Ventisei anni fa la mafia uccideva Libero Grassi,il "libero" imprenditore che ebbe il coraggio di ribellarsi al pizzo

Denunciò i ricattatori e chiese la protezione della polizia, ma i sicari lo freddarono davanti casaPrima dell'attentato mandò una lettera al Giornale di Sicilia che iniziava così: "Caro estortore..."
29 agosto 2007
Gemma Contin
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

«Caro estortore...». Comincia così la lettera che Libero Grassi, titolare della Sigma, ditta di biancheria maschile alle falde di Monte Pellegrino, a Palermo, inviò al Giornale di Sicilia il 10 gennaio 1991.
Spiegava l'imprenditore, rivolgendosi ai misteriosi uomini della mafia che si presentavano a pretendere il "pizzo", che la sua era un'azienda sana, a conduzione familiare, e che lui non aveva nessuna intenzione di farsi taglieggiare, gravando con quel balzello odioso sul suo stesso lavoro e su quello dei suoi figli, oltre che sui «100 addetti: 90 donne e 10 uomini che vi lavorano».
Che vi lavoravano; perché la Sigma, dopo l'uccisione di Grassi, avvenuta alle 7 e mezza del mattino in via Alfieri, sotto casa, il 29 agosto di quello stesso anno, e dopo alterne vicende e nonostante tutti gli sforzi fatti dai figli Davide e Alice e dalla moglie Pina Maisano, non è riuscita a sopravvivergli: la sezione fallimentare del Tribunale di Palermo ne ha decretato la fine.
Inseriamo la storia di questo imprenditore, libero di nome e di fatto, tra quelle che Liberazione sta ricostruendo sugli "onesti servitori delle Istituzioni" che hanno pagato con la vita la loro missione e il senso del dovere, perché è, quello di Libero Grassi, l'esempio estremo di chi non si arrende all'idea di vivere nell'illegalità piegandosi alla logica del taglieggiamento che Cosa Nostra impone all'economia e alla vita dei siciliani, tenendoli da un secolo con la schiena curva e a testa china, al di sotto delle loro potenzialità che così non riescono né a dispiegarsi né a liberare energie ed eccellenze, costrette a emigrare. O a piegarsi a loro volta. O a entrare nel circolo vizioso delle connivenze e della condivisione occulta di quegli stessi interessi criminali, in una spirale implosiva.
«La Sigma è un'azienda sana a conduzione familiare», spiegherà Grassi durante una puntata di Samarcanda, ospite d'eccezione nella trasmissione di Michele Santoro, «da anni produciamo biancheria da uomo: pigiami, boxer, slip, e vestaglie di target medio-alto che esportiamo in tutta Europa. Abbiamo 100 addetti: 90 donne e 10 uomini. Il nostro giro d'affari è pari a 7 miliardi annui. Evidentemente è stato proprio l'ottimo stato di salute dell'impresa ad attirare la loro attenzione. La prima volta mi chiesero i soldi per "i poveri amici carcerati, i picciotti chiusi all'Ucciardone". Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate: "Attento al magazzino"; "Guardati tuo figlio"; "Attento a te". Il mio interlocutore si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia,decisi di denunciarli».
Ma prima rende pubblico tutto, con quella lettera al più diffuso giornale palermitano: «Caro estortore...».
«Volevo avvertire il nostro ignoto estortore che non siamo disponibili a dare contributi e che ci siamo messi sotto la protezione della polizia... Se paghiamo i 50 milioni che ci hanno chiesto torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi: una retta mensile. Saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiano detto no al "geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui», asseriva di nuovo, con forza, con rabbia, senza l'ombra di un tentennamento, l'imprenditore siciliano davanti al pubblico di Samarcanda.
La mattina dopo la sua azienda era presidiata da polizia e carabinieri e da decine di televisioni di mezzo mondo: un fatto inaudito, mai visto prima nell'Isola.
Comincia così la vita a rischio di Libero Grassi, un uomo dal destino segnato in quel nome. Nomen omen : nel nome il presagio, dicevano i latini. «Un aggettivo - scherzava lui, voluto dal padre quando nacque, nel 1924, in pieno avvento del regime fascista - per tramandare la memoria del sacrificio di Giacomo Matteotti».
Dunque un democratico, un imprenditore illuminato, un repubblicano. Sarà infatti un militante nelle file del Pri di Ugo La Malfa, prima che lo stesso partito venga coinvolto nelle vicende di Tangentopoli, prima che molti dei suoi uomini politici siciliani entrino in inchieste sulle connivenze tra mafia e politica, mafia e affari, mafia ed enti pubblici.
Come quell'Ente minerario siciliano presieduto dal senatore diccì Graziano Verzotto, arrivato in Sicilia dal lontano Triveneto sulla scia dell'Eni e all'ombra di Enrico Mattei, che aveva tra le sue società collegate la So.Chi.Mi.Si, società chimico mineraria siciliana, il cui cassiere fu, anche dopo la condanna definitiva e fino alla sua uccisione, con carriera e stipendio mai revocati, il boss mafioso di Riesi Giuseppe Di Cristina, mentre amministratore delegato era l'esponente repubblicano nonché deputato nazionale Aristide Gunnella.
Contro l'imprenditore, non contro gli estortori e i mandanti della "pizzo connection", si scateneranno le furie e l'immediato isolamento da parte delle categorie di imprenditori e delle associazioni industriali. Come il presidente della Confindustria palermitana, Salvatore Cozzo, che dichiarò che Grassi aveva fatto «una tammurriata»: un casino, in un mondo abituato all'omertà e a pagare in silenzio.
Avrà invece tutta la solidarietà della Confesercenti di Palermo, che con la sua iniziativa "Sos Commercio" e con la solidarietà del futuro commissario straordinario antiracket Tano Grasso gli sarà molto vicina e farà propria la denuncia.
In un libro bianco che l'associazione degli esercenti pubblicherà a un mese dall'uccisione di Grassi, nel settembre del '91, dal titolo emblematico di Estorti & Riciclati , cominceranno a emergere i dati di una pratica che non solo dilaga ma che trasforma ben presto gli estorti in complici e subito dopo in membri essi stessi del sistema mafioso, da un lato, e dall'altro che serve da sponda per riciclare i proventi illeciti in attività di copertura, attraverso il loop perverso dell'estorsione-usura-appropriazione mafiosa dell'attività legale o del bene immobiliare o del patrimonio societario.
In quel libro bianco, edito da Franco Angeli, si trova anche la prefazione Meno parole più fatti , scritta da Giovanni Falcone, in cui il magistrato assassinato meno di due anni dopo nell' attentatuni di Capaci, scriveva: «Si è compreso che la causa principale dell'attuale pericolosità delle organizzazioni criminali risiede nell'enorme disponibilità di danaro di provenienza illecita e si sono affrontati due degli aspetti più importanti di tale tema, che coinvolgono direttamente la libera esplicazione delle attività imprenditoriali: il racket delle estorsioni e il riciclaggio del denaro sporco».
Le due questioni, scriveva Falcone sedici anni prima della strage di Duisburg, «sono più interconnesse di quanto potrebbe sembrare a prima vista, poiché l'attuale intensificata pressione delle organizzazioni criminali sulle categorie degli imprenditori trova attendibile spiegazione non soltanto nella maggior ferocia delle prime, ma anche nella necessità di reinvestimento di ingenti quantità di denaro di provenienza illecita. In altri termini, l'immissione della dirty money nei circuiti del mercato lecito passa anche attraverso l'utilizzo di imprese appartenenti a onesti imprenditori; e ciò si realizza costringendo questi ultimi non tanto a pagare il tradizionale "pizzo", ma a soggiacere a richieste ben più penetranti che non di rado si risolvono in una conduzione associata delle imprese con la drammatica prospettiva di una futura totale estromissione (eliminazione?) dell'imprenditore onesto».
Questo Falcone lo scriveva nel '91, un mese dopo l'uccisione del "ribelle" Libero Grassi, due anni prima di saltare in aria egli stesso, sedici prima della strage di Ferragosto per mano di un commando della 'ndrangheta calabrese in trasferta in Germania.
Mai così attuali e urgenti appaiono allora, anche per onorare la memoria di quell'«imprenditore senza paura», le due proposte cardine della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione: battere le mafie con la confisca dei patrimoni, accelerando la loro restituzione e il riutilizzo da parte delle amministrazioni e delle comunità locali, e concentrare l'attività investigativa e i controlli bancari sulla lotta al riciclaggio, aggiornando e perfezionando la legislazione antimafia in un testo unico che tenga conto sia dell'evoluzione internazionale ed extraterritoriale dei flussi finanziari, sia dei percorsi tecnologici, carsici, in cui si virtualizza e scompare la tracciabilità delle transazioni e lo scambio di electronic money.

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