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Intervista di Michael Busch a Christian Parenti, autore del libro "Tropic of Chaos"

Ignorata ogni correlazione tra cambiamento climatico e aumento delle tensioni sociali

Le future guerre per le risorse mondiali, che verranno scatenate dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, si potranno evitare solo se la classe politica globale darà priorità alla questione dell'ambiente.
23 ottobre 2011
Michael Busch (Insegnante di Relazioni Internazionali al City College di New York)
Tradotto da Daniele Buratti per PeaceLink
Fonte: www.truth-out.org - 14 ottobre 2011

Per molti aspetti il 2011 è stato contrassegnato dagli sconvolgimenti della natura e dai sollevamenti popolari. Sebbene le sfide all'autorità politica abbiano catturato l'attenzione di milioni di persone e abbiano trasmesso una gran voglia di cambiamento in tutti i continenti, la risposta sempre più feroce di Madre Natura alla pesante impronta ecologica della produzione industriale sarà probabilmente ricordata nei prossimi anni come la causa più profonda del cambiamento sociale nel mondo.

Dallo tsunami che ha colpito il Giappone e che ha scatenato la crisi nucleare peggiore dai tempi di Chernobyl, alla grave siccità che sta minacciando l'esistenza di milioni di persone nel Corno d'Africa, agli incendi, uragani e inondazioni periodiche che hanno sconvolto le coste del paese più ricco del mondo, il cambiamento climatico antropogenico sta indubbiamente condizionando sempre più politica e società un po' in tutto il mondo. Esondazione

“Tropic of Chaos”, l'ultimo eccellente libro di Christian Parenti che analizza le interazioni tra cambiamento climatico, politica economica neoliberale e diffusione della violenza politica, propone la tesi che la convergenza di queste minacce alla sicurezza internazionale stia indirizzando il pianeta verso uno scenario di catastrofi, conflitti e xenofobia. A meno che non si intervenga radicalmente per portare le relazioni internazionali su una traiettoria sicura.

Ho recentemente intervistato Parenti sul suo libro. E' stato per molti anni visiting scholar alla City University del New York Center for Place, Culture and Politics, e attualmente è visiting professor di sociologia al Brooklyn College. Abbiamo parlato delle guerre del clima del futuro, dei fallimenti di Washington e delle Nazioni Unite nella lotta contro il degrado ambientale, e su cosa occorra fare per evitare che il mondo venga gestito dalle politiche delle catastrofi naturali.

Michael Busch: Volevo iniziare parlando del titolo del libro, e, cosa più importante, del concetto teorico alla base dell'arco narrativo: cosa intende per “convergenza catastrofica”. Puo' darci un'idea di quale sia il peso dei vari fattori e di come abbiano influito sulla sua ricerca e sulla sua analisi? Aridità nel Texas

La “convergenza catastrofica” è la tesi che sottintende all'intero libro, l'idea che il cambiamento climatico non è costituito esclusivamente da tornado, inondazioni e siccità. Ma anche da violenza di religione, pulizie etniche, guerre civili, fallimenti di governi, migrazioni di massa, antiguerriglia e militarizzazione delle frontiere per contrastare l'immigrazione. Dunque solo raramente il cambiamento climatico è un fenomeno a sé stante. Di solito colpisce un sud globale già predisposto per la crisi. Le forze che inducono una situazione di precarietà sono militarismo e ristrutturazione radicale del mercato libero – il neoliberalismo. Dapprima il militarismo della guerra fredda e poi la guerra al terrore hanno inondato il Sud Globale di armi non sofisticate e addestramento all'omicidio e alla tortura, al contrabbando, alla guerriglia e al terrorismo. Il neoliberalismo ha incrementato povertà e diseguaglianza, e intaccato un tessuto sociale già precario.

Ma nel Nord Globale questa convergenza catastrofica ha posto una rinnovata enfasi sulla costituzione di uno stato di polizia, che esiste in molti stati europei e anche negli Stati Uniti. Perciò ora siamo ricaduti nel discorso della militarizzazione delle frontiere, che va di pari passo con un aumento della xenofobia e con politiche sempre più articolate sui temi ambientali – esiste una crisi ambientale; non servono chiacchiere; occorre circoscrivere l'immigrazione; dobbiamo essere pronti a rinunciare a qualche libertà civile; bisogna militarizzare le frontiere. Se il cambiamento climatico produce caos e caduta di governi nel Sud Globale, nel Nord Globale sta portando politiche autoritarie, almeno nelle fasi iniziali.

MB: Nel suo libro mostra l'evidenza inconfutabile che mentre la società americana non si interessa ancora molto alle politiche legate al cambiamento climatico, le forze armate statunitensi vedono molto bene le sfide future e stanno costruendo la loro dottrina sugli schemi dell'antiguerriglia. Secondo lei tutto questo da' vita alla 'politica della scialuppa di salvataggio armata'. Puo' dirci qualcosa di più su come l'esercito degli Stati Uniti stia rispondendo alle minacce climatiche e su quali crede che siano le prospettive di sopravvivenza della scialuppa armata?

CP: La risposta militare degli Stati Uniti non ha luogo solamente nell'area militare ma anche a livello statale, nelle forme di una xenofobia 'verde'. Le due cose non sono necessariamente in relazione, ma in pratica sortiscono lo stesso effetto, vale a dire un indurimento della politica. I militari – e lo dico a loro credito – prendono molto sul serio la scienza del clima. Non mettono in discussione l'ultimo documento dell'IPCC (Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico), appena pubblicato, criticato per via di alcune note errate a piè di pagina. E certamente errate lo erano. Commenti stupidi e arroganti, ma sia quegli errori che le relative correzioni non hanno alterato minimamente le conclusioni dell'IPCC. E i militari, al contrario dei Repubblicani o di altri esponenti della classe politica americana, le prendono molto sul serio.

I militari tracciano gli scenari del futuro. Quello che vedono è non tanto un aumento delle guerre convenzionali, quanto piuttosto un aumento di crisi umanitarie, guerre civili, atti di banditismo, guerre di religione, cadute di governi. E sanno che le forze armate verranno chiamate ad intervenire con varie forme di controllo delle crisi: antiguerriglia, interventi diretti, missioni umanitarie, consolidamenti di alleanze con altri stati, e anche con l'intensificarsi dell'addestramento e del ruolo di consulenza. Essenzialmente percepiscono il futuro come un'infinita antiguerriglia su scala globale, come viene anche indicato nei vari rapporti, alcuni pubblici ed altri segreti.

In termini di etica della scialuppa armata, che cercherebbe di porre rimedio alla crisi di un mondo in declino con l'uso della forza, troviamo esempi tra le emittenti della destra, nei cui dibattiti si parla di espulsione degli immigranti, o in persone come Deborah Walker, di cui parlo nel libro. La Walker si descrive come un'ambientalista della California Settentrionale. E' anche una xenofoba anti-immigrazione e una razzista. E poi c'è la Federazione per la Riforma dell'Immigrazione in America (FAIR), che non menziono nel libro perché non la conoscevo quando lo stavo scrivendo; ne ho sentito parlare solo dopo la pubblicazione del libro. La FAIR è la vecchia lobby anti-immigrazione di cui faceva parte Garrett Hardin e altri. E' cominciata con un gruppo chiamato 'Progressisti per la Riforma sull'Immigrazione' che cercava di parlare agli ambientalisti e ai progressisti con argomenti contro l'immigrazione, dicendo che il Paese non ce la faceva a sostenere l'impatto di così tanti immigrati e che essenzialmente l'immigrazione dovesse essere repressa. Scialuppa di immigranti nel Mediterraneo

Queste sono le caratteristiche dell'attuale inasprimento della risposta dello Stato. Possiamo immaginare come questo progetto di militarizzazione delle frontiere e di gestione planetaria di repressione e antiterrorismo possa creare un'atmosfera di consenso paranoico, atterrito e xenofobico in fasce sempre maggiori della popolazione americana. E' la politica della scialuppa armata: l'idea che appartiene solo a noi, che il mondo sta finendo e che dobbiamo resistere ad oltranza con l'uso della forza. Ma i militari – a ragione – non pensano che questo sia un buon piano a lungo termine. Affermano che bisogna gestire la cosa attraverso la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Altrimenti si faranno saltare tutti i parametri climatologici, il che porterà ad un'accelerazione del processo del cambiamento climatico e a tutte quelle trasformazioni radicali del clima che renderanno ardua la sopravvivenza della civiltà. L'innalzamento del livello del mare e la massiccia desertificazione dei granai del mondo, tra le altre cose, porranno enormi problemi anche alle economie più sviluppate. Questo è quanto prevedono gli scienziati, se noi continueremo a vivere come sempre, cioè bruciando combustibili fossili. Segnale anti immigrazione frontiera USA-Messico

MB: Ora parliamo dell'acqua, baluardo delle speranze ambientaliste dato che sembra uno dei pochi elementi che i governi sono disposti a difendere, e una risorsa su cui perfino antagonisti come India e Pakistan riescono a cooperare. Accenna spesso al fatto che “l'acqua è razionale” quando, ad esempio, parla del Trattato delle Acque dell'Indo (Indus Water Treaty), e mette in dubbio la sua tenuta nel lungo termine. Mi dica di come stanno le cose al momento e quali siano, per lei, le prospettive dell'accordo per il futuro.

CP: Questo trattato finora si è dimostrato molto valido, dato che funziona ancora adesso. Era stato negoziato nel 1959 e firmato nel 1960, ma ora sta entrando in crisi perché, tra l'altro, coloro che pianificano le misure per il cambiamento climatico e le élite di tutti i paesi sono consapevoli del fatto che le risorse idriche saranno sempre più scarse. E così l'India sta costruendo dighe e canali sul suo territorio di confine, adducendo che non sta violando le regole e che ha il diritto di usare l'acqua fintanto che non riduca l'apporto idrico del fiume. Ma dall'altra parte il Pakistan dice che il flusso d'acqua è diminuito, e questo fa cadere i sospetti sull'India. Credono che l'India non stia solo appropriandosi dell'acqua, ma che stia anche deviando il corso del fiume. E vediamo come quest'argomento faccia parte sempre di più delle argomentazioni dei fondamentalisti religiosi pachistani, i punti di forza asimmetrici coltivati dai servizi segreti pachistani – vedi il caso di Lashkar-e-Taiba e Jama'at-ud-Da'wah che hanno recentemente parlato di 'terrorismo dell'acqua' portato avanti dall'India e hanno detto che se l'acqua non scorre, allora scorrerà sangue. Dunque la questione si sta surriscaldando.

Ancora non si sa se il trattato potrà continuare a regolamentare le problematiche delle risorse idriche, sia perché la minaccia del cambiamento climatico fa ora parte dell'equazione, ma anche perché, specialmente in Pakistan, c'è stata una gestione pessima dell'accordo e poca volontà di attenersi alle regole. Al riguardo, ho scritto di recente un articolo sul quotidiano The Nation. Se si vuole che il Pakistan aderisca integralmente al trattato, bisognerebbe prima operare sulla giustizia sociale e sulla riforma agraria di quel Paese. Ma i gruppi di potere locali non ne vogliono sapere, e le agenzie umanitarie non lo hanno imposto come condizione per gli aiuti, né gli Stati Uniti hanno intenzione di metter bocca. In Pakistan esiste una tradizione di movimenti progressisti, ma in questi anni hanno subito una massiccia persecuzione e le loro richieste per la ridistribuzione economica sono rimaste disattese. La conseguenza è che, anche dopo le recenti tremende inondazioni, non ci sono stati progressi sul fronte della ridistribuzione del territorio o su quello della giustizia sociale, per non parlare di un miglior uso della terra.

MB: La capacità del mondo di mitigare i peggiori effetti del cambiamento climatico dipenderà in larga misura dagli sforzi multilaterali per contenere i danni. Tradizionalmente le Nazioni Unite sono sempre state il centro di gravità degli sforzi congiunti, eppure non hanno avuto successo. Copenhagen è stato un disastro e Cancun ha solo messo un po' di ordine nel caos. Tra l'altro, il Segretario delle N.U. non ha presenziato nemmeno gran parte delle riunioni. E come ha accennato, gli Stati Uniti, che avrebbero dovuto fare la prima mossa, non hanno assunto alcun ruolo di guida. Per quale motivo? Potrebbe dirci cosa ne pensa della strategia ambientalista dell'amministrazione Obama fino a questo momento, e quale ritiene dovrebbe essere la manovra di Washington per sortire qualche effetto positivo?

CP: Il quadro che ne fa è corretto. Gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo non produttivo, e dunque distruttivo. Non hanno preso sul serio i negoziati della Convenzione delle N.U. sul cambiamento climatico, che quindi sono naufragati. Rappresentiamo la più grande economia a livello mondiale, e fino a poco fa eravamo la nazione che registrava la più massiccia emissione di gas serra, finché la Cina non ci ha superato. Il mondo si aspetta la leadership degli Stati Uniti, ma l'operato dei loro politici, specialmente a Copenhagen, è stato deprimente. E la conseguenza è stato l'insuccesso, anche se ci si sta trascinando per approdare alla prossima tornata di negoziazioni a Durban, in Sud Africa.

Che cosa potrà far cambiare posizione all'America? La protesta, naturalmente. Ci deve essere un movimento che obblighi l'amministrazione Obama a cambiar rotta. Questa amministrazione sta dando prova di essere molto a destra su parecchi temi, compreso questo. Non ha fatto molti passi avanti per la risoluzione del problema, sebbene la sua base elettorale avesse questo tema molto a cuore. Perciò credo che ci sia bisogno di un movimento popolare che gli metta pressione. Ci sono campagne in corso che potrebbero provarci. Ad esempio 'Beyond Coal' (oltre il carbone) , una grande campagna sponsorizzata dal Sierra Club guidata da Michael Brune, e il lavoro che Greenpeace, Rainforest Action Network, il gruppo di azione diretta Radical Action for Mountain People Survival, e gruppi locali veterani come l'Ohio Valley Environmental Coalition che stanno contrastando la realizzazione di cave di carbone a cielo aperto e gli impianti di produzione di carbone. Utilizzando qualsiasi strumento, dalle lobby alle azioni legali, questi gruppi hanno impedito lo scavo di circa 130 miniere.

Dunque esistono campagne come quelle per la lotta al carbone che riescono a coinvolgere i cittadini. E poi ci sono state anche le azioni dell'agosto scorso contro l'oleodotto Keystone XL cxhe serve a portare il petrolio canadese attraverso gli Stati Uniti fino al Golfo, per la raffinatura e l'esportazione, in cui i cittadini hanno compiuto atti di disobbedienza civile nei confronti di Washington D.C. Ecco cosa ci vuole.

Oltre a questo, credo che anche il mondo del lavoro organizzato debba cominciare a preoccuparsi del problema climatico. L'impresa più recente è stata la pressione esercitata da Rich Trumka sull'amministrazione Obama per far entrare la Cina a far parte dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio, dato che Pechino stava finanziando il settore per le energie verdi. Nel nome della competizione, il CIO dell'AFL ('American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations') sta cercando di tagliare i sussidi alla Cina, cosa che, innanzitutto, non potranno fare. In secondo luogo non stanno richiedendo simili sussidi qui negli Stati Uniti, che potrebbero finanziare nuovi posti di lavoro. E' una cosa patetica. Dunque tutte le organizzazioni della sinistra devono darsi da fare sul serio per affrontare il problema clima, e creare un movimento che eserciti pressione sul governo affinché porti la questione sul tavolo internazionale.

Ora, riguardo a cosa potrebbe fare l'amministrazione Obama per ridurre le emissioni: se volesse aderire all'operato delle N.U., potrebbe fare molte cose senza dover chiedere il permesso ai Repubblicani. Ciminiere

Intanto l'EPA ha l'obbligo di regolamentare le emissioni dei gas serra. Questo lo si deve ai gruppi ambientalisti che per 10 anni hanno combattuto nei tribunali – vincendo infine la causa presso la Corte Suprema – ottenendo che l'EPA ('Environmental Protection Agency') applicasse il decreto legge del 1970 sulla qualità dell'aria (Clean Air Act), che sancisce che se le emissioni sono pericolose per la salute umana, allora devono essere regolamentate. E non ci piove che siano pericolose per l'uomo, visto il loro effetto negativo sull'ambiente. Dunque l'EPA ha l'obbligo della regolamentazione, e ha già cominciato a promulgare dei regolamenti. Purtroppo questi non sono molto consistenti. Di fatto sono alquanto blandi, e l'amministrazione ce la sta mettendo tutta perché i regolamenti tardino ad essere promulgati. Se l'EPA imponesse regole severe, ad esempio per le ciminiere degli impianti carboniferi e delle raffinerie di petrolio, potrebbe incoraggiare gli investimenti nel settore delle tecnologie verdi, dato che il costo crescente dell'energia sporca e le emissioni di anidride carbonica convincerebbero la gente ad abbandonare i vecchi sistemi.

L'altra cosa che il governo potrebbe fare è usare il suo enorme potere d'acquisto. Se gli acquisti governativi di parchi auto e di energia elettrica seguissero la normativa a salvaguardia dell'ambiente, si ridurrebbe sensibilmente l'impronta ambientale del settore pubblico. Al contempo si aiuterebbe anche il settore privato a raggiungere economie di scala e consentire forniture di energia, veicoli e servizi a costi competitivi rispetto a quelli del gasolio e della benzina.

MB: Vedendo che il centro del potere mondiale sta transitando da ovest ad est, con la cosiddetta crescita miracolosa della Cina, molti si preoccupano che il crescente potere politico ed economico della Cina sia costruito a spese del degrado ambientale, che sta aggravando il problema del clima a livello mondiale. Comunque nel libro accenna al fatto che la Cina ha cominciato a muoversi nella direzione della produzione si tecnologia pulita. Può' darci un'indicazione di come l'approccio cinese sia diverso da quello di Washington, e di cosa ci si potrebbe aspettare?

CP: Non credo che l'approccio cinese sia ancora molto ben organizzato. La cosa da tenere in mente è che l'operato di Pechino non è mosso da preoccupazioni di carattere climatico. E' stato in realtà il problema dell'inquinamento locale a far sì che la Cina abbracciasse le tecnologie verdi. Prenda il settore dell'eolico, ad esempio, che sta crescendo del 20% l'anno. Prima hanno invitato tutte le aziende occidentali del settore – Gamesa, Vestas, GE – e poi hanno copiato la loro tecnologia. La General Electric avrebbe potuto trascinare la Cina in tribunale cercando di provare il plagio, ma avrebbe ottenuto il solo risultato di essere tagliata fuori dal mercato cinese. Rimanendo zitti si sarebbero potuti prendere una fetta di mercato del 2%, mercato che sta crescendo davvero molto in fretta. Naturalmente hanno scelto la seconda opzione.

La lezione che possiamo apprendere dalla Cina è la stessa che ci ricordano molte economie asiatiche, e cioè che il capitalismo si sviluppa meglio se c'è una nazione forte alla guida. Sia i capitalisti che il capitale hanno bisogno di disciplina. Hanno bisogno di essere tassati e i loro investimenti devono essere guidati dallo Stato, perché se il mercato viene lasciato per conto suo – concetto che piace alla nostra attuale classe politica – non si otterranno i tipi di innovazioni e di sviluppo che hanno connotato tutta l'industrializzazione dell'estremo oriente. Il modello di comando capitalista abbracciato dalla Cina – una versione di quello sudcoreano, di Singapore, Taiwan e Hong Kong – questo modello di dirigenza ha avuto successo nel mitigare i peggiori abusi sulle persone e sulla natura inevitabili col capitalismo, e ha al contempo favorito le sue migliori qualità prometeiche.

Dopo tutto Marx non ha solo sparato a zero sul capitalismo, ma ne ha anche apprezzato la capacità di creare enormi quantità di ricchezza e di tecnologia, e di trasformare la faccia del pianeta. Ed è essenzialmente quello che abbiamo fatto, in malo modo, con i combustibili fossili. Ma dobbiamo rimboccarci le maniche e lottare per una re-industrializzazione basata sulle tecnologie pulite. Non credo sia realistico proporre di abbandonare l'industria e tornare alla produzione locale. Ma dobbiamo spingere sull'acceleratore durante questa crisi e riuscire a sfornare tecnologie pulite all'uscita dal tunnel. Questo vuol dire che dobbiamo smetterla di prendere l'aereo per andare dappertutto, usare grosse automobili e sprecare risorse. Dobbiamo consumare meno e trasformare radicalmente il modo in cui viviamo. Ma non ci riusciremo voltando le spalle a macchinari ed elettricità. Servono generatori eolici. Senza di essi continueremo a bruciare carbone e cominceremo a preparare gli AK-47 per difenderci dai prossimi assalti dei nostri vicini. Energie rinnovabili

Note: Articolo originale:http://www.truth-out.org/climate-change-often-unacknowledged-contributor-increased-violence-and-authoritarianism/1318276701
Tradotto da Daniele Buratti per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
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