Terremoto e ricostruzione

L'Aquila da noi in poi

Un senso di appartenenza prorompente, smisurato, è ciò a cui ogni aquilano, oggi, si aggrappa. Un senso di appartenenza a una terra che può sbranarti da un momento all'altro. Ma per ricominciare bisogna almeno sentirsi parte di qualcosa.
29 giugno 2009
Fabiana D'Ascenzo

Lavori di costruzione di una chiesa di legno offerta dalla Provincia di Trento

Ritrovarsi in una città sventrata fa una certa impressione. Mi piacerebbe trasmetterla a quanti – spero tanti – non l’hanno provato. Mi piacerebbe trasmetterla al resto del paese che, giustamente, va avanti. Ma non è cosa semplice, e per giunta è sfiancante, ricostruire un filo dal magma emotivo, dare una direzione alle storie, migliaia, che si confondono fino a divenire una storia sola.
Un senso di appartenenza prorompente, smisurato, persino a volte deforme, che non è azzardato definire finanche patologico, a tratti imbarazzante ma in ogni caso, indiscutibilmente, legittimo, è ciò a cui ogni aquilano, di nascita o adozione, per residenza o domicilio, oggi si aggrappa. Un senso del luogo che invade, ora che il luogo mostra la propria irriconoscibilità e che il patrimonio collettivo – ambientale, storico, culturale e inevitabilmente identitario – va sfumando. E tanto più la propria casa, per chi una casa ce l’ha ancora, fa paura e diventa da luogo della sicurezza luogo della minaccia, da luogo della certezza luogo della precarietà, tanto più questo senso di appartenenza si rafforza. Come se una casa, gli abitanti di una città, ce l’avessero dentro e fosse la stessa per tutti.
Mesi di terremoti, di angosce quotidiane rinnovate. Case svuotate di voci e luci. Strade desolate. Animali domestici attoniti. Gli occhi persi nel vuoto degli anziani nelle tendopoli. Il litorale invaso dei primi tempi, gli sfollati in tuta da ginnastica. Il via vai sull’autostrada, tornare un giorno a vedere la propria casa, quel che resta del posto di lavoro. E per chi ancora ce l’ha un lavoro, le file al casello all’alba e al tramonto, ogni santo giorno della settimana, la benzina bruciata per rincorrere il fantasma di una normalità inesistente.
Un senso di appartenenza non si sa bene a cosa. A una terra che può sbranarti da un momento all’altro ma che continui a sentire tua più di qualsiasi altra cosa che ti riguardi. Perché, in realtà, sei tu ad appartenerle. Sotto un cielo inquieto di elicotteri, sopra un suolo che all’improvviso comincia a muoversi come gelatina, mentre la vista si fa sfocata e gli alberi sembrano uscire da terra, mentre qualcosa ti spinge a pensare che non si può restare qui, mentre guardi la casa da fuori e speri che ce la faccia ancora una volta, mentre imprechi che caschi pure, che non se ne può più, mentre le sirene tagliano la notte con gli ululati dei cani, mentre tutto questo e tutto l’altro accade, sai che non ti lascerai portare via.
Intanto le multinazionali si infastidiscono, si spostano come al passaggio di una zanzara, lasciano dietro di sé qualche centinaio di disoccupati in più; gli imperatori sfilano, si fanno fotografare mentre gettano un’altra moneta nel piatto; le divise messe a lucido dominano. Intanto i ragazzini vanno nelle scuole di altri e le università combattono lo smembramento.
E mentre tutto questo e tutto l’altro accade, qualcuno stucca una crepa, ripara un balcone, taglia l’erba del prato, pianta i pomodori. Spuntano ovunque casette di legno, dal giorno alla notte, come in un sogno o in una fiaba. E il battere incessante dei martelli durante la giornata non stanca: sembra, anzi, un battito d’ali, ora che l’estate è arrivata.
Lo scarto tra L’Aquila com’era e L’Aquila com’è è insopportabile. Vorremmo aprire gli occhi, domani, e ritrovare tutto al proprio posto. Ma l’evidenza parla d’altro e per ricominciare bisogna almeno sentirsi parte di qualcosa, appartenere: a un grumo, che inizia da noi ma va al di là, che arriva ai nostri figli, anche a quelli che non abbiamo o a quelli che non abbiamo più. E questo senso del luogo, del proprio posto nel mondo, questa identità macerata che resiste, queste relazioni recise che tentano di riallacciarsi, sono quanto di più prezioso ci si ritrova tra le mani.
Bisogna implicarsi in un progetto che forse non avremo il tempo di vedere realizzato con lo stesso impegno con il quale ci si dedica a un lavoro da concludere entro sera, per vedere comunque rinascere qualcosa. Perché qualsiasi cosa deve, prima di tutto, rinascere dentro. E benché questa condizione sia, oltre che drammatica, difficilmente concepibile, è l’unica che ci è data. Ricominciare da noi e da qui: perché un luogo non è una mutanda. Un luogo è carne e sangue, è terra e tutto quel che ci sta sopra, è lavoro di uomini. Ed è chi lo vive che sa perché si trova lì.

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