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Recensione al libro di Jacques R. Pauwels (Zambon Editore, 2017)

La grande guerra di classe

20 settembre 2017
David Lifodi

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La grande guerra di classe, il volume dello storico Jacques R. Pauwels dedicato alla prima guerra mondiale, ha il merito di leggere il conflitto 1914-1918 in una chiave assai originale e probabilmente mai affrontata prima. Non solo ne fecero le spese 9 milioni di persone, più i 7 di civili che morirono per gli effetti collaterali della guerra, ma furono anche il proletariato ed il sottoproletariato ad essere le vittime, politicamente parlando, degli ideali nazionalisti propagandati dalle elites.

Le fasce sociali più deboli finirono per subire doppiamente gli effetti del primo conflitto mondiale: da un lato, gran parte di loro cadde in battaglia, a seguito della coscrizione obbligatoria e di una campagna di stampa martellante che propagandava la “bella morte” per difendere la patria, dall’altro furono gli stessi partiti socialisti europei a farsi abbindolare, abbandonando quegli ideali di pace, giustizia sociale, libertà e antimilitarismo da sempre sostenuti per sposare, più o meno inconsapevolmente, le idee belligeranti della borghesia. Quest’ultima, da parte sua, si fregava le mani: a qualsiasi latitudine del continente europeo il socialismo rivoluzionario era stato sgominato più facilmente di quanto potesse attendersi.

L’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando, avvenuto il 28 giugno 1914 per mano dello studente nazionalista Gavrilo Princip, fu la “buona ragione” che le grandi potenze tanto aspettavano, al pari delle loro classi dirigenti. Tra le prime vittime della guerra, non a caso, vi fu il dirigente socialista francese Jean Jaurès, internazionalista e pacifista, ucciso da un nazionalista a Parigi il 31 luglio 1914 poiché si dichiarò fino all’ultimo contrario al conflitto mondiale. La retorica che la propaganda utilizzò per far presa sul proletariato e convincerlo della necessità di una guerra giusta è poco diversa da quella degli ultimi 25-30 anni, che ci ha spacciato via via come necessarie o umanitarie le aggressioni militari ai danni del Kosovo, dell’Irak, della Siria e dell’Afghanistan, solo per fare alcuni esempi, ed è altrettanto simile ai proclami belligeranti dei gruppi terroristici legati all’integralismo islamico. A questo proposito, Pauwels scrive: “Anche al giorno d’oggi, le autorità e i media ricorrono a un linguaggio simile, ad esempio non si scrive mai che i nostri soldati in Afghanistan sono stati <<uccisi>>, ma che sono morti a seguito di un’esplosione, di un colpo di fucile o di un attacco dei Taliban”. Travestire semanticamente eventi ripugnanti per poterli vendere meglio di come si presentavano ad intere popolazioni fu un compito che le elites raggiunsero facilmente. In pochi percepirono che il primo conflitto mondiale mirava a ridurre al silenzio i nemici del militarismo e dell’imperialismo, poiché tutti vi intravedevano la possibilità di trarre dei vantaggi dal punto di vista economico.

Fu così che la guerra si trasformò in un conflitto di popolo, ma non nel senso rivoluzionario del termine, quanto, piuttosto, secondo il concetto che tutte le classi avrebbero dovuto contribuire allo sforzo bellico, anche se i benefici sarebbero andati esclusivamente a vantaggio dell’aristocrazia: i costi erano socializzati, ma gli stessi benefici privatizzati. I partiti socialisti non riuscirono a cogliere nel breve periodo che le elites intendevano soppiantare l’internazionalismo socialista per sostituirlo con il più subdolo, quanto redditizio (solo per loro) “imperialismo sociale”, anche perché, negli ultimi decenni del XIX secolo, una buona parte della classe operaia europea aveva visto migliorare le sue condizioni di vita. Di conseguenza, i partiti socialisti europei, convinti di aver già vinto nel campo delle rivendicazioni sociali, ne rimasero abbagliati e finirono per diventare “social-chauvinisti”, convinti che anche le fasce sociali da loro rappresentate avrebbero potuto trarre dei benefici dalla guerra in termini economici.

In realtà, il corso della storia sarà diverso, ma, quando tra i soldati dei diversi schieramenti iniziarono a crescere episodi di solidarietà e fraternità contro il vero nemico comune, i generali e gli ufficiali che li avevano costretti ad un’estenuante agonia nelle trincee, ormai era tardi e l’aristocrazia dei proprietari terrieri, insieme all’alta borghesia industriale e finanziaria, aveva avuto la meglio. La classe lavoratrice iniziò a capire che la guerra non avrebbe più rappresentato uno strumento di sostentamento, come pensava agli albori del primo conflitto mondiale, ma ormai l’espansionismo e la guerra totale avevano prevalso.

Pauwels termina il suo lavoro chiedendosi cosa sarebbe accaduto se i partiti socialisti non si fossero fatti attrarre dalla propaganda guerrafondaia. Fu alla fine della prima guerra mondiale che, in corrispondenza con il propagarsi della rivoluzione russa, riprese di nuovo fiato quella via rivoluzionaria temporaneamente e colpevolmente abbandonata per lasciare spazio al bellicismo nazionalista.

La grande guerra di classe

di Jacques R. Pauwels

Zambon Editore, 2017

Pagg. 557

€ 27

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte e l'autore.

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