi dimostra che il L.A. Times ha usato il termine superpredator più di qualsiasi altra rivista di rilievo. Ma non era l’unico a etichettare come animali una generazione di ragazzi di colore, spianando difatti la strada per una giustizia minorile più dura.

«Se non riconosciamo l’impatto che hanno avuto le storie passate – osserva il professor Taylor-Thompson – non credo che il comportamento dei media cambierà».

Note: [1] Sulla loro storia, nel 2019, è uscita una serie su Netflix, When They See Us.
[2] Una frase attribuita a volte a Mark Twain, altre volte a Winston Churchill, dice:“A lie can travel halfway around the world while the truth is putting on its shoes” (Quando una bugia ha già percorso la metà del mondo la verità si sta ancora mettendo le scarpe”
Tradotto da Laura Matilde Mannino, revisione di Giacomo Alessandroni per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
N.d.T.: Titolo originale: Superpredator

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