Riflessioni sulla tattica della comunicazione nonviolenta
Il mediattivismo pacifista
Il movimento per la pace dovrebbe imparare a dire verità scomodissime, a cercarle e documentarle rapidamente. Occorre smentire le bugie di guerra subito e non un mese dopo. La velocità della comunicazione è fondamentale per gestire il conflitto informativo in modo efficace.
11 ottobre 2021
Micromega mi ha chiesto di scrivere un pezzo per i 60 anni dalla Perugia Assisi. Mi hanno telefonato e queste sono state più o meno le parole: "Abbiamo visto quello che scrivi sull'Afghanistan, ti seguiamo e ci piacerebbe che scrivessi un pezzo".
Avevano notato che scrivevo come un dannato sull'Afghanistan, come se provassi un malessere della coscienza. E che scrivevo cose diverse dal solito, diciamo controcorrente. Avevano bisogno di una voce fuori dal coro.
E così ho scritto questo pezzo:
E' frutto di un mal di pancia enorme, e spero di non aver urtato nessuno, ma la sintesi di quanto penso è questa: il movimento pacifista rischia di istituzionalizzarsi e di non costituire più una spina nel fianco per il potere. E mi dispiace.
Devo confessare una cosa.
Da un po' di tempo sento il bisogno di trasformare il bagaglio di esperienza accumulato in tanti anni di lotta contro l'Ilva in un modello di mediattivismo utile anche per la lotta alla guerra. Praticamente le similitudini fra Ilva e guerra sono elevatissime. In entrambi i casi la sinistra è stata complice, in entrambi i casi ha detto le bugie, in entrambi i casi ha cercato di isolarci, in entrambi i casi c'era un versante associativo privo di mordente, e in entrambi i casi il mediattivismo ha delle carte interessanti da giocare, per rompere la finta opposizione all'inquinamento o alla guerra.
Che tattica usare per forare la "bolla" in cui il pacifismo rischia di venire confinato?
Bisogna usare argomenti insoliti, sconvolgenti, paradossali, così veri da non parer veri, privi di ogni accento ideologico, senza aggettivi ridondanti e con tantissimi dati schiaccianti, come Assange.
A Taranto con l'Ilva abbiamo fatto esattamente ciò che ha fatto Assange per il potere militare: svelare informazioni mai dette. Verità scomodissime. Ma la lezione di Assange non è entrata nello stile comunicativo del movimento pacifista, almeno in Italia. Prova ne è il fatto che non vedo grandi mobilitazioni per Assange con la bandiera arcobaleno.
Ma non è solo una questione di contenuti. E' una questione anche di ritmi, di sintonia con le notizie. Di velocità. Io non credo più nell'informazione lenta, nello slow food dell'informazione. Bisogna attaccare, e rapidamente, al momento giusto, non il giorno dopo.
Bisogna martellare come se si facesse parte di una "guerriglia nonviolenta", martellare di informazioni e controinformazioni, con la stessa velocità e destrezza dei media spregiudicati con l'elmetto, va fatto tutto ciò al momento giusto, non una settimana dopo o un mese dopo.
Per condurre una azione di tal genere occorre un'altissima dedizione, bisogna crederci, ma crederci davvero. Non bisogna essere rassegnati o assuefatti al male (che è la patologia dilagante fra di noi).
Non provare più indignazione per le terribili ingiustizie del mondo diventa, diciamolo pure, anche una scusa per difendere la propria zona di tranquillità privata.
Dobbiamo farci un serio esame di coscienza, coordinarci e organizzare la resistenza. Perché credo che l'assuefazione al male è entrata al nostro interno, alcuni hanno introiettato la sindrome della sconfitta e non lottano più. E questo mi dispiace tantissimo perché è in noi la ragione della forza e al tempo stesso della debolezza del pacifismo.
Parole chiave:
peacelink, cittadinanza attiva
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