Lula e Chávez, insieme verso la vittoria, mentre le ragioni latinoamericane emergono all'ONU e alla Farnesina
Ci siamo. Mancano sei giorni alla rielezione di Lula da Silva. Gli ultimi sondaggi (Ibope e Datafolha) lo danno tra il 57 e il 62% dei voti, con oltre il 20% di vantaggio sul candidato delle destre Geraldo Alckmin fermo intorno al 38%. Il presidente operaio (ma presidente operaio davvero) aveva mancato l'elezione al primo turno per pochi decimali di punto e solo a causa di un dossier quasi certamente confezionato per danneggiarlo da servizi segreti deviati. L'8% di voti raccolti da candidati alla propria sinistra (da Heloisa Helena e Cristovam Buarque) riconfluiscono in gran parte verso Lula, che mostra di poter recuperare anche una parte di astensione, mentre il proprio rivale dimostra di avere fatto il pieno al primo turno.
Ancora più comoda, a sei settimane dalle elezioni, è la situazione per Hugo Chávez. Il vantaggio di Chávez sul candidato unico dell'opposizione, Manuel Rosales, supera i 25 punti percentuali. Questo raggiunge oggi appena il 27,3% dei voti, ancora lontano perfino da quel bacino massimo possibile che gli analisti considerano essere il 33-35%. Hugo Chávez può al momento contare sul doppio dei voti di Rosales; il 52,8% dei venezuelani dichiara di avere già deciso di votare per lui, il 73% considera che il governo Chávez è stato tra eccellente e buono e che la situazione nel paese è migliorata negli ultimi sette anni. Come scritto qui, potrebbe essere solo la guerra sporca ad impedire una nuova cavalcata trionfale di Hugo Chávez.
Intanto all'ONU, in attesa della ripresa del voto di mercoledì fa rumore il fatto che il governo italiano non sembra intenzionato ad allinearsi alla richiesta di Washington e votare a favore del Guatemala. Per John Bolton infatti -è chiaro a tutti- la candidatura del Guatemala (ne scrive perfino la stampa di Tegucigalpa) non ha alcun altro significato che quella di impedire al Venezuela di essere parte del Consiglio di Sicurezza. E' il Guatemala -impresentabile come democrazia rappresentativa e stato di diritto- ma potrebbe essere Aruba o un paese di un altro continente.
La realtà è che l'opposizione statunitense alla candidatura venezuelana si sta sempre più caratterizzando per essere opposizione non a Chávez ma al diritto dell'America Latina -soprattutto di quella progressista- di scegliere chi la rappresenti in Consiglio di Sicurezza, fino a ieri l'Argentina di Nestor Kirchner, oggi, in un normale avvicendamento, il Venezuela di Hugo Chávez. Stanti così le cose -e pure nella persistente distanza politica tra Italia e Venezuela- quella statunitense si configura come un'imposizione statunitense ad un blocco, l'Unione Europea, contro un altro blocco, quello latinoamericano, sempre meno cortile di casa. La politica estera italiana, stante tra l'altro un importante appello della comunità italiana in Venezuela per chiedere l'appoggio italiano alla candidatura, si è resa conto della trappola tesa dagli Stati Uniti e si è per il momento arroccata in un'astensione sufficiente per disgustare Washington.
Come per la "vecchia e nuova Europa" con la quale Donald Rumsfeld divise il continente per imporre la guerra in Iraq alla degna opposizione di Francia e Germania, anche in questo caso la politica degli Stati Uniti vuol dividere per imperare. In questo contesto, è necessario ribadirlo, la candidatura venezuelana ha già vinto perché dalla sua parte stanno le ragioni di un mondo multipolare, mentre dalla parte degli Stati Uniti stanno quelle dell'unilateralismo che sceglie a proprio esclusivo interesse chi deve rappresentare chi. Se ne inizia a rendersene conto perfino la Farnesina...
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