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La naturale erosione accentuata da inquinamento e conseguente riscaldamento del pianeta

Dolomiti, addio Monti Pallidi?

19 luglio 2004
Giancarlo Lannutti  


Dolomiti addio? La domanda, palesemente assurda, verrebbe tuttavia spontanea se si desse retta all'enfasi con cui i mass-media, scritti e soprattutto televisivi, hanno seguito le vicende dei crolli di roccia, spesso spettacolari, verificatisi sui Monti Pallidi nelle ultime settimane. Un'enfasi, va detto subito, tipica della odierna società dello spettacolo, dove tutto viene "gridato" e arricchito di roboanti aggettivi e sembra che non accada più niente di "normale"; con il risultato di alimentare anche psicosi e stati d'animo che non hanno alcuna ragione obiettiva, come nel caso - riferito dalle guide della Val Gardena - delle molte persone che hanno telefonato per chiedere se non fosse per caso diventato troppo pericoloso andare a trascorrere le vacanze lassù.
Ciò non vuol dire che i crolli non ci siano stati e che altri non ce ne possano essere nelle prossime settimane; e va anzi aggiunto che il fenomeno sembra nella corrente stagione essersi fatto più frequente, come sottolinea anche il notissimo scalatore sudtirolese Hans Kammerlander, che ha già al suo attivo tredici dei quattordici "ottomila" dell'Himalaya. Ma si tratta appunto di una possibile, e quasi certamente transitoria, accelerazione di un fenomeno che rientra pienamente nelle leggi della natura, per quanto misteriose o insolite possano a volte apparire. Le rocce dolomitiche si sfaldano e crollano da sempre per la loro intrinseca natura e struttura: formate dal progressivo consolidarsi ed emergere di barriere coralline (dove oggi sorgono le Dolomiti in lontanissime epoche geologiche si stendeva il mare), sono di per sé fragili e soggette a un continuo anche se lento sgretolamento; proprio per questo hanno le forme ardite e tormentate che costituiscono il loro fascino, e non a caso ai piedi di quasi tutte le pareti si allungano tanti ghiaioni che sono appunto il frutto di una costante erosione.

E quando parliamo dei crolli del passato non ci riferiamo a episodi marginali o circoscritti: basti pensare alle gigantesche frane dell'Antelao, in Cadore, che fra il 1348 e il 1868 spazzarono via alcune frazioni del comune di Borca; o ricordare che quarant'anni fa, nel 1962, il crollo del "camino Adang" sul Gran Piz da Cir - fratello maggiore del Piccolo Cir sbassato di oltre un metro dal crollo dell'altro giorno - eliminò una bellissima e assai conosciuto via di arrampicata. Crolli che rientrano nella norma, dunque, anche se la normalità conosce ritmi di volta in volta diversi secondo una serie di fattori aggiuntivi e stagionali che possono variare negli anni. E questo è probabilmente il caso che ci interessa, di fronte ai cinque crolli che nel giro di poche settimane hanno interessato la Torre Trephor nel gruppo delle Cinque Torri, la Forcella Ciampai, il Piccolo Cir, la Cima delle Dodici nelle Odle e, ultima, la cima di Canssles ancora nelle Odle.

La naturale erosione dovuta all'azione continua degli agenti atmosferici è stata probabilmente accentuata dalle particolarità di questa stagione 2004, che ha visto una primavera prolungata seguita da un aumento improvviso della temperatura, con sbalzi termici e un alternarsi di siccità e piogge intense che hanno messo a dura prova la delicata struttura di queste montagne. Ma va certamente preso anche in considerazione il quadro ambientale complessivo della fase che stiamo vivendo, con il crescere dei fattori di inquinamento e il conseguente lento riscaldamento del nostro pianeta.

L'aumento della temperatura negli ultimi anni ha già prodotto fenomeni insoliti non solo e non tanto in Dolomiti quanto sull'insieme delle Alpi, e non solo determinando fra l'altro un progressivo scioglimento dei ghiacciai ma anche di certi nevai pensili permanenti e soprattutto di quello che viene chiamato il "ghiaccio profondo", cioè quelle lingue spesso minime di ghiaccio o di neve perennemente ghiacciata che si annidano nel fondo di canali e canalini o all'interno delle fessure e fratture della roccia e che, sciogliendosi per la prima volta appunto in conseguenza del caldo eccessivo, determinano cedimenti e cadute di proporzioni ovviamente variabili; basti pensare, per tutti, al clamoroso crollo della Cheminée sul Cervino, nell'estate dell'anno scorso, che ha irrimediabilmente modificato il tracciato della via italiana al più nobile scoglio d'Europa. Sulle Dolomiti questo specifico problema è certamente minore ma non del tutto assente.

Nessun allarmismo ingiustificato, dunque, ma anche coscienza dei problemi che oggi abbiamo di fronte in tutto il nostro ambiente montano. Ed è qui che si inserisce il problema della possibile, ed auspicata, classificazione delle Dolomiti come "patrimonio dell'umanità" affidato all'Unesco; un problema certamente non legato alla questione dei crolli ma comunque, in un senso più ampio e complessivo, alla protezione di questa regione montuosa unica nel suo genere. L'associazione ambientalista Mountain Wilderness, fondata negli anni '80 dai più bei nomi dell'alpinismo internazionale, ha fatto da sempre dell'affidamento delle Dolomiti all'Unesco uno dei suoi cavalli di battaglia (insieme alla istituzione del Parco del Monte Bianco), preoccupata soprattutto dalla eccessiva antropizzazione - forse la più alta rispetto a ogni altro gruppo di montagne - e dall'esasperato sfruttamento turistico e commerciale dei Monti Pallidi. Uno sfruttamento che non è certo causa dei crolli, ma la cui assenza di limiti metterebbe in prospettiva in crisi equilibri naturali tanto importanti quanto delicati. E a quel punto nessuna Unesco potrebbe mettervi rimedio.

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