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I corsari di Capo Teulada

Una pattuglia di pescherecci dichiara guerra alla Nato costringendola a ripiegare. Si lotta dove le aragoste pascolavano, quando gli americani erano liberatori
20 gennaio 2005
Angelo Mastrandrea
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Il confine c'è ma non si vede. Tra l'Isola rossa e il promontorio di fronte. Un qualsiasi turista del mare non riuscirebbe ad accorgersi della differenza che passa tra il limite e quello che c'è oltre. Tra una baia libera e una cinquantennale servitù militare. Di Giovanni Pietropaolo, cognome prima del nome come si presenta ognuno dei pescatori di questo splendido tratto di costa a nord di Cagliari, non è un turista qualsiasi. Di questo mare conosce ogni singolo anfratto. Ogni metro di costa sfondato dai missili, ogni scoglio piallato dai proiettili, le isole che c'erano e non ci sono più, nonostante questo mare non ricordi alcuno tsunami. Perché il promontorio di Capo Teulada è da cinquant'anni zona di guerra per gli americani, poi per gli italiani e gli eserciti della Nato, e di «piccola pesca» per la gente del luogo. E lui, che vive il mare da almeno 60 delle sue 65 primavere, può raccontare senza tema di smentite delle incursioni notturne per pescare di nascosto sotto costa, delle cannonate ricevute e di chi non c'è più perché è saltato in aria su un ordigno, vittima civile in una zona riservata alle armi in «tempo di pace».

Pescatori disobbedienti

A partire dal 1997, l'«area interdetta» è stata via via ampliata, ben oltre la zona dove da decenni va in onda una guerra simulata che ha reso il mare un tappeto di bombe. Praticamente la morte per le 60 famiglie di pescatori di Sant'Anna Arresi e Teulada, senza considerare le altre marinerie vicine. Fino a due anni fa non era così. Quel tratto di mare rimaneva interdetto per l'intera durata delle esercitazioni, poi quando tutto era finito i comandi avvisavano i pescatori che potevano riprendere l'attività. In cambio, questi ultimi ricevevano un indennizzo per le giornate di lavoro, per un massimo di 120 giorni all'anno, pari al 70% della paga sindacale. In soldoni, circa 4.500 euro all'anno.

Rotto unilateralmente un equilibrio che durava da decenni, i pescatori sono scesi sul piede di guerra contro la Difesa italiana. Lo scorso ottobre, a farne le spese è stata la Nato, operazione «Destined glory». Quello che segue è l'esempio, straordinario, di come una piccola comunità riesca a resistere a qualcosa molto più grande di loro. Con le armi, pacifiche, della disobbedienza.

Così abbiamo bloccato la Nato

«Abbiamo fatto nove mesi di assemblea permanente», dal primo dicembre 2003 al 10 ottobre 2004. Pietropaolo, che è il presidente della cooperativa di pescatori di Sant'Anna Arresi, insieme a quella di Teulada protagonista della lotta, racconta le difficoltà di organizzare i pescatori: i difficili rapporti con i sindacati, d'accordo solo sulla vertenza lavorativa, i timori, l'inevitabile stanchezza del gruppo dopo i primi mesi di lotta che però non ha impedito il mantenimento del presidio anche durante l'estate. «Ci interessava prima di tutto risolvere il problema economico delle nostre famiglie. Era più di un anno che non portavamo niente a casa». In una zona in cui quasi tutto è poligoni militari che hanno espropriato mare ai pescatori e ovili e terreni ai pastori, penalizzando anche il turismo, il saldo tra nascite, morti ed emigrazione ha fatto scendere la popolazione da 7 mila ad appena 3.500 anime. Il lavoro manca, «il paese si è ridotto a una riserva indiana» e la gente scappa, a Cagliari o sul continente. Loro non ci pensano nemmeno. Piuttosto, la bonifica che chiedono al governo e che il sottosegretario alla Difesa Cicu ha promesso loro «la facciamo noi».

«All'inizio molti avevano paura per le multe», 2.100 euro per ciascuna barca che dovesse sconfinare, o «per il sequestro della barca», indispensabile strumento di lavoro. Poi hanno preso coraggio e hanno occupato il porticciolo, «per attirare l'attenzione dei cittadini e della stampa». Notte e giorno per cinque mesi, quartier generale un piccolo edificio rosa dalle pareti scrostate. «Ci hanno ignorato finché non sono cominciati ad arrivare i gruppi e le testimonianze di solidarietà da tutta l'Europa». I «gruppi» hanno nome e cognome: sono il comitato sardo Gettiamo le basi, le associazioni ambientaliste, Verdi e Prc, gli indipendentisti dell'Irs, il Cagliari social forum. «Così abbiamo cominciato a uscire: un giorno bloccavamo le navi con i carri armati, un altro qualche altra cosa. I militari ci dicevano "queste sono cose politiche, dovete andare a protestare a Cagliari invece che qui". Noi rispondevamo «se non lavoriamo noi non lavorate nemmeno voi. Andate voi a lamentarvi a Cagliari"».

Neanche con le cannonate

La risposta sono state le cannonate. Il 3 maggio, per bloccare un'esercitazione della Nato. «Quando siamo arrivati all'altezza del promontorio, hanno sparato delle cannonate in mare per fermarci. Ma abbiamo continuato. Tutte le mattine alle 8 uscivamo in mare e andavamo a piazzarci sotto il promontorio. Alla fine sono stati costretti ad andarsene in Grecia». Il 4 ottobre l'hanno fatta ancora più grossa. Quel giorno si sono messi di traverso a ben undici navi da guerra della Nato. «Erano 9.500 uomini che stavano sbarcando, con degli zatteroni enormi che portavano viveri, mezzi e carri armati. Come nei film sulla Normandia. Noi ci siamo opposti con le nostre barchette e abbiamo bloccato tutto. Uno dei nostri ragazzi che è stato in Germania e parla un po' d'inglese ha spiegato loro che era una protesta per il diritto al lavoro. Ci hanno accerchiati, dicevano dal megafono "vi comunichiamo che siete all'interno di un poligono militare", noi ridevamo, battevamo le mani e non ci spostavamo». Finché, per risolvere l'impasse non è stato costretto a scomodarsi il sottosegretario Cicu, Forza Italia. «C'era il mare forza 5 quel giorno, lui ha chiesto che scendessimo a terra a incontrarlo». Di Giovanni abbozza un sorriso: «Forse soffriva il mal di mare». Poi continua: «Ma noi l'abbiamo costretto a un'assemblea su un peschereccio, finché non ha accettato le nostre richieste». Il 100% della paga giornaliera invece che il 70, 158 giorni lavorativi retribuiti invece che 120, e la promessa di una bonifica dell'«area interdetta» e della possibilità di pescare nei periodi in cui non si svolgono esercitazioni. Rimane off limits la zona del poligono vero e proprio, quella che da decenni ormai nessuno può frequentare per la sua estrema pericolosità.

C'era una volta una grotta

Di Giovanni Pietropaolo è uno dei pochi che può raccontare com'era laggiù, dall'alto dei suoi 65 anni, quasi tutti vissuti in mare. Così riavvolge il nastro della memoria e rievoca: «Era una grotta bellissima, la chiamavano la grotta de su marineri, dei pescatori. La vedi quella costa che sembra una mammella? Lì». All'orizzonte. Dove tutt'attorno ora è deserto una volta per chi andava in mare era una sosta obbligata. «Io ero ragazzino, nel `53. Ci andavo con mio padre, e già allora vedevo gli aerei che ci passavano sulla testa. In quella grotta ci abitavamo, le altre barche ci portavano i viveri. Si pescava il pesce azzurro, venivano imbarcazioni anche da Cagliari per fare la stagione lì. Solo quando arrivava lo scirocco dovevamo tornare a Capo Teulada perché il mare diventava grosso». Ricordi di vita e di gioventù. «Proprio sopra la grotta c'era un ovile, con una donna che ci trattava come figli. Quando non tornavamo dalla pesca veniva a cercarci, ci preparava di tutto». Laddove oggi sono missili e bombe e proiettili che più d'uno sospetta anche all'uranio impoverito, il mare era pescosissimo. «Ricci, polipi, le aragoste le vedevamo pascolare». Pascolare, come le capre dei pastori della terraferma sfrattate negli sgomberi forzati degli ovili per far posto a 7 mila ettari di poligono militare.

C'erano gli americani, all'epoca, il poligono arriverà solo nel `58. «Per due casse di polipi ci facevano il rifornimento per 5-6 mesi. All'inizio ci facevano andare nella grotta. Una volta sono rimasto lì per 40 giorni di fila, senza tornare a casa, tanto avevo un'altra famiglia e quella donna che ci accudiva». Poi il fattaccio, e i ricordi di vita si trasformano in cronaca. «Un giorno un giovane, il figlio di uno dei nostri pescatori, ha trovato un ordigno. L'ha preso tra le mani ed è saltato in aria. Aveva una trentina d'anni, la bomba l'ha sventrato. Hanno riconosciuto l'incidente solo dopo molti anni, perché lui lì non avrebbe potuto starci». Si chiamava Giovanni Meloni, era l'anno di grazia 1964. Probabilmente per evitare ulteriori problemi, dopo quell'episodio i militari fanno saltare la grotta. Una carica di esplosivo, bum, e tutto è consegnato alla tradizione orale dei pescatori. «Gli americani prima sembravano i nostri salvatori, poi piano piano hanno cominciato le restrizioni». Dalle caramelle alle cannonate.

«Una volta hanno sbagliato il tiro e una cannonata è finita sulla spiaggia», quella libera e per metà requisita per permettere ai militari di fare il bagno senza timore di inciampare in una mina, non certo quella splendida di Zafferanu, dove una volta sorgeva l'antica Teulada: invece di ombrelli e sdraio raccontano di batterie di missili, sistemate come tanti aghi nella sabbia bianca. Un ragazzino rimane gravemente ferito. Oggi è uno dei pescatori in lotta, per tutti è «John Wayne». Ma non sono solo gli americani a sparare a casaccio. C'è anche l'esercito italiano. E' il 5 maggio di un anno fa. «Un mezzo meccanico stava pulendo la spiaggia quando sono arrivati tre proiettili, di quelli esplosivi. Il conducente ha abbandonato di corsa il mezzo ed è scappato. Immagina se fosse accaduto d'estate, quando la spiaggia è piena». Fossimo stati in guerra, li avrebbero chiamati effetti collaterali. Ma, forse, siamo in guerra.

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