Santiago brucia
Da quel lunedì 28 ottobre continuano gli incendi, le sirene, le pentole, gli elicotteri.
Domani sarà la stessa cosa. O peggio. Il governo di Piñera non fa altro che gettare benzina sul fuoco:
- 19 morti;
- 1132 feriti, di cui 127 hanno perso o rischiano di perdere un occhio;
- 3535 arrestati, di cui 375 minorenni;
- 18 denunce di violenze sessuali, 76 per torture;
20 desaparecidos.
Solo per limitarci alle cifre ufficiali.
Tutta Santiago bruciava.
La rabbia davanti a un governo che, di fronte a richieste di cambiamenti profondi, risponde con la repressione e provvedimenti tappabuchi non fa altro che alimentare la violenza e la ribellione. Davanti a una domanda sociale di riforma del welfare, l’unica risposta del governo è la repressione e provvedimenti tappabuchi. La rabbia per tutto questo non fa altro che alimentare il malcontento e la ribellione.
«Sbirro testa di cazzo» e «assassino» sono le grida scandite dalle voci di tutte le età. Echeggiano nelle strade, dai palazzi, dalle auto, bici, moto, dai negozi.
Il presidente ha dichiarato guerra al popolo e - per quanto ora possa pentirsi delle proprie parole - togliere lo stato d’assedio, richiamare i militari alle caserme o rifare il trucco al proprio Gabinetto, a questo punto della storia è impossibile: non si torna più indietro.
La Grande Storia sta tornando a calpestare il suolo delle strade di Santiago e di altre città del paese che, senza dubbio, si è svegliato.
E questo, per il popolo, è motivo di giubilo. Per questo, l’allegria si respira per le strade tanto quanto i gas lacrimogeni.
La percepisci ovunque. La vedi sulla superficie dei muri, frettolosamente reimbiancati ogni mattina, ma che presto tornano a reclamare con colori sgargianti le dimissioni di Piñera, una nuova costituzione - quella attuale risale a Pinochet - a chiedere a gran voce sanità, istruzione, pensioni dignitose, libertà.
L’arte è presente in tutte le proteste. La gente sfila nei cortei imbracciando chitarre, violini, sassofoni. Alle esplosioni ed agli attacchi dei blindati, risponde con la musica. Si canta e si balla nelle manifestazioni, nelle piazze e nei parchi, fra la popolazione che inizia a organizzarsi in assemblee autogestite.
«El derecho a vivir en paz» (Il diritto di vivere in pace), di Víctor Jara, è diventato uno degli inni di questi giorni.
Le strade, stracolme di limoni, pietre e proiettili, sono piene anche di biciclette, di palloni rimbalzati a colpi di testa qua e là nella folla, di bandiere cilene e mapuche, dei cartelloni più creativi, di aquiloni. Di sorrisi e di abbracci.
Di una cura per il prossimo che emoziona. Durante ogni attacco coi gas, migliaia di mani offrono al proprio vicino un limone o uno spruzzatore con acqua e bicarbonato (ndr. per contrastare l’effetto lacrimogeno). Decine di studenti e lavoratori di medicina e infermieristica trasportano in spalla kit di pronto soccorso, per assistere i feriti. A ogni angolo si allestiscono punti sanitari improvvisati, i vicini donano cibo e rifornimenti.
La sanità, in questi giorni a Santiago, è diventata gratuita ed effettiva, così come l’istruzione, nonostante le scuole e le università siano chiuse.
In Cile, oggi più che mai, il popolo sta mostrando l’altra faccia della medaglia. L’altra faccia di una Moneda rimasta troppo a lungo nascosta in una tasca e che ora, invece, sta volteggiando in aria. Sarà interessante vedere da che lato cadrà. Ma prima che cada, ci vorrà ancora tempo. Proprio come stanno ripetendo, a milioni, per le strade: «Siamo solo all’inizio».
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