Conflitti

Una vita per i diritti umani

Said-Emin Ibragimov, attivista ceceno per la pace e i diritti umani, racconta la sua vita, l’instancabile lotta pacifica per il suo popolo, mentre continua le azioni di protesta presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo
2 ottobre 2006
Maddalena Parolin (Osservatorio sui Balcani - PeaceLink)

Marcia della pace in Francia
“Sono ceceno, discendente di Bajsangur Beno, uno dei leader della guerra di liberazione del Caucaso del XIX secolo. Mio padre, Hasan Ibragimov, trascorse 12 anni in prigione per le sue idee anticomuniste. Mi aveva sempre detto di studiare seriamente e di lottare contro l’ingiustizia, cosa che cerco di fare come posso”.

Said-Emin Ibragimov, 60 anni, si presenta così ed inizia a raccontare la storia della sua vita che si intreccia con la storia di sofferenza del popolo ceceno dagli anni novanta in poi.
Racconta il periodo antecedente lo scoppio della prima guerra (nel 1994), la sua attività di Ministro delle Comunicazioni e la nascita della prima associazione per i diritti umani nell’allora Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Ceceno-Inguscia, nel 1990.

“La nostra organizzazione, che dirigo dal momento della sua registrazione, ha sempre fatto tutto il possibile per proteggere i diritti degli indifesi, senza distinzione di nazionalità, religione, o altre discriminanti. Siamo categoricamente contro la guerra e la violenza: non abbiamo mai imbracciato le armi. Tuttavia, difendendo gli altri, e non ricevendo mai da nessuno alcun tipo di supporto, incluso quello finanziario, noi stessi siamo diventati “indifesi”. Ventisette collaboratori della nostra organizzazione sono morti difendendo i diritti di altre persone. Io personalmente ho subito tre attentati e sono stato ferito dodici volte.”

Le “armi” di Ibragimov sono campagne, lettere, mobilitazioni, manifestazioni, appelli, marce, scioperi della fame, conferenze e incontri. Racconta gli sforzi di mediazione come ministro per evitare lo scoppio della prima guerra, le prime trasmissioni radiotelevisive in Cecenia per diffondere la conoscenza dei diritti umani, l’attivismo durante il primo conflitto durante il quale venne portato ferito in Azerbaijan, da lì riuscì a proseguire la sua attività prima in Turchia e poi in Danimarca, per rientrare poi nel 1996 dopo l’accordo di pace.

La marcia della pace

Nella primavera 1999, mentre si moltiplicavano i segni che indicavano il profilarsi all’orizzonte di un secondo conflitto, Ibragimov tentò di organizzare una marcia internazionale per la pace, nonostante la difficoltà di mezzi e le ostilità. Il 6 settembre, poco prima dell’inizio dei bombardamenti dell’esercito della Federazione Russa nella Repubblica Cecena, partì dalla piazza centrale di Grozny la lunga, avventurosa e drammatica marcia, che lungo i mesi percorse Dagestan, Inguscezia, Ossezia, Georgia, Azerbaijan, Turchia.

In Georgia i servizi di sicurezza tentarono di fermarlo. Racconta Ibragimov: “mi torturarono e mi lasciarono andare solo quando, vedendo che avevo perso conoscenza, temettero che morissi. Erano sicuri che non avrei proseguito. Ma alla data fissata, riprendemmo la nostra marcia della pace. Ci accompagnavano i giornalisti svedesi, giapponesi e francesi. Ma quando i giornalisti ci lasciarono, ci fermarono le truppe speciali, armate. Ricoprirono la strada di calcestruzzo e spararono in aria. Perché le persone non corressero rischi, ordinai di fermarci. Montammo le tende in un boschetto lungo la strada e rimanemmo lì tre mesi, mangiando quello che ci portavano i georgiani, i ceceni, e anche alcune famiglie russe che vivevano nel villaggio vicino. Eravamo sotto continua osservazione dei reparti speciali georgiani, ma, grazie all’aiuto di persone generose, riuscimmo a raggiungere l’Azerbaijan”.

Dalla Turchia, dopo mesi di difficoltà, con l’impossibilità di continuare la marcia e il rifiuto da parte dei paesi europei dell’autorizzazione a proseguirla altrove, Ibragimov ricevette il visto da rifugiato per la Francia, dove nel 2001 organizzò subito azioni di protesta e uno sciopero della fame presso il Consiglio d’Europa. Durante quel primo sciopero in Francia venne fatto ricoverare all’ospedale psichiatrico di Strasburgo, dove però fu dichiarato psichicamente sano e trasferito in una altra struttura, cessando (o interrompendo) la protesta solo quando riuscì ad ottenere incontri con parlamentari ed a far sì che la questione cecena venisse affrontata e discussa dalle istituzioni europee.

Mobilitazione a Strasburgo

Da molte settimane Ibragimov si reca quotidianamente alla sede dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE-PACE) a Strasburgo: con la bandiera della Cecenia e la sua tenacia instancabile cerca di portare l’attenzione sul dramma del suo popolo.

Oggi si apre la sessione autunnale dell’Assemblea e l’associazione “Mir i Prava Cheloveka” (Pace e Diritti Umani), di cui Ibragimov è fondatore e presidente, ha organizzato una mobilitazione di protesta lungo tutta la settimana e soprattutto mercoledì 4 ottobre, giornata in cui il Ministro degli Esteri della Federazione Russa Sergey Lavrov terrà il proprio discorso come presidente di turno del Comitato dei Ministri.

Scopo del meeting è portare l’attenzione sull’inadempienza del Consiglio d’Europa nel far applicare le raccomandazioni e risoluzioni concernenti la situazione in Cecenia, come la Risoluzione N° 1479, che l’Assemblea ha votato il 25 gennaio scorso anche in seguito ad una azione dello stesso Said-Emin Ibragimov. Dopo uno sciopero della fame durato oltre un mese, tra l’indifferenza dei media e dei parlamentari, Ibragimov in gravissime condizioni, aveva accettato di sospendere il digiuno, soprattutto grazie all’intervento del parlamentare tedesco Rudolf Bindig che ha portato in Assemblea il suo rapporto sulla Cecenia.

“Avrei voluto crederci, - racconta Ibragimov - ma l’esperienza insegna, per cui sospesi solamente lo sciopero della fame, sperando fortemente che la questione venisse risolta secondo le vie legali e che non mi toccasse più di digiunare. Davvero, solo chi ha digiunato anche solo un giorno, può capire cosa vuol dire. Ma, di nuovo, le mie speranze vennero deluse.”

La Russia, il Consiglio d’Europa e i diritti umani Strasburgo, Consiglio d+Europa

La Russia ha aderito al Consiglio d’Europa nel 1996, in maggio ha assunto per la prima volta la presidenza dell’istituzione che ha tra i suoi scopi e significati centrali la tutela dei diritti umani. La Federazione Russa è il paese con il maggior numero di ricorsi presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: nel 2005 ne sono stati presentati 9340. Su 83 sentenze emesse durante l’anno, 81 hanno riconosciuto lo stato responsabile di violazione di diritti umani.

La Corte Europea dei Diritti Umani sta prendendo una posizione sempre più chiara e ferma nei confronti di Mosca, ma lo stesso non si può dire del Consiglio d’Europa nel suo insieme, in particolare per quanto riguarda le effettive misure esecutive che dovrebbero seguire le risoluzioni dell’Assemblea Parlamentare.

“Spero di non dover di nuovo intraprendere uno sciopero della fame. Lo faccio non perché non ami la vita, al contrario, amo molto vivere. Ma non posso restare indifferente quando nella mia Patria soffrono e muoiono persone innocenti, e nessuno sa cosa ti succederà il giorno dopo o il minuto seguente”.

Per la prima volta da quando l’associazione Mir i Prava Cheloveka è stata registrata pubblicamente, nel gennaio 2002, la polizia di Strasburgo ha vietato una manifestazione indetta di fronte al palazzo del Consiglio d’Europa prevista per il 28 luglio 2006. Da quando la Federazione Russa ha assunto la presidenza (che manterrà fino al 19 novembre), le attività dell’organizzazione vengono particolarmente ostacolate: l’ufficio di Strasburgo è stato fatto chiudere, Ibragimov viene perseguitato telefonicamente in maniera costante e l’indirizzo e-mail miriprava@hotmail.com è stato bloccato dall’amministrazione di Hotmail.

Ma con una forza incredibile, Ibragimov prosegue le sue proteste pacifiche e la denuncia delle drammatiche violazioni dei diritti umani in Cecenia, alla ricerca di attenzione internazionale e cercando di dimostrare all’Europa che la Cecenia non è solo violenza e terrorismo. Senza perdere la fiducia nei metodi nonviolenti, anche quando è chiaro che attentati ed esplosioni ricevono più considerazione degli sforzi di dialogo.

Note: Da una testimonianza raccolta da Elena Murdaca, tradotta da Elena Murdaca e Claudia Redigolo.

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