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Pacifisti non si nasce, si diventa.

A 15 anni Medea Benjamin ha scoperto la bellezza del popolo palestinese

Medea Benjamin, la focosa co-fondatrice di CodePink, una delle maggiori associazioni per la pace negli Stati Uniti, ha regalato una coinvolgente “conversazione di gruppo” ad una quarantina di attivisti romani, venuti a sentirla il 3 settembre presso la Casa Internazionale delle Donne.
8 settembre 2024
Patrick Boylan

Incontro con Medea Benjamin alla Casa Internazionale delle Donne di Roma

La tempesta e la bomba d’acqua che hanno completamente immobilizzato il centro della Capitale, non hanno fermato l'incontro con la pasionaria rosa statunitense.

Medea ha esordito spiegando alla platea che, pur essendo lei stessa ebrea, considera il massacro israeliano a Gaza e in Cisgiordania inequivocabilmente un genocidio e lotta strenuamente, da quando era giovane, per una Palestina libera.  “A 15 anni i miei genitori, che erano ebrei osservanti, mi hanno mandato in un kibbutz israeliano in territorio palestinese per quattro mesi. Lì sono rimasta scioccata dal razzismo imperante: gli occupanti del kibbutz mi hanno proibito di parlare con gli ‘arabi’ intorno a noi – usavano la parola ‘arabi’ per non dover dire ‘palestinesi’.  Ma non avevano capito la mia indole ribelle: le loro ammonizioni erano quanto bastava per spingermi a frequentare i ragazzi e poi le famiglie palestinesi del luogo.  Gente bellissima (“lovely people”): non erano affatto antiebraici, anzi.  E poi il loro cibo era meraviglioso, mentre nel kibbutz si mangiava male.  Mi spezzava il cuore vedere come questi amabili palestinesi venivano trattati da chi occupava le loro terre – e stiamo parlando degli anni ‘60, figuriamoci oggi.”

Incontro con Medea Benjamin alla Casa Internazionale delle Donne di Roma

Ribelle da teenager, l’attivista statunitense è rimasta ribelle ancora oggi a settantun anni.  All’incontro, presieduto da Maura Cossutta della Casa Internazionale delle Donne e organizzato da Genevieve Vaughn con il gruppo Statunitensi per la Pace e la Giustizia, Medea ha raccontato come le donne di CodePink s’incontrano ogni mattina per la prima colazione nella mensa pubblica all’interno del Campidoglio a Washington DC (dove Medea risiede). Lì si dividono tra loro i senatori e i rappresentanti da interpellare e poi passano le prime ore della giornata a percorrere i corridoi del Senato e della Camera per agganciare i loro bersagli e perorare la causa del momento.

A partire dalla settimana prossima, le donne di CodePink cercheranno di raccogliere consensi per la mozione appena depositata dal Senatore democratico (e socialista!) Bernie Sanders: si tratta di una “Risoluzione congiunta di disapprovazione”, ovvero di una condanna del recente ordine esecutivo, firmato dal Presidente Joe Biden, che impegna gli USA a fornire a Israele armi per 20 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni.  In altre parole, l’ordine di Biden crea un vincolo (“lock in”) che rimarrà valido anche dopo la sua sostituzione alla Casa Bianca, chiunque sia Presidente, ivi compresa un’eventuale Kamala Harris che, non si sa mai, volesse cercare di mettere pressione su Israele minacciando di bloccare la fornitura di armamenti.  Per via dell’ordine esecutivo di Biden, lei non avrà questa opzione e pertanto Sanders (con Medea e compagnia) cercheranno ora di far saltare quell’ordine.

Alcuni partecipanti alla “conversazione di gruppo”, sono rimasti sbalorditi dal potere della lobby pro-Israele su Biden e sul Congresso.  “Quella lobby, che si chiama AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), è infatti estremamente ben finanziata, ben organizzata, capillare e determinata” ha spiegato Medea, dando poi un esempio. “Il Deputato dal Kentucky Thomas Massie ci ha rivelato come l’AIPAC assegna una ‘baby sitter’ a ogni membro del Parlamento fin dal giorno della sua elezione, incaricata di tenerlo d’occhio e di assicurare che “voterà bene” su questioni d’importanza per Israele, interpellandolo preventivamente e minacciando, in caso contrario, di fargli perdere le prossime elezioni.”  L’AIPAC ha infatti una scuderia di potenziali candidati pro-Israele da finanziare per prendere il posto di chiunque “voti male”.  Caso esemplare è quello di Cori Bush (nessuna parentela con gli ex Presidenti Bush), ovvero la deputata nera del Missouri che il 16 ottobre 2023 ha osato depositare una risoluzione chiedendo il cessate il fuoco a Gaza. Quando poi, lo scorso mese (6 agosto 2024) si è presentata alle elezioni primarie per mantenere il suo incarico, l’AIPAC ha lanciato contro di lei una campagna denigratoria e ha fortemente sostenuto un suo rivale: così la deputata ha perso le primarie, decadendo dal suo incarico.

L’AIPAC esercita la sua pressione non solo sui membri del Congresso, ma anche sulle personalità di richiamo capaci di influenzare l’opinione pubblica. “C’è per esempio il caso della celebre attrice Susan Sarandon, che si trova ormai boicottata a Hollywood a causa delle sue prese di posizione su Gaza,” ha rivelato Medea.  Julian Assange ha detto che “il coraggio è contagioso” e infatti Medea ha confidato che è stata lei a portare Susan Sarandon in Palestina per conoscere quel popolo da vicino.

“Ma noi non dobbiamo arrenderci davanti allo strapotere di AIPAC”, ha subito aggiunto Medea.  “Il fatto che la lobby debba spendere sempre più danaro per ‘disciplinare’ i senatori e i deputati mostra che stanno perdendo terreno.  Dobbiamo solo tener duro e continuare a lottare.”

E poi, come ha sottolineato Medea alla fine della sua conversazione, abbiamo dalla nostra parte il sostegno del Sud Globale: basta pensare alle iniziative per la pace in Palestina portate avanti dal presidente del Messico, dal presidente del Brasile, da una coalizione di Stati africani capeggiata dal Sudafrica, dall’Indonesia e, soprattutto, dalla Cina, che ha fatto una convincente proposta di accordo e inoltre, recentemente, è riuscita a mettere d’accordo le varie fazioni palestinesi [così da contrastare, con un fronte unico nelle trattative, la politica israeliana di divide et impera – ndr].  Speranza, dunque, c’è.”

Abbiamo intervistato Medea Benjamin a margine del suo incontro

del 3 settembre con gli attivisti romani, ponendole varie domande.

Ci puoi raccontare come sei diventata attivista?  C’è stato un momento di svolta nella tua vita?

Sono cresciuta durante l’epoca della guerra nel Vietnam e ho visto subito, mentre ero al liceo, che il mio governo mentiva e che le sue menzogne avevano conseguenze molto negative per il resto del mondo e per gli stessi cittadini statunitensi. Ho anche visto che spetta ai cittadini comuni imparare qual è la verità e cercare di cambiare le politiche governative.

In quel periodo, il cosiddetto ‘68, esisteva un grande movimento contro la guerra nel Vietnam e questo movimento mi ha dato un motivo per cui lottare, nonché un senso di responsabilità.  Sono stata ispirata, per esempio, da Jane Fonda e Tom Hayden, ho ammirato l’audacia delle loro azioni e la loro capacità di agire strategicamente. Ma mi ha ispirato soprattutto stare in mezzo alla gente, in mezzo a tante persone che mi hanno insegnato moltissime cose – per esempio, a collegare la tragedia della guerra con le tragedie della gente comune, come la povertà, gli sfratti, la malnutrizione. Collegamenti di cui parlava spesso Martin Luther King.

Le tue proteste sono così colorite e dirompenti: qual è la tua fonte d’ispirazione?

Mi piacciono le cose colorite, come l’arte caraibica.  Sono stata a Cuba e mi sono innamorata dell’arte di quel Paese, della musica, delle danze, dei murales, tutto era colorato e vibrante.  Per quanto riguarda la fonte dell’inventiva, ebbene, è la necessità che genera le idee originali – specificamente, la necessità di colpire i nostri bersagli lasciando il segno.

Faccio un esempio: volevamo protestare nelle riunioni dei consigli di amministrazione delle grandi aziende che inquinano e che producono armi, per poter far arrivare il nostro messaggio ecologista e antimilitarista a quei grandi investitori che non leggeranno mai i nostri cartelli per strada o i nostri volantini.  Così abbiamo deciso di comprare delle azioni in Borsa di alcune di queste aziende e ciò ci ha dato il diritto di partecipare alle riunioni e di portare la protesta direttamente alla fonte, cioè ai grandi azionisti.  Naturalmente, dopo un po’, quegli azionisti hanno capito la nostra strategia e ora gran parte delle riunioni dei consigli di amministrazione si svolge on line, dove non è possibile alzarsi in piedi e gridare e lanciare palloncini fucsia e rosa shocking come facevamo nelle sale dei consigli di amministrazione. Pazienza. Questo significa soltanto che ora abbiamo la necessità di inventare nuove strategie.

Le tue azioni di protesta sono sempre nonviolente, quindi evidentemente credi nella Nonviolenza Attiva, che peraltro è la base del Movimento Umanista.  Se è così, come rispondi agli scettici che considerano la nonviolenza un’utopia, qualcosa di inutile contro la forza bruta e la prepotenza?

Certamente crediamo nella Nonviolenza Attiva, pur sapendo che è un punto di arrivo, qualcosa a cui aspirare, una direzione da seguire per diventare poi più civilizzati.  Comunque, sta di fatto che la Nonviolenza diventa realmente efficace soprattutto se fatta collettivamente.  Do un esempio: per risolvere i conflitti in modo nonviolento, sono state create le istituzioni internazionali, che sono una risposta collettiva. Al momento queste istituzioni non funzionano come dovrebbero, ma ora tocca a noi renderle più efficaci. Come? Prendiamo il caso delle Nazioni Unite: pur detenendo tutti i poteri, il Consiglio di Sicurezza non riesce a risolvere i conflitti perché viene continuamente intralciato dal veto di questo o di quel membro permanente, mentre l’Assemblea Generale dell’ONU riesce abbastanza bene a deliberare le iniziative da intraprendere, solo che manca il potere esecutivo per metterle in pratica.  La soluzione non può che essere una: modificare o abolire il Consiglio di Sicurezza e dare i suoi poteri all’Assemblea Generale.  Ecco una lotta che vale la pena intraprendere – perché fa funzionare risposte collettive e così rende la Nonviolenza più praticabile nel mondo.

Ecco un altro esempio.  I movimenti nonviolenti esistono da decenni in Palestina, ma, come dicevo, per essere efficace, la pratica della nonviolenza richiede anche il sostegno della collettività.  Nel caso della Palestina, purtroppo, questo sostegno è proprio ciò che è mancato.  Noi statunitensi, insieme a voi europei, abbiamo da sempre voltato le spalle ai palestinesi.  Ed ecco perché è scoppiata la violenza: una fazione di palestinesi, lasciata da sola davanti a un invasore brutale che la stava soffocando, alla fine ha reagito.  Ma la colpa di ciò è anche nostra, come statunitensi e come europei, per aver lasciati soli i movimenti nonviolenti della Palestina.

Nel 2018 i palestinesi di Gaza hanno compiuto una drammatica azione nonviolenta per rompere l’assedio a cui Israele li sottopone da anni.  Hanno indetto la Grande Marcia del Ritorno: a mani nude, senza armi, decine di gazawi si sono avvicinate alle barriere che recintano Gaza e hanno gridato ai soldati israeliani, dall’altra parte, la loro richiesta di permettere ai rifugiati palestinesi di tornare nelle terre rubate loro dai coloni israeliani.  Qual è stata la risposta israeliana a questa azione nonviolenta? Fucilate e raffiche di mitra. Così, duecentoventitré palestinesi disarmati sono stati uccisi a sangue freddo – alcuni erano medici che cercavano di curare i fratelli feriti sul campo.  E qual è stata la risposta degli Stati Uniti e dell’Europa a tutto ciò? Si sono forse sollevati?  Hanno chiesto forse il diritto al ritorno?  Hanno almeno chiesto che gli spari israeliani cessassero?  Assolutamente no.  Ecco dov’è finita la Nonviolenza dei palestinesi: nella pattumiera occidentale. Perché, ripeto, per poter funzionare, la Nonviolenza richiede che anche la collettività assuma le sue responsabilità, interponendosi tra aggressore e aggredito, invece di guardare dall’altra parte.

Voglio essere chiara: con tutto ciò, non sto affatto dicendo che la reazione disperata e violenta di certi gazawi all’occupazione israeliana (e all’indifferenza occidentale) verificatasi lo scorso 7 ottobre fosse la strada giusta da seguire. Sono decisioni che solo i diretti interessati possono prendere, ma basta vedere gli orrori ancora più atroci che ne sono seguiti e si capisce subito che la violenza non fa che richiamare altra violenza e così all’infinito.  L’azione nonviolenta, invece, funziona alla lunga, ma richiede costanza e perseveranza e la capacità di mobilitare una risposta collettiva.

C’è infine un ultimo motivo per cercare di praticare e di far praticare la Nonviolenza Attiva (“attiva” vuol dire, appunto, creando poi le condizioni sociali perché possa funzionare davvero) ed è questo: se il ricorso alla violenza va rifiutato, è perché la violenza agisce anche contro chi la pratica. Lo avvilisce. Lo distrugge dal di dentro. Guardate, ad esempio, tutti i soldati affetti dal disturbo da stress post-traumatico per via delle violenze che hanno visto e che hanno dovuto commettere; tanti sono tornati a casa solo per suicidarsi o per compiere stragi per strada.

E’ proprio così.  Infatti è appena uscito un bellissimo documentario della Deutsche Welle, “Julian Assange e gli oscuri segreti della guerra”.  Mostra i terribili effetti della guerra in Iraq sulla psiche del soldato che ha salvato il ragazzo ferito che vediamo nel video di Assange Collateral Murder.  E’ un documentario sconvolgente, ma da vedere assolutamente (avendo cura di settare correttamente i sottotitoli in italiano agendo sul piccolo ingranaggio sullo schermo).

Grazie mille per il tuo tempo, ora seguiremo le proteste di CodePink con interesse ancora maggiore.

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