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Il conflitto ha cessato da tempo di essere un problema “interno” alla Russia

Cecenia, una guerra globale

Non si puo' mantenere indefinitamente un Paese, anche piccolo, incastonato a viva forza dentro un altro Paese che, tra l’altro, lo aborre. E' un matrimonio tra coniugi diseguali che si odiano di un odio ormai mortale.
2 dicembre 2003
Giulietto Chiesa
Fonte: Questo articolo è tratto dall'Annuario della Pace 2003.
Per informazioni clicca su http://italy.peacelink.org/pace/articles/art_2525.html

Ahmad Kadyrov, 49 anni, ex guerrigliero contro la Russia di Boris Eltsin negli anni 1994-1996, ricercato come “bandito” e bandito davvero, sotto ogni profilo, è diventato presidente della Cecenia. Ufficialmente il 5 ottobre 2003, dopo quella che solo Vladimir Putin e pochi altri hanno osato chiamare un’elezione regolare.
Kadyrov è un vero kamikaze perché nemmeno lui scommetterebbe un copeco sulla propria vita. È un avventuriero nel vero senso della parola ed è il primo a sapere che la sua carriera, così come la sua vita, non dureranno a lungo. Purtroppo per la Cecenia, per i ceceni, nonostante Kadyrov, anzi proprio perché c’è Kadyrov, la pace non è all’orizzonte, né a quello vicino, né a quello più lontano. Vladimir Putin, il presidente “inventato” dagli oligarchi e messo da loro al potere sopra la Russia attraverso la seconda guerra cecena, continua a dipanare la sua strategia, incessantemente pacificatrice: nel senso che non potrà mai raggiungere la pace in Cecenia, «per la contraddizion che nol consente».
Ha promosso, nella primavera di quest’anno, un referendum sulla nuova Costituzione cecena, scritta a Mosca, che prevede il mantenimento della Repubblica all’interno della Federazione Russa. Naturalmente il referendum è passato con una maggioranza schiacciante di consensi. Tutti fasulli.
L’elezione di Kadyrov - seconda tappa della strategia del Cremlino - è stato un trionfo ottenuto nello stesso identico modo.
Cosa c’entrino i ceceni in tutto questo non è né chiaro, né importante. Importante è, invece, che il presidente Bush, insieme al presidente Putin, pensino che Russia e Stati Uniti, insieme, stiano conducendo una guerra senza quartiere contro il terrorismo internazionale. Per la quale cosa tutto è lecito, purché serva allo scopo. Tutto, inclusa la falsificazione delle elezioni. In nome della democrazia, s’intende.
La terza tappa di Putin sarà l’immancabile vittoria nelle elezioni della Duma (la camera bassa del Parlamento russo) del dicembre 2003. Infine la quarta tappa sarà il trionfo plebiscitario di Putin nelle elezioni presidenziali della primavera del 2004. È un dato così scontato che, scherzando, i russi già chiamano la prossima elezione presidenziale come l’«elezione di Putin». A Dio piacendo.
Tutto potrà accadere, come si diceva, salvo un esito diverso da questo. Tutto potrà accadere, come si diceva, salvo che la pace ritorni in Cecenia. Perché nessuna, proprio nessuna delle condizioni che la rendano possibile è rispettata in questa insensata corsa a tappe della Russia verso il niente. Una corsa che non ha traguardo.
La prima di queste condizioni, necessarie per la pace, infatti, sarebbe la presa d’atto della realtà. Essa dice, inequivocabilmente, che non si può mantenere indefinitamente un Paese, anche piccolo, incastonato a viva forza dentro un altro Paese che, tra l’altro, lo aborre. È un matrimonio tra coniugi diseguali che si odiano di un odio ormai mortale. Nove anni di guerra, di massacri, di atrocità senza fine, ormai reciproche al punto che nessuno può più accusare l’altro senza farsi una simultanea autocritica, hanno scavato un fossato incolmabile tra Russia e Cecenia. Nemmeno due o tre generazioni potranno far dimenticare l’accaduto agli uni e agli altri.
Una tale constatazione vale quasi per ogni popolo. Vale al cubo per un popolo guerriero come quello ceceno, dalla memoria lunga e dalla lunga dimestichezza con le armi. Imporre ai ceceni lo status di cittadini russi equivale a dichiarare loro guerra, tutti i giorni, e a ricevere, in cambio, guerra, sangue, terrore.
Ci sarebbe un solo modo per ottenere la fine delle ostilità, e del terrorismo: sterminando i residui ceceni (circa 600mila, oggi) che ancora popolano quel territorio martoriato, e deportando quelli rimasti in altre zone. È la soluzione che già Stalin mise in pratica, con un certo successo. Ma nelle attuali condizioni essa è impraticabile, in primo ed essenziale luogo per ragioni internazionali. George Bush non muoverebbe un dito per impedirla. Uno che organizza una guerra come quella contro l’Iraq non si ferma di fronte a queste inezie. Ma il resto dell’Occidente avrebbe parecchi problemi a farla digerire alle rispettive opinioni pubbliche, anche se riuscisse - com’è riuscito fino ad ora, ma solo in parte - a mettere la museruola ai propri mass media.
La seconda condizioni che Putin non vuole rispettare è di carattere strategico. La guerra contro la Cecenia, cominciata da Boris Eltsin, proseguita da Vladimir Putin, ha cessato ben presto di essere un problema “interno” alla Russia. Probabilmente, e solo in parte, essa lo fu all’inizio, ma essa avvenne allora in un contesto internazionale in cui l’obiettivo degli Stati Uniti era quello di indebolire rapidamente la Russia, dopo essere riusciti a demolire l’Unione Sovietica.
Rapidamente perché a Washington temevano che, superata la sorpresa e lo choc del crollo, i russi avrebbero potuto rimettersi in piedi e ridiventare pericolosi, con o senza il comunismo. E quindi si doveva procedere allo smantellamento integrale, totale, senza perdere tempo. Cosa che fu fatta. In quel contesto la guerra cecena fu immediatamente colta come una occasione preziosa da sfruttare - in molti sensi - per demoralizzare l’esercito russo, già debellato dai colpi dei propri governanti. Ma soprattutto per sottrarre dalle mani del Cremlino (chiunque ne fosse il gestore) il controllo delle risorse energetiche del bacino del Caspio.
Mantenere vivo l’incendio ceceno avrebbe consentito di impedire il transito su quel territorio di petrolio e gas, rendendo “necessarie” altre soluzioni, altri percorsi (via Turchia , via Georgia, via Afghanistan) che, a loro volta, avrebbero privato la Russia di royalties, di controllo dell’area, di influenza politica sulle classi dirigenti locali.
Per tenere vivo il fuoco della guerra non vennero lesinati mezzi. La Turchia ebbe - e continua ad avere - un ruolo cruciale. La guerriglia cecena non avrebbe mai potuto sopravvivere a lungo senza l’aiuto, il denaro, le armi che arrivavano dai retroterra turco e azerbajgiano. E senza il denaro dell’Arabia Saudita. I servizi segreti di questi tre protagonisti esterni della guerra cecena sono strettamente controllati dai servizi segreti americani. Dunque non c’è alcun dubbio che gli Stati Uniti sono stati tra i promotori e sostenitori della guerriglia cecena contro Mosca. Continuare a sostenere che la Cecenia è un problema interno alla Russia - come Putin ha fatto e fa - significa solo due cose: o ignorare le più elementari considerazioni di geopolitica, oppure conoscerle ma ritenere che esse siano funzionali al mantenimento al potere a Mosca delle attuali élites che stanno demolendo lo stato russo.
Scelga il lettore la strada che gli sembra più realistica. Se Putin volesse regolare il problema ceceno non avrebbe che da affrontare direttamente con George Bush, magari a porte chiuse, la questione e chiedere a Washington di cessare con l’ingerenza. Non risulta che l’abbia fatto, mentre risulta che la sua dottrina militare stia riorganizzando le forze armate russe nella direzione della lotta contro il terrorismo internazionale. Che significa costruire un esercito professionale in grado di ingaggiare un corpo a corpo mortale contro la popolazione del proprio Paese.
La terza e ultima condizione che apparentemente non viene presa in considerazione dal Cremlino è l’esistenza di una grande diaspora cecena a Mosca e in tutta la Russia. Una diaspora niente affatto miserabile, molto potente, molto legata ai poteri moscoviti, corrotta esattamente come lo sono i poteri della capitale russa. Ogni tentativo di reale pacificazione non può non passare attraverso il consenso di questa diaspora. Ma i ricchi ceceni di Mosca e San Pietroburgo hanno, nei confronti della propria patria, lo stesso atteggiamento degli oligarchi russi nei confronti della Russia. Cioè gli uni e gli altri preferiscono che entrambe affondino purché i loro interessi individuali e di gruppo siano preservati. E, come si allearono per cominciare la guerra cecena ai tempi di Eltsin, e per riprenderla ai tempi di Putin, gli oligarchi uniti di Russia e Cecenia sono pronti a proseguire a oltranza lo scontro tra i ribelli disperati e feroci del Caucaso e i soldati russi, divenuti banditi e feroci come i banditi che cacciano.
Il che spiega perché Putin non riesce a far finire la guerra cecena: perché forse non lo vuole; perché forse non ha capito bene; perché ha attorno a sé troppi consiglieri con i gomiti affondati nel sangue. La guerra cecena finirà, se finirà, soltanto con la fine della criminalità al potere in Russia.

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