Voltana

Un ricordo di mio padre

Il fascismo, la guerra

A vent’anni era ufficiale in Sicilia. Venne mandato in Jugoslavia. Catturato dai tedeschi, fu avviato in lager, prima in Polonia e poi in Germania. Il babbo era il bibliotecario clandestino dei prigionieri, che si scambiavano libri. Aveva ventidue anni, e rimase prigioniero fino ai ventiquattro.
26 febbraio 2020
Suor Franca Sartoni

In marzo saranno 30 anni dall’improvvisa scomparsa di mio padre, Werther Sartoni, di cui resta però ben viva la memoria, e non in me soltanto. Ripropongo una pagina che ho scritto anni fa, ripercorrendo quello che lui talvolta raccontava  alle “sue bambine”, e ricordandolo nel modo in cui ci giungeva allora, cioè con la semplicità. Fu uno dei più di 600.000 IMI che nel 1943 scelsero di seguire la propria coscienza, come Werther ha fatto poi, senza voler mai “apparire”, per tutta la sua esistenza. Mi sembra evidente che il suo amore per la vita e per quella che chiamava “tolleranza” abbiano molto da dire anche al nostro oggi.

 

Lugo, 5 gennaio 2020, Suor Franca Sartoni.

 

Il fascismo, la guerra.

 

Il babbo da bambino non voleva mai partecipare alle marce del sabato fascista; la multa che ogni tanto ne derivava era di cinque lire, una somma notevole per una famiglia di operai: la nonna piangeva mordendosi le mani e lo pregava “Che cosa ti costa andare ?”

            A vent’anni era ufficiale in Sicilia; ci raccontava come fosse bella la “Conca d’oro” con gli aranceti attorno a Palermo, come fossero lunghe le marce ed importante tener curati i piedi ed unti bene gli scarponi. Ci ha anche detto che una volta la truppa era schierata per la visita di un alto gerarca, tutto decorato e impettito, grosso e tronfio; mentre passava, lui ha fatto un sonoro versaccio. “E’ stato come se lo avessi punto, sgonfiato di colpo –raccontava- si è voltato infuriato, ma ormai l’effetto della parata era smontato”. Il babbo ha fatto quindici giorni in guardina, e ad un ufficiale anziano, che gli voleva bene, rispondeva “Non lo so”, quando gli chiedeva “Perché fai così?”

            Poi è stato mandato in Jugoslavia; si è fatto assegnare agli approvvigionamenti per non uccidere nessuno; una sola volta, però, ha impugnato la pistola per minacciare: è stato contro i suoi stessi uomini, per impedire che razziassero un villaggio. Nonostante questo, tutte le volte che trasmettevano alla televisione un film di guerra, se era ambientato in Jugoslavia il babbo aveva le lacrime agli occhi, e non è mai voluto andare in vacanza in quel Paese. Interrogato da noi figlie sui motivi, dato che in guerra non aveva ucciso nessuno, rispondeva che comunque era stato lì con l’esercito invasore. Dopo l’8 settembre del ’43 aveva scelto di non entrare nelle file dei partigiani di Tito: diceva che gli sembravano violenti, e che sarebbe stato assurdo “cambiare parte” nello stesso luogo in cui, fino ad un momento prima, era stato in tutt’altra posizione.

L’avevano dunque catturato e avviato in lager, prima in Polonia e poi in Germania. Ci raccontava che la sorte di molti soldati italiani era stata ben peggiore, e che a migliaia erano stati fucilati a Cefalonia. Una volta al mese, un fascista visitava il campo e chiedeva la loro firma a favore della repubblica di Salò: con questa, avrebbero potuto tornare a casa; in due anni, ha firmato solo uno dei suoi compagni. Il babbo allora aveva ventidue anni, e rimase prigioniero fino ai ventiquattro.

Ci diceva che era stato brutto non vedere un filo d’erba per tanto tempo, e che d’inverno c’erano anche quaranta gradi sotto zero e loro avevano delle giacche di tela. Dovevano lavorare, e la minestra che ricevevano era così cattiva che se ne serviva per lavarsi i piedi. Una volta che stava per morire di fame, è arrivato appena in tempo un pacco viveri dall’Italia.

Ci parlava bene dei civili del posto, che rischiavano la fucilazione per tirare di là dal filo del campo patate, che poi i prigionieri cuocevano di nascosto. A Natale i Polacchi, popolo molto religioso -osservava- lanciavano patate e candele. Il babbo era riuscito a nascondere un coltellino nell’imbottitura delle spalle della giacca; oltre a pelare le patate, gli era stato utile durante il viaggio dall’Italia dentro il vagone piombato: aveva fatto un foro nel legno e poteva guardare fuori; aveva visto le Alpi orientali.

Dalla claustrofobia indotta dalla detenzione non è mai guarito del tutto: quando, anni dopo, facevamo delle passeggiate in un parco, se c’era una recinzione la dovevamo oltrepassare. Per tornare al lager, un suo amico un giorno si è avvicinato al filo che precedeva quello attraversato dalla corrente, per stendere qualcosa ad asciugare: le guardie glielo hanno fucilato sotto gli occhi.

Il babbo era il bibliotecario clandestino dei prigionieri, che si scambiavano libri; inoltre, la domenica, organizzavano qualcosa, ad esempio concerti. Ci parlava di un violoncellista poi divenuto famoso: suonava un violino che erano riusciti a trovare ed accomodare, tenendolo fra le ginocchia come se fosse un violoncello.

Avvicinandosi l’Armata rossa, erano stati spostati in Germania, vicino a Bergen Belsen dove, ci diceva, era morta anche Anna Frank. Aveva visto le condizioni degli Ebrei.

Un giorno il babbo si è svegliato con un forte mal di denti ed è rimasto disteso sulla paglia; ha detto di aver bisogno di un dentista. Una SS ha inveito “Sporco Italiano, alzati e va a lavorare, non sei degno di andare dal dentista”. Il babbo ha replicato “Se non ne sono degno, non lo sono nemmeno di andare a lavorare”. La SS gli ha puntato la pistola alla tempia, ordinando “Alzati”, e lui ha ribadito “No”. Il babbo ci raccontava di essere talmente indignato, in quel momento, che si sarebbe lasciato uccidere piuttosto che obbedire. Ma i Russi erano a pochissimi chilometri e la SS, con un gesto di esasperazione, ha buttato via la pistola e ha lasciato perdere.

Durante un trasferimento, il babbo era vicino ad una fontana, legato, ed un soldato tedesco di appena dodici anni (probabilmente dell’ultima leva mandata al massacro per difendere Berlino) lo ha picchiato con il calcio del fucile. Lui l’ ha guardato negli occhi ed il soldato si è messo a piangere, ritornando bambino.

Il babbo ci diceva che anche i Russi facevano del male: di notte, si sentivano le urla delle donne tedesche trascinate nel loro accampamento dai villaggi.

Ma sono stati gli Inglesi a liberare Bergen Belsen e dintorni; un suo amico è morto per aver mangiato un intero chilo di zucchero che gli avevano dato.

Il babbo, per guarire, rimaneva disteso tutto il giorno sotto i grandi alberi della foresta, ascoltando il canto degli uccelli.

Ci ha parlato del porto di Amburgo distrutto dai bombardamenti: si vedeva il mare a distanza di chilometri, perché non c’era più un edificio in piedi.

Quando il babbo, ormai libero, è tornato a Forlì, in Piazza Saffi si è salvato per un pelo da una sparatoria fra soldati polacchi ubriachi, nascondendosi dietro ad una panchina di pietra; ha pensato “Va a finire che muoio adesso.”

Con noi affermava che dall’esperienza della guerra era uscito con un grande amore per la natura, la musica e la tolleranza.

La tolleranza è non offendere mai nessuno perché ha delle idee diverse. L’unico vero rimprovero, infatti, l’ho ricevuto da lui un giorno in cui parlavo, a tavola, di una assemblea del Liceo. Ai miei amici era stato impedito di prendere la parola, ed io avevo usato un termine forte, raccontando, sul gruppo studentesco che si opponeva a quello a cui appartenevo.

IMI (Internati Militari Italiani) nei lager tedeschi

Tratto da ‘Il babbo ha detto che’, in Franca Sartoni, “Le pantofole rosse”, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 2005.

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