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Chi nega la cattiva salute della Terra

Crichton, Kyoto e i lietopensanti

20 agosto 2005
Giovanni Sartori

Da parecchi anni il giro dell’Agosto è per me il giorno del rendiconto ecologico. Come sta la salute della Terra? Come andiamo con l’ambiente, con l’inquinamento atmosferico, con il clima, con l’esaurimento delle risorse? Va da sé che su tutto il fronte andiamo peggio. Va da sé perché non vogliamo né vedere né affrontare la realtà.

Sì, finalmente il protocollo di Kyoto è diventato operativo. Applaudo perché qualcosa è sempre meglio che nulla. Ma i rimedi di Kyoto sono largamente insufficienti. Eppure il Texano tossico, il presidente Bush, non solo continua a rifiutarli, ma si ingegna anche a sabotarli accordandosi con India, Cina e una manciata di altri Paesi su una cosiddetta «soluzione alternativa» (lo sviluppo di alte tecnologie pulite) che però non viene seriamente finanziata e che comunque non sarebbe alternativa ma complementare.

Sì, un’altra buona notizia è che la comunità scientifica è sempre più convinta e concorde nel denunziare la gravità della situazione e che, correlativamente, le voci dei lietopensanti che ci raccontano che tutto va bene sono sempre più fioche e sempre più contraddette da valanghe di dati, da valanghe di smentite.

Però, però. Tre anni fa i lietopensanti sono stati rassicurati dalle balordaggini di un certo Lomborg (sconfessato dai suoi stessi colleghi della «Commissione danese sulla disonestà scientifica »); e quest’anno fa già furore il romanzo Lo Stato di Paura di Crichton, la cui tesi è che il riscaldamento globale è l’invenzione di scienziati e giornalisti al servizio di interessi politici ed economici il cui proposito è di preservare «i vantaggi politici dell’Occidente e favorire il moderno imperialismo nei confronti dei Paesi in via di sviluppo». Questa è soltanto una tesi dogmatico-marxista rispolverata negli anni ’70. Ma se un logoro vetero- marxismo viene rimesso a nuovo da un autore di thriller che sa vendere milioni di copie, allora «l’imbroglio anti-ecologico » riprende fiato.
Il guaio è che sul drammatico problema della «Terra che scoppia» (di sovrappopolazione) e che si autodistrugge, i media, gli strumenti di informazione di massa, non mobilitano l’opinione e non si impegnano più di tanto. Forse perché sono frenati da una colossale rete di interessi economici tutta progettata e proiettata nell’assurdo perseguimento di uno sviluppo illimitato, di una crescita infinita.

Comunque sia, il fatto dell’anno è che su questo cieco «sviluppismo» sta cadendo addosso una bella tegola. In questi giorni il costo del petrolio greggio si è avvicinato ai 70 dollari, e quindi al record massimo di un quarto di secolo fa di 80 dollari (costo ragguagliato a oggi) che produsse allora una grave crisi di stagflazione. Cosa succede? Il petrolio sta diventando scarso? Per il grande (ciarlatano) Lomborg non sarebbe possibile: lui ci assicura riserve per 5.000 anni. Ma anche i petrolieri ci rassicurano: abbiamo riserve per 50 anni (due zeri meno di Lomborg) e la stretta è colpa degli impianti di raffinazione. Ma a parte il fatto che 50 anni sono pochissimi, questa tranquillizzazione è un inganno.
Nei prossimi venti anni la popolazione sarà ancora in aumento (quest’anno, saremo ancora 70-75 milioni in più), e si prevede che il fabbisogno energetico mondiale — con lo sviluppo dell’India e della Cina — crescerà del 50 per cento. Per questo rispetto siamo già allo stremo. Il campanello d’allarme è squillato dal 1980. E noi cosa abbiamo fatto e stiamo facendo? Ancora niente. Leggiamo e arricchiamo Crichton. Bravi, bravi.

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