Conflitti

L'Iraq delle insorte Campagna internazionale contro la loro messa a morte

Tre donne ribelli saranno impiccate

Imminenti le esecuzioni di quattro detenute (una per crimini comuni). Le processate senza difesa. 2000 in carcere per «motivi di sicurezza»
20 febbraio 2007
Giuliana Sgrena
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Wassan Talil, 31 anni, e Zayneb Fadhil, 25 anni, sono state condannate a morte dalla Corte centrale criminale (Ccci) di Baghdad il 31 agosto del 2006 per l'uccisione di diversi membri delle forze di sicurezza nel distretto della capitale di Hay al Furat. Entrambe negano di essere state coinvolte in questi fatti e Zayneb Fadhil, accusata insieme al marito e a un cugino di aver attaccato una pattuglia congiunta della guardia nazionale irachena e delle forze statunitensi, afferma che ai tempi degli assassini si trovava all'estero. Ora si trova in carcere con una bambina di tre anni. Per Liqa Qamar,una donna di 25 anni con una bambina di un anno nata in carcere, è stata fissata anche la data dell'esecuzione per impiccagione, il 3 marzo. Liqa è stata condannata il 6 febbraio del 2006 dal Ccci per aver partecipato, insieme al marito e al fratello, al rapimento e successivo assassinio di un alto funzionario della «zona verde», l'area di massima sicurezza di Baghdad.
Insieme alle tre donne condannate per atti di resistenza armata si trova anche Samar Sa'ad Abdullah, 25 anni, che rischia di essere impiccata nei prossimi giorni visto che il suo appello è stato respinto. Il suo caso non riguarda un'azione di resistenza ma la condanna è la stessa. Samar è stata condannata il 15 agosto del 2005 per l'uccisione dello zio, della moglie e di tre dei suoi figli nel distretto al Khudra di Baghdad. La donna rigetta tutta la colpa che attribuisce invece al suo fidanzato che avrebbe tentato di rapinare lo zio. Anche il fidanzato è stato arrestato ma non ci sono notizie se gli sono stati contestati questi assassinii. le quattro donne a rischio di imminente impiccagione sono tutte rinchiuse nel carcere di Khadimiya a Baghdad.
Per la prima volte giungono notizie dettagliate su donne condannate per aver partecipato ad atti di resistenza. Le notizie sono state diffuse anche grazie alla denuncia di Walid Hayali del Sindacato degli avvocati iracheni. L'avvocato ha denuciato il fatto che le tre donne condannate non hanno nemmeno avuto diritto ad un avvocato perché si trattava di reati relativi alla sicurezza. Nulla da invidiare ai processi dei tempi di Saddam!
Il governo iracheno ha ripristinato la pena di morte nell'agosto 2004 (poco più di un anno dopo l'abbattimento del regime sanguinario di Saddam Hussein). Le prime esecuzioni, secondo Amnesty international, risalgono al 1 settembre 2005 e almeno 65 iracheni, tra uomini e donne, sono stati giustiziati nel 2006, tra i quali l'ex rais. Ma è la prima volta che notizie così dettagliate superano quella cortina di omertà che copre il sistema giudiziario o, meglio, il sistema di illegalità che vige in Iraq sotto occupazione.
La reazione è stata immediata a livello internazionale con appelli di vari organismi per i diritti umani, tra i quali Amnesty international (vedi intervista sotto)e, in Italia, per ora, dell'Associazione italiana dei giuristi democratici. Alcuni iracheni in esilio (tra cui Hana e Abdul Ilah Albayati) hanno firmato un appello in cui affermano che il processo cui sono state sottoposte le tre donne condannate a morte per attentato alla sicurezza è illegale in base alla Terza convenzione di Ginevra. Per i firmatari dell'appello infatti si tratta di «prigioniere di guerra». La condanna - si legge nell'appello - è avvenuta in base all'articolo 156 del Codice penale iracheno che recita: «qualsiasi persona che commetta volontariamente un atto con l'intento di violare 'l'indipendenza del paese o la sua unità o la sicurezza del suo territorio...' è punibile con la pena di morte». Il paradosso è fin troppo evidente: le tre donne sono state condannate proprio da coloro che stanno commettendo i reati previsti dall'articolo 156 del Codice penale!
All'inizio dell'occupazione le donne venivano arrestate e portate dagli americani nell'infame carcere di Abu Ghraib - e torturate - per cercare di ottenere la consegna del marito o dei figli ritenuti impegnati nella resistenza. Ora evidentemente le donne hanno ottenuto dal governo iracheno (al servizio degli Usa) il riconoscimento della loro partecipazione diretta alla resistenza e per questo vengono impiccate. Poco importa se con prove o senza prove. Con avvocati o senza. Del resto la caduta di Saddam ha portato di tutto tranne che un processo di democratizzazione.
Non si conosce il numero delle donne che si trovano attualmente in carcere e di cui spesso è stata chiesta la liberazione come condizione il rilascio di ostaggi occidentali, soprattutto donne. Secondo un rapporto delle Nazioni unite sui diritti umani in Iraq il totale dei detenuti - sia dalle forze di occupazione che dalle autorità irachene - sarebbero 31.000. E, il 6 aprile del 2006, Mohamad Jorshid, rappresentante di una ong per i diritti umani in Iraq, aveva dichiarato al giornale Asharq al Awasat che erano 2.000 le donne rinchiuse in varie prigioni e centri di detenzione per «motivi di sicurezza». Quale fine faranno? Speriamo che la reazione provocata dalla condanna di Wassin, Zayneb e Liqa, oltre che Samar, serva a fermare la mano del boia per ora e per sempre.

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