l'editoriale

Guerra, credenze bipartisan

8 luglio 2006
Danilo Zolo
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

L'assenza di una linea di politica estera emerge come il limite più grave del governo di centro-sinistra. Ciò che sembra mancare è una visione dei rapporti internazionali minimamente innovatrice. Per esserlo dovrebbe porsi in discontinuità non solo e non tanto rispetto alla politica estera del governo Berlusconi - quale politica estera? - ma rispetto al ruolo internazionale che l'Italia ha svolto a partire dalla fine della guerra fredda.
Dovrebbe dunque essere posta in discussione la politica estera praticata in questi anni sia dalla destra che dalla sinistra. E non è certo un caso che la politica estera sia stata lo spazio politico nel quale più frequentemente si è verificata la convergenza - talora la complicità - fra i due schieramenti. E nei prossimi giorni assisteremo quasi certamente, sul tema del rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan, a una ennesima confluenza bipartisan: un sintomo, in tempi di globalizzazione inarrestabile, di grave miopia strategica di un'intera classe politica.
Questioni come il ritiro dei militari italiani dall'Iraq e come la presenza italiana in Afghanistan sono decisive. Ma farne un perno cruciale o addirittura una questione di principio ha senso solo nel contesto di una riflessione allargata. Ha senso solo se si rimette in discussione l'insostenibile fardello di una serie di luoghi comuni che gravano anche sulla sinistra italiana. Fra questi ci sono vere e proprie credenze bipartisan: la funzione legittimante dell'Onu nei confronti delle guerre di aggressione, l'esistenza di una giustizia internazionale diversa dalla «giustizia dei vincitori», il ruolo di pacificazione e ricostruzione civile che può essere svolto nel mondo intero da un'alleanza militare come la Nato, la funzione emancipativa del militarismo umanitario praticato dall'Occidente in nome dei diritti dell'uomo, la capacità della grandi potenze occidentali di vincere la sfida mortale del global terrorismnegandone «le ragioni» e addirittura qualificando il terrorismo di matrice islamica come una nuova forma di fascismo, come ha scritto John Lloyd. E cioè ignorando la razionalità e il realismo della replica terroristica nei confronti dell'occupazione militare e dell'oppressione dei paesi islamici: una replica «estrema», ma che ha ben poco in comune con il fanatismo religioso o con l'odio contro la libertà e i valori occidentali che i fondamentalisti umanitari occidentali imputano alle scuole coraniche.
E' scoraggiante sentir dire da Massimo D'Alema, in visita al Dipartimento di stato, che gli Stati uniti restano il cardine della politica estera italiana. Se non è un'ambigua dichiarazione machiavellica, è la prova che la politica estera italiana ripete i moduli stantii della subordinazione europea verso la superpotenza americana, mentre i processi di globalizzazione fanno dell'Asia orientale il cardine strategico di un futuro sempre più prossimo. E non meno scoraggiante, nonostante alcuni timidi accenni del presidente del Consiglio, è il silenzio del nuovo governo sulla questione mediterranea e, in essa, sul dialogo con il mondo islamico e sulla questione palestinese ormai avviata verso un definitivo etnocidio.
Ed è penoso sentir dire da un improvvisato ministro della difesa come Arturo Parisi che l'Italia è attiva in Afghanistan nel quadro della Nato «con una visione globale, ponendo a disposizione strutture e forze per la costruzione di un disegno di ordine e di pace». Si tratta di candide menzogne, come sa chiunque abbia visitato l'Afghanistan in questi anni e abbia personalmente registrato gli imponenti indici empirici che presentano il teatro afghano come un crimine internazionale e una tragedia: un crimine e una tragedia non meno gravi di quella palestinese e di quella irachena, e non meno forieri di violenza, abiezione, instabilità e terrorismo. Nessun ordine e nessuna pace regnerà fra gli immensi altopiani dove domina l'etnia Pashtun finché l'ultimo invasore straniero non sarà stato cacciato. E le valli al nord, dove svettano i primi contrafforti del Karakorum e dell'Himalaya, sono ancora letteralmente invase da carcasse di carri armati, di mezzi blindati e di armi pesanti di ogni tipo, ultime tracce degli invasori sconfitti dai mujaheddin tagichi.

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