Verso il People’s Peace Summit di Gerusalemme, 8-9 maggio. Quando le donne si muovono…

Mancano ormai pochissimi giorni al Peace Summit di Gerusalemme ed ecco a parlarne -- in una intervista su Zoom -- tre donne formidabili, le organizzatrici del mega evento.
5 maggio 2025
Daniela Bezzi

Da sinistra Mika Almog, May Pundak, Maya Savir

Le tre protagoniste hanno organizzato quella prima convention che, il 1° luglio scorso, ha riempito il Menorah Stadium di Tel Aviv (se n'è parlato qui), con il sostegno di cinquanta organizzazioni pacifiste arabo-israeliane. Ed eccole di nuovo nello stesso ruolo di “art directors” per questo prossimo evento di Gerusalemme che vede coinvolta un’alleanza ancora più ampia.

Si chiamano Mika Almog, May Pundak e Maya Savir, e tutte e tre potrebbero essere descritte come “figlie d’arte” nell’arte, o meglio, infinita ricerca della “pace”. La prima che vedete nella foto, Mika, è infatti la nipote di Shimon Peres, Premio Nobel nel 1994 insieme a Yitzhak Rabin ed Arafat per gli Accordi di Oslo, ed è ben nota in Israele come attrice, sceneggiatrice e giornalista (molto polemista); la seconda, May, è un avvocato, alla guida (insieme alla palestinese Rule Hardal) dell’organizzazione A Land for All, ed è figlia del pacifista Ron Pundak, scomparso nel 2014 e considerato tra i principali ‘architetti’ dei suddetti accordi; la terza, Maya Savir, è nel direttivo dell’organizzazione Search for Common’s Ground e ha lavorato in vari progetti di sviluppo in Sudafrica che l’hanno portata a scrivere un libro intitolato On Reconciliation, sul processo di riconciliazione in Sudafrica e Ruanda, oltre a essere figlia del pacifista e scrittore Uri Savir, che addirittura guidò i negoziati che portarono agli accordi di Oslo.

Tre donne che con la pace (o meglio: con la difficoltà di arrivarci) sono proprio cresciute. Ed eccole a condividere di nuovo la sicura riuscita di questa due giorni che si terrà a Gerusalemme l’8 e il 9 maggio per ribadire la richiesta di un accordo che consenta a entrambi i popoli di immaginare “il giorno dopo la fine del conflitto”, un compito davvero enorme…

Qual è stato per voi l’inizio di questo impegnativo percorso?

Maya Savir – A pochi mesi dall’inizio della guerra era tutto così terribile, come ricorderete, e a un certo punto un piccolo gruppo di donne, credo non più di dieci, si è riunito per ragionare sul che fare: era inverno, era buio, faceva freddo, ma sentivamo il bisogno di agire. Si sono tenute varie riunioni a Tel Aviv e abbiamo capito che per superare lo scoraggiamento, era necessario mettersi al lavoro per creare questo “campo di pace”, per donne e uomini, se non altro per contarsi e magari scoprire che non siamo pochi, ma anzi più di quanto pensiamo. La gravità della situazione dopo il 7 ottobre era tale che abbiamo chiamato questo progetto “È ora”, per significare l’urgenza…

Abbiamo immediatamente lavorato all’idea di una coalizione che è davvero unica, perché, come puoi immaginare, non è facile mettere d’accordo così tante organizzazioni, ognuna con il proprio background di pensiero critico. Ma la situazione era così grave che siamo riuscite ad andare oltre le differenze e a convergere sui punti fondamentali: immediato cessate il fuoco, fine dell’occupazione, un accordo di pace tra due Stati alla pari, questi erano i punti che ci vedevano tutte d’accordo.

May Pundak – L’urgenza della nostra risposta è stata innescata da un’enorme conferenza organizzata dal movimento dei coloni a Gerusalemme poco dopo l’inizio della guerra, con la partecipazione di diversi rappresentanti del governo, tutti di estrema destra. Una parata impressionante, erano in tantissimi…

Mika Almog – La nostra insomma è stata una risposta senza precedenti a una situazione senza precedenti, e mi riferisco solo in parte a quanto accaduto il 7 ottobre a Gaza. Tutto ciò che ha portato a quel momento, tutto ciò che è successo in Israele negli ultimi 30 anni, la messa in pericolo della nostra democrazia: non è un caso che non si possa nemmeno più parlare di pace, il concetto stesso è stato ridicolizzato! Il processo di rimozione di ogni tipo di confronto da parte del nostro governo era diventato sempre più estremo e questo ha causato un senso di totale impotenza in chiunque volesse riaccendere il dibattito. Dopo il 7 ottobre si aveva l’impressione che tutto si stesse spostando a destra, anche perché la sinistra aveva così poco da offrire… E riguardo alla conferenza dei coloni citata da May, ricordo il commento di una di noi, Tami Yakira, che lavora per il New Israel Fund: “Noi ci posizioniamo in opposizione a loro, ma la loro forza è come riescono a proiettare la loro visione del futuro” e questo è stato probabilmente il punto di partenza: il desiderio di riaccendere una risposta, e la consapevolezza che doveva essere forte e che per essere forte era necessaria un’organizzazione forte … E come sapete, all’interno dei movimenti possono esserci differenze di ogni tipo, ma la priorità di concordare su qualcosa di così importante ha superato il privilegio di dissentire su questioni secondarie.

Queste dieci donne erano là in rappresentanza di alcune particolari organizzazioni?

Maya – Solo alcune, è stato davvero un incontro spontaneo e poi ognuna ha convocato altre donne e naturalmente anche uomini, e il lavoro di rete ha fatto sì che in 6 mila abbiamo riempito il Menorah Stadium di Tel Aviv il 1° luglio scorso: eravamo in 50 organizzazioni, e per questi prossimo evento saremo più di 60,  stiamo crescendo! Tutte loro sono rappresentate all’interno del comitato direttivo, organizzate in gruppi di lavoro. E ognuna di loro contribuisce con la propria prospettiva e visione e questo ci rende più forti.

May – La difficoltà di elaborare una narrazione coerente è sempre stata un problema per la sinistra in tutto il mondo. Come dicevano Mika e Maya, c’è molto pensiero critico, che a volte genera disunità, e questo non è ciò che vediamo sul fronte opposto al nostro: ciò che vediamo è piuttosto una forte unità, la capacità di mobilitarsi compatti per ciò che considerano il “bene supremo”. Ma mi sembra che molti che in passato sono stati magari poco attivi a livello politico si stanno risvegliando, con l’obiettivo di creare una nuova narrazione. Sono disponibili a contribuire con idee forti, con una nuova visione, con immaginazione politica, per aggregare sempre più soggetti dal basso, per fare massa critica, e con inedita creatività, cultura, competenze: siamo in questo incredibile momento di partecipazione, in cui si riscopre il bisogno di essere uniti, come vediamo da questa gran varietà di eventi, persone, luoghi, settori e credenze diversi, unite dal desiderio di realizzare qualcosa d’importante. E la pace è davvero per tutti, che siate religiosi o laici, più o meno giovani, amanti della musica… la pace è per tutti, questa è la forza di ciò che stiamo facendo.

Mika – Una caratteristica molto importante di questa alleanza è che è composta da organizzazioni ebraiche e arabe, sia all’interno di Israele che transfrontaliere: è il caso dell’organizzazione di cui May è co-direttrice che si chiama A land for All, come dell’organizzazione che io stessa dirigo. Nella loro struttura e leadership, hanno tutte una partecipazione sia israeliana che palestinese a tutti i livelli, dall’alto verso il basso. E anche i  dibattiti e gli incontri del Peace Summit sono stati concepiti secondo questo criterio di rappresentanza binazionale.

Dal 1° luglio dell’anno scorso ad oggi la situazione è molto cambiata e in peggio; stiamo assistendo in tempo reale a una catastrofe senza precedenti… Eppure state descrivendo un movimento pacifista in crescita, con una partecipazione della società civile inimmaginabile pochi mesi fa.

Mika – E’ così. A volte è necessario raggiungere un certo abisso di crisi per cambiare rotta. Imparare dai conflitti risolti in altri luoghi del mondo sarà infatti uno dei temi principali del nostro Peace Summit

Maya – … avremo esperti che parleranno di come è stata raggiunta la pace in Irlanda del Nord e in Bosnia, e ricercatori che hanno studiato e confrontato il “filo conduttore” che caratterizza questi processi e ciò che tutti hanno in comune: quel punto di rottura che porta a rendersi conto che le promesse fatte più e più volte per raggiungere la vittoria sono semplicemente… inattuabili. Anche qui da noi l’accettazione generale della guerra come unica opzione è molto cambiata rispetto a quando abbiamo iniziato a immaginare questi eventi di pace mesi fa: la situazione è diventata così catastrofica, come hai detto, che rende possibile parlare di pace come mai prima. Sempre più persone capiscono che non c’è altra scelta.

Solo pochi giorni fa abbiamo assistito a quell’incredibile piazza piena di gente a Tel Aviv, in protesta non solo per gli ostaggi, ma anche per i 18.000 bambini uccisi a Gaza… 

Mika – … e poi la Cerimonia Commemorativa Congiunta organizzata dai Combattenti per la Pace insieme al Parents Circle Family Forum, seguita in streaming da migliaia di persone in tutto il mondo. Entrambi gli eventi sono stati organizzati da membri della nostra alleanza, quello di Tel Aviv da un formidabile movimento che si chiama Standing Together, che ha contribuito anche alla Cerimonia Commemorativa. E’ così che “funziona” questa coalizione: come un movimento di movimenti, ed è un grosso risultato.

Maya – Tornando alla difficoltà di parlare di pace: prima del 7 ottobre la maggioranza degli ebrei israeliani considerava il conflitto “controllabile” o comunque distante, ma ora le cose sono cambiate. Anche se troppi israeliani continuano a sostenere soluzioni inquietanti e immorali, finalmente c’è un dibattito. C’è una crescente consapevolezza che il 7 ottobre è successo per una serie di ragioni… e che la pace è l’unico modo per impedirne un altro. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno: amplificare il dibattito, è il solo modo per contrastare la mentalità della destra.

Mika – Una prova che le cose stanno cambiando è la lettera sottoscritta da centinaia di piloti qualche settimana fa: ha dato il via a un dibattito enorme, migliaia di riservisti si sono espressi in solidarietà, con i loro nomi, prendendo posizione. Alcuni di loro saranno al Peace Summit per l’evento di apertura, fantastico! E quindi è vero che da un lato le cose stanno peggiorando, una catastrofe senza precedenti come hai detto; dall’altro però si stanno creando queste piattaforme di aperta opposizione alla guerra, e sembra che l’opinione pubblica sia finalmente disposta ad ascoltare…

Maya – Per molto tempo la grande maggioranza degli ebrei israeliani ha scelto di ignorare cosa stava succedendo a Gaza, ma ora è diverso: sempre più atrocità commesse dagli israeliani stanno raggiungendo gli ebrei israeliani e stiamo assistendo a una reazione, forse non abbastanza forte, ma è un inizio.

May – Come ha già sottolineato Maya, prima degli eventi del 7 ottobre la sfida più grande era convincere gli israeliani e la comunità internazionale della necessità di porre fine a questa guerra: la sfida era l’accettazione, lo status quo. Ciò che è chiaro ora è che quei tragici eventi hanno creato quella che considero un’opportunità molto importante per far capire a un numero crescente di persone che non si può continuare così: l’urgenza di porre fine a tutto questo non è mai stata così chiara. Il fatto che parecchi israeliani stiano sostenendo le atrocità in corso a Gaza può suggerire che la società israeliana sia irrecuperabilmente malata di razzismo ed estremismo… ma allo stesso tempo assistiamo a un graduale spostamento dell’opinione pubblica, che si rende conto che risolvere il conflitto è l’unica via verso la sicurezza. È quindi vero che la società israeliana sta attraversando il suo momento più buio, ma allo stesso tempo sempre più persone stanno capendo che per porre fine al conflitto è necessario un accordo politico che preveda uno Stato palestinese indipendente e sovrano. È importante considerare entrambe queste tendenze nella loro complessità e il fatto che non si escludono a vicenda, come emerge anche dai sondaggi.

Maya – La consapevolezza che non si può sopravvivere affidandosi alla forza militare, come continua a proporre la destra, è un segno di maturità. Quello a cui stiamo assistendo tra tanti ebrei israeliani, in risposta a questa opzione militare esclusiva, è un sentimento di tradimento: gli ostaggi sono stati traditi, i soldati che abbiamo mandato a combattere si sentono traditi per essere stati coinvolti in crimini di guerra, e la gente è stanca di non vedere alcuna ragione in tutto questo, a parte i problemi legali del nostro primo ministro, che è un uomo pericoloso.

May – Stiamo affermamdo dei valori: la sicurezza e l’incolumità del nostro popolo, il ritorno degli ostaggi, i bambini di Gaza. In tutti questi casi stiamo scegliendo la vita, stiamo dando priorità al futuro, nella consapevolezza che non saremo mai al sicuro finché gli stessi palestinesi non lo saranno. Questa conclusione è molto chiara all’interno del nostro campo pacifista: il fatto che dobbiamo procedere insieme, israeliani e palestinesi, consapevoli dell’interdipendenza tra i due popoli. Stiamo creando una nuova narrazione…

Mika: … e questa è una cosa che dovrebbe essere amplificata il più possibile: abbiamo partner palestinesi in Cisgiordania e anche a Gaza che, nel pieno di questa catastrofe, e sotto la più insopportabile oppressione, stanno scegliendo la pace e sono pronti a far sentire la loro voce. Alcuni di loro saranno presenti al vertice, non di persona ovviamente, ma con videomessaggi…

May – … dobbiamo però ricordare che la situazione tra Israele e Palestina è tutt’altro che equa. Maya ed io siamo alla guida di organizzazioni israelo-palestinesi per cui siamo spesso in Palestina; è quindi naturale per noi condividere e discutere queste idee con i nostri compagni palestinesi, ed è incredibile vedere il crescente favore per il nostro movimento anche lì. Ma è anche giusto dire che per i palestinesi parlare di pace è difficile in questo momento. Porre fine al genocidio è la priorità, la loro preoccupazione è la sicurezza, la sicurezza dei loro figli, il cibo in tavola. Ovvio che molti di loro vogliano la pace, ma più importante di ogni altra cosa è fermare il genocidio. E anche se questo Peace Summit è stato concepito come evento congiunto, è giusto considerarlo principalmente un’iniziativa israeliana, in termini di assunzione di responsabilità, un aspetto molto importante. È nostra responsabilità organizzare questo evento adesso: i palestinesi non sono in grado di porre fine a questa guerra, spetta agli israeliani farlo.

Maya – (…) Non potete sapere quanto sia difficile essere attivisti per la pace in Israele e Palestina di questi tempi: perciò abbiamo bisogno del vostro sostegno. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale sostenga questo campo di pace che sta lentamente guadagnando terreno tra Israele e Palestina. Abbiamo bisogno di sostegno come società civile, stiamo mantenendo vivo questo spazio in circostanze difficili. Nessun altro lo sta facendo.

May – E volete sapere qual è il carburante che sta muovendo questo percorso? La leadership femminile… (tutte e tre sorridono) Mika, Maya, Tami, potrei citarne tante altre… è ciò che ha reso possibile arrivare fino a qui…

Cosa potete prevedere all’orizzonte di questo summit?

Mika – È una bellissima domanda su cui stiamo discutendo e per la quale non abbiamo ancora una risposta, ma certamente tutta questa grande energia che stiamo creando non potrà non avere un qualche risultato a livello politico. Dobbiamo prepararci per le prossime elezioni, non necessariamente creando un nuovo partito, ma senz’altro influenzando: qualcosa del tipo “guardateci, imparate da ciò che stiamo facendo, prestate ascolto a ciò che stiamo dicendo…”

Maya – Dobbiamo essere molto leggeri, flessibili, le cose cambiano rapidamente… La priorità immediata è il cessate il fuoco, dovremo dedicare le nostre migliori energie a questo: porre fine alla catastrofe. Poi ci concentreremo sulla fine definitiva del conflitto e siamo molto ambiziosi: vogliamo la pace, niente di meno. Ma dobbiamo considerare anche l’attuale terribile crisi in Israele in tutti i suoi aspetti, compreso il colpo di Stato giudiziario: una situazione che è il risultato dell’occupazione. E se davvero vogliamo ripristinare la nostra democrazia, la democrazia così imperfetta di Israele, dobbiamo sottolineare in tutti i modi possibili e al più ampio pubblico tutti questi aspetti, instancabilmente…

May – Sono d’accordo con tutto ciò che ha appena detto Maya e vorrei solo aggiungere una cosa: ogni conflitto alla fine si conclude con ciò che si chiama “accordo di pace”, che non è mai lineare. Le cose cambiano molto rapidamente. Quello che stiamo cercando di fare in questo momento è assumerci le nostre responsabilità, all’interno della società israeliana, al fine di costruire la più grande e forte base di sostegno alla pace, che è l’ovvia via per un futuro migliore ed è qualcosa di elementare per noi, come israeliani che hanno a cuore se stessi e la propria vita, come lo è per i palestinesi che hanno a cuore se stessi e la propria vita. Ma giusto per chiarire: l’evento di Gerusalemme non sarà un Festival Peace & Love, ma un’affermazione collettiva, in termini di scelta per la vita, di scelta di un futuro migliore, e con un approccio molto pragmatico.

Questo è in estrema sintesi il nostro progetto: essere sempre di più e tutti insieme gridare a gran voce, con quanti più partners e risorse in campo, che stiamo lavorando per un futuro di pace.

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