Conflitti

Manifest Destiny, un destino rivelato – Lo stile del XXI secolo

Il mito della superiorità culturale, religiosa, politica e sociale degli Stati Uniti

1 maggio 2005
Di Kristina M. Gronquist
Fonte: InformationClearingHouse

ManifestDestiny L’idea di Manifest Destiny (Un destino rivelato) è la convinzione ottocentesca che il piano di Dio prevedesse che il continente Nordamericano fosse sotto il controllo di americani di origine europea e cristiani.

L’ideologia di Manifest Destiny è stata il fondamento di tutti gli sforzi del governo Usa per colonizzare una terra abitata dalle popolazioni indigene del Nord America ed estendere gli Stati Uniti fin dentro il territorio messicano.

Tutti coloro che credevano a Manifest Destiny hanno affermato che i governanti degli Stati Uniti erano dei predestinati con il compito di diffondere i loro presunti valori superiori in terre vicine e lontane. La propaganda, gli interventi armati, le occupazioni e il terrore sono state utilizzate a questo scopo, ora una ora l’altra, ora insieme a seconda delle circostanze, in modi vari e insidiosi. La popolazione indigena sulla cui terra noi abitiamo, è la migliore testimonianza dei risultati della politica di Manifest Destiny, dato che è sopravvissuta a secoli di ingiustizie impronunciabili e, pur avendo perso milioni di persone, è sopravvissuta.

Ulysses S. Grant, la figura di militare più in vista di quell’epoca, ed uno di coloro che partecipò alla Guerra Messicano-Americana, scriveva nelle sue memorie: “Non penso che ci sia mai stata una guerra più iniqua di quella che gli Stati Uniti hanno lanciato contro il Messico. Lo pensavo anche all’epoca, quando ero un ragazzo, ma non avevo abbastanza coraggio morale per ritirarmi.”

Le vergognose idee di Manifest Destiny dovrebbero essere custodite e confinate solo nei libri di storia, eppure hanno fatto nuovamente capolino in tutta la loro mostruosità, come appare evidente nella missione del nostro governo per il XXI secolo: rimodellare l’assetto del Medio Oriente.

Naturalmente la psicologia di Manifest Destiny, cioè l’affermazione della supremazia Anglo-Americana, non era mai sparita di scena, anzi, è sempre stata usata per giustificare le imprese espansionistiche dell’America.

La sconfitta nella Guerra del Vietnam aveva portato gli Stati Uniti ad agire in maniera coperta, vedi i tentativi di mandare a monte la rivolta nicaraguese negli anni ’80 e il sostegno dato alle squadre della morte in El Salvador e in Guatemala. In effetti la politica estera degli Stati Uniti si è basata costantemente su una visione arrogante e razzista secondo la quale “L’America sa cosa è meglio”.

Il mito della superiorità culturale, religiosa, politica e sociale degli Stati Uniti si è rafforzato così tanto negli anni che oramai per la maggior parte degli Americani è un presupposto e un dato di fatto certo.

Nel linguaggio delle scienze politiche, questo fenomeno è chiamato “reificazione”: cioè quando ciò che è mito viene accettato come se fosse realtà. Il dibattito pubblico è spesso vuoto perché noi non siamo in grado di domandarci:

1) se il sistema di governo statunitense è voluto o meno dai non-americani, o

2) se il modello Usa “taglia unica per tutti” offra delle soluzioni vere alla gente in altri paesi.

Senza tale dibattito, il processo di reificazione diventa addirittura spaventoso: se è un dato di fatto che il nostro sistema e i nostri valori sono superiori, ne segue che trasformare gli altri a nostra immagine sarà sempre uno “scopo” valido. Qualsiasi mezzo per raggiungere il valido scopo prestabilito allora, può essere usato, ma non messo in discussione.

Questo è il motivo per cui gli Stati Uniti hanno invaso e devastato l’Iraq, e il motivo per cui i nostri leader e una larga maggioranza di americani può ignorare 100.000 civili iracheni che hanno perso la vita.

Se è un dato di fatto che avere un Iraq occidentalizzato e capitalistico è un obiettivo accettabile, allora i mezzi attraverso i quali lo si raggiunge possono anche essere illegali, spietati, sanguinosi, disumani e quant’altro…

I mezzi sono illimitati. Ormai, è possibile riconoscere quello sguardo costantemente assente e leggermente fuori dalla realtà negli occhi dei leader di questa amministrazione ogni volta che parlano della “democrazia” in Iraq.

Il loro sguardo è alto e fisso solo sugli obiettivi, ma non hanno mai guardato in basso per controllare e valutare con quali terribili mezzi stanno tentando di raggiungere quegli scopi.

Naturalmente, questo progetto di “rifare l’Iraq” non è certo ispirato in maniera genuina da un vera ed elevata volontà di implementare la democrazia. Al contrario, il suo scopo è di sincronizzare e allineare i valori sociali e culturali del Medio Oriente con quelli dell’Occidente capitalista, perché questo faciliterà ancora di più la creazione di un ordine globale che ruoti attorno agli interessi economici delle èlite statunitensi.

Quando ricordiamo i giorni immediatamente successivi all’invasione delle truppe che entrarono a Baghdad, tutti ancora sobbalziamo pensando a quando musei e biblioteche di Baghdad vennero distrutte da una dilagante azione di saccheggio. Le truppe statunitensi stavano lì ferme mentre la storia culturale irachena veniva cancellata. Oggi ci sono iracheni che dicono che questo fu un atteggiamento deliberato, un tentativo di cancellare le testimonianze della grande eredità storica e culturale dell’Iraq, di fare tabula rasa cosicché i valori occidentali potessero essere imposti più facilmente.

Centinaia di giovani iracheni recentemente si sono riversati per le strade per protestare contro una nuova ordinanza del governo che fa del sabato il giorno di festa ufficiale in Iraq, allineando così ufficialmente il week-end iracheno con quello occidentale. Il giorno sacro per i musulmani è il venerdì, e la maggior parte dei paesi musulmani ha giovedì e venerdì festivi, oppure solo venerdì. Un proclama nell’Università Mustansariyah di Baghdad recita: “Dichiariamo sciopero generale nell’Università Mustansariyah per protestare contro questo ordinamento e contro ogni decisione che intenda privare gli iracheni della loro identità”.

Fin dall’invasione, ci sono stati esempi di cambiamenti del genere. La CPA, Coalizione per l’Autorità Provvisoria, sotto la guida di L. Paul Bremer, e il governo ad interim che è seguito, hanno distrutto e poi ricostruito la legislazione dell’Iraq in molte parti. Il fatto che la CPA si sia immischiata nella legge dell’Iraq viola le Norme Hague del 1907 e la IV Convenzione di Ginevra del 1949, che regolano il trattamento degli cittadini di territori militarmente occupati. Si vieta agli occupanti di operare delle alterazioni profonde al carattere della società occupata.

La stampa non ha riportato l’ampiezza dei tanti cambiamenti. Se ne sente parlare solo ogni tanto, come in un articolo della Associated Press del 27 febbraio 2005, che prende in giro gli studenti in protesta, e che fa un ritratto degli studenti iracheni come degli sciocchi per non volere il sabato libero. Questo tono paternalistico e di superiorità è quello prevalente in tutti gli articoli americani sulla società irachena. La stampa occidentale resuscita e rafforza l’idea colonialista che le persone di pelle scura e di terre straniere non siano capaci di fare niente di buono. I loro costumi, la loro religione e cultura non sono convenientemente “moderne” e neppure abbastanza avanzate, come la nostra, e devono mettersi in regola col programma, santo Dio!

Ma molti musulmani in Medio Oriente non vogliono seguire “il programma” perché in passato hanno già subito il programma coloniale. Come le popolazioni indigene, che allo stesso modo rifiutano tentativi di assimilarli e smantellare la loro identità, neanche i musulmani del Medio Oriente vogliono essere segregati in riserve, non vogliono stare a guardare le ricche città dei loro paesi luccicare e canticchiare con denaro proveniente dal petrolio americano. Catene di fast food e di grandi alberghi sono ad ogni angolo e grandi magazzini che offrono scarsi stipendi e prodotti scadenti possono forse essere il sogno americano, ma sono certamente un incubo per i musulmani.

Il 25 febbraio, una conferenza svoltasi in Qatar ha fatto un appello per diffondere la cultura della resistenza pacifica alle politiche aggressive adottate dalle potenze mondiali nei confronti dei paesi musulmani. I partecipanti erano un gruppo di noti scienziati musulmani, intellettuali e dignitari. Il Dottor Abdael Rahman al-Nuaimi, direttore del Centro Arabo per lo Studio e la Ricerca, ha dichiarato che i musulmani devono affrontare durissime campagne condotte contro di loro su vari fronti a livello mondiale, che tentano di imporre la propria egemonia sul popolo musulmano per distruggere il loro sistema sociale.

Nell’incontro di apertura della conferenza di 3 giorni Abdel Rahman al-Nuaimi ha anche detto che lo scopo di tali campagne è di macchiare l’immagine dell’Islam e deridere i valori islamici. “In risposta a tali campagne aggressive, la conferenza fa un appello affinché si possa affrontare tali aggressioni con l’impiego di tutti i mezzi pacifici a disposizione e tutti gli strumenti economici, mediatici e legali.”

Ma sulla stampa occidentale ci sono stati solo scarsi servizi su questa conferenza, quando ci sono stati. Perché? Perché essa mette in discussione il “fine”, cioè a dire far adattare altre persone alla presunta perfezione del modello di governo Usa, e poi perché ha fatto riferimento alla disastrosa psicologia di Manifest Destiny che è ancora la base del pensiero Usa: l’idea che il governo statunitense abbia il diritto di diffondere i propri valori con ogni mezzo. Così non possiamo sentire le notizie riguardo al popolo musulmano che rifiuta in massa i valori occidentali e progetta azioni di resistenza contro tali valori, che rappresentano un pacchetto unico insieme ad un sistema economico ben preciso.

La realtà (accidenti, non vogliono essere come noi?) si scontra in maniera stridente con il rinato linguaggio di Manifest Destiny, quello che i leader Usa stanno di nuovo sputando fuori per convincere i cittadini che le loro politiche egoisticamente violente contro il Medio Oriente sono valide.

Note: Kristina Gronquist è una scrittrice freelance che vive a Minneapolis. Si è specializzata in analisi della politica estera ed ha ottenuto un Baccalaureato in Scienze Politiche dall’Università del Minnesota. La potete contattare al seguente indirizzo email: lkgronquist@aol.com

Tradotto da Paola Merciai per www.peacelink.it
Il testo è liberamente utilizzabile per scopi non commerciali citando la fonte, l'autore e la traduttrice.

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