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Il mostro ecologico che l’Italia non vuole chiudere

La traduzione dell'articolo della testata francese Reporterre
5 ottobre 2014
Andrea Barolini
Fonte: reporterre.net

Fonte articolo originale http://www.reporterre.net/spip.php?article6271

Traduzione dal francese a cura di Alessandro Manna

il quartiere tamburi e l'ilva di taranto

A Taranto, in Puglia, l’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, è una bomba ecologica. Condannata alla chiusura per getto di sostanze pericolose, responsabile di migliaia di decessi e decine di migliaia di ricoveri, l’Ilva continua nonostante tutto a produrre, in una regione contrassegnata da elevati livelli di disoccupazione.

Peppino Corisi era operaio e sindacalista. Lavorava nel siderurgico più grande d’Europa, l’Ilva di Taranto, in Puglia, nel cuore del Sud Italia. Peppino, come decine di suoi colleghi, è morto di cancro nel 2012.

« Ennesima morte per cancro ai polmoni »

Quando era malato, aveva riunito una parte dei 18000 abitanti del quartiereTamburi, il più vicino agli altifornidell’Ilva, per affiggere una targa sotto la finestra di casa sua : « Quando soffia il vento da nord/nord-ovest, siamo sommersi dalla polvere e soffocati dalle esalazioni di gas che arrivano dalla zona industriale Ilva. Per quest onoi malediciamo quelli che potrebbero fare qualcosa e che nulla fanno ». Targa firmata dagli abitanti delle vie De Vincentis, Lisippo, Trojlo, Savino. Che dopo la morte di Peppino hanno aggiunto : « Ennesima morte per cancro ai polmoni ».

La morte di Peppino non è la prima tragedia nella famiglia Corisi : la figlia di Stefania ha anche perso suo marito, Nicola Darcante. A 39 anni. Anche lui operaio all’Ilva, stroncato da un carcinoma alla tiroide.

Salute o lavoro

Oggi l’Ilva è considerata un mostro ecologico italiano ed europeo. Eppure, malgrado le migliaia di morti e malati, la popolazione deve ancora scegliere tra salute e lavoro, giacché questo stabilimento rappresenta 12000 posti di lavoro diretti e 20000 indiretti : la maggioranza, in una città di meno di 200000 abitanti, in una regione in cui il livello di disoccupazione supera il 20%.

« Nel corso dei miei primi anni in fabbrica, racconta a Reporterre Stefano Tinella, pensionato con trent’anni di lavoro in Ilva alle spalle, gli operai erano equipaggiati con protezioni che contenevano amianto. A partire dagli anni Ottanta sapevamo che le emissioni di polveri prodotte dal siderurgico, che si diffondevano in tutta la città, comportavano dei rischi per noi operai e per la popolazione. In fabbrica se ne discuteva ma la paura di ritrovarsi senza un lavoro, in una regione così povera poi, era fortissima.

Il « re dell’acciaio » arrestato

Fino alla metà degli anni Novanta, la fabbrica era pubblica e apparteneva allo Stato. All’epoca si chiamava Italsider. In seguito è il gruppo Riva che ne ha assunto il controllo. Emilio Riva, presidente dell’azienda fino al 2010, morto il 29 aprile 2014, è stato a lungo considerato il « re dell’acciaio » italiano.

Assieme al figlio Nicola – suo successore alla testa del gruppo – e altri dirigenti è stato arrestato nel 2012 con l’accusa di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, danneggiamento di beni pubblici e getto di sostanze pericolose.

Il giudice Patrizia Todisco, del Tribunale di Taranto, ha motivato la sua decisione nel modo seguente: « Lo stabilimento provoca morti e malattie. Chi lo ha gestito e lo gestisce attualmente ha perseguito questa attività inquinante secondo la logica del profitto calpestando le più elementari regole di sicurezza ».

«Ho testimoniato, ci dice Stefano Tinella, in processi nei quali i parenti degli operai morti chiedevano dei risarcimenti. So che li hanno ottenuti, ma nessuna somma potrà mai compensare simili tragedie».

Polvere, diossido d’azoto, anidride solforosa, benzene…

L’inchiesta si concentra soprattutto sulle cockerie, i forni in cui il carbone è usato per fornire il calorene cessario alla fusione dei minerali. Secondo una perizia chimica depositata presso il tribunale nel 2010, l’Ilva aveva emesso 4150 tonnellate di polveri, 11000 di diossido d’azoto, 11000 di anidridesolforosa, 7000 chili di acidocloridrico e 1300 di benzene.

La stessa Ilva ha riconosciuto (pagina 518 della perizia) la diffusione di 172000 tonnellate di monossido di carbonio e di 8,6 milioni di tonnellate di CO2. Ma la lista degli agenti inquinanti è ben più lunga : arsenico, cadmio, ossido di zinco e zolfo, mercurio, nickel, piombo, cloro, fluoro.

Un secondo studio, presentatodi recentedall’associazione Peacelink, spiega inoltre che la fabbrica è responsabile del 99,4% dell’immissione di idrocarburipolicicliciaromatici (IPA) nell’atmosfera della città, ossia 3,4 tonnellate all’anno.

Oltre alle emissioni « ufficiali », bisogna poi aggiungere quelle avvenute senza alcun controllo. Si tratta dello « slopping », ovvero la dispersione di fumi nel corso di determinate fasi del processo industriale. Queste emissioni sono state filmate dai Carabinieri nel 2011 e i relativi video fanno parte del fascicolo del magistrato Patrizia Todisco.

Una fabbrica condannata alla chiusura che tuttavia continua a funzionare.

« Nonostante l’ordinanza del giudice che ha impostolo stop a tutti i macchinari dell’area a caldo, spiega a Reporterre Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione Peacelink, la fabbrica resta aperta perché la dirigenza ha ottenuto la facoltà di utilizzo ».

Il giudice Todisco aveva dunque imposto uno stop integrale. Ma il governo ha approvato una legge che ha concesso all’azienda una deroga. Il tribunale ha perciò dovuto dare all’Ilva un’autorizzazione al funzionamento che ha permesso a una parte dello stabilimento di riaprire.

Questa concessione è subordinata all’obbligo di realizzare un primo piano di bonifica del sito industriale finanziato dallo Stato per una somma di 336 milioni di euro.

« Tuttavia, aggiunge Marescotti, questo piano non è stato portato a termine. Hanno chiuso alcune cockerie per ridurre l’inquinamento e cercare di dimostrareche la fabbrica non è un problema così grave. Ma, le nostre analisi hanno appurato che, anche con una produzione ridotta, il contributo dell’Ilva alleemissioni di IPA in città si attesta sempre intorno al 99% ».

« A Taranto, prosegue, abbiamo una raffineria, due inceneritori e il traffico stradale. Se si considerano tutti i tipi di emissione senza distinzione, ess iemettono però solo 20kg di IPA all’anno, mentre l’Ilva arriva a 3500 kg annui (8000 prima della chiusura di una parte dello stabilimento). Rischiamo dunque di rendere il nostro territorio inutilizzabile per secoli ».

Un impattosanitario grave.

Le consequenze di questa bomba ecologica sulla salute pubblica sono spiegate in uno studio epidemiologico, acquisito dagli inquirenti, che si concentra su un periodo che va dal 2004 al 2010. Nei quartieri più esposti si sono contati 27000 ricoveri (3857 ognianno) e 11550 morti, ossia 1650 ogni anno, di cui 637 attribuiti allo sforamento dei limiti delle polveri sottili PM10.

Secondo L’Istituto Superiore di Sanità, nei quartieri più esposti la mortalità infantile (0-14 anni) è del 21% più elevata rispetto alla media regionale. E la probabilità di ammalarsi di cancro è più elevata del 54%.

Alcuni hanno provato ad attenuare la responsabilità dell’azienda facendo notare che i valori di PM10 a Taranto sono meno elevati rispetto ad altre città italiane. Ma il Ministero della Salute ha spiegato che questo paradosso è legato alla tipologia di sostanze veicolate nelle polveri sottili : « I PM10 sono composti da diversi elementi, a seconda della vicinanza delle fonti. Quelle presenti nel quartiere Tamburi sono ricche di benzopirene, un IPA considerato come cancerogeno dall’Organizzazione mondiale dellasalute ».

La conclusione della perizia chimica del tribunale è categorica : «L’esposizione agli agenti inquinanti emessi dallo stabilimento siderurgico ha causato dei fenomeni degenerativi in diversi organi umani. Ciò ha provocato malattie e decessi ».

Salvare la fabbrica nonostante tutto…

Nonostante un disastro ambientale che persiste da decenni, il governo di Roma ha manifestato nel corso degli ultimi mesi la volontà di salvare la fabbrica a ognicosto. Il gigante siderurgico lussemburghese ArcelorMittal (con due imprese italiane, Arvedi e Marcegaglia) potrebbero far ripartire l’Ilva.

Ma l’operazione prevede un investimento di 4,2 miliardi di euro fino al 2020. E lo Stato italiano potrebbe vedersi costretto ad assumersi buona parte dei costi legati ai lavori necessari per limitare i danni causati all’ambiente.

« Oggi, osserva Marescotti, l’azienda subisce una perdita finanziaria di 80 milioni di euro al mese. Il debito ammonta in totale a due miliardi. In queste condizioni non è facile immaginare come trovare il denaro per i lavori che dovrebbero permettere di ridurre per davvero le emissioni nocive. ArcelorMittal comprerà per chiudere appena possibile : sono interessati solo al pacchetto clienti di Ilva ».

Ciò farebbe respirare la città, ma i livelli di disoccupazione diventerebbero insopportabili : «Abbiamo proposto, dice Marescotti, diversi progetti di bonifica e riconversione della fabbrica. Abbiamo presentato alternative concrete elaborate da studenti di architettura. Siamo ecologisti e nutriamo l’ambizione di riuscire a difendere l’ambiente e, nello stesso tempo, trovare una soluzione per glioperai ».

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