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Iraq, il caos è appena cominciato

11 aprile 2004
Robert Fisk
Fonte: Unità 7 aprile 2004 - traduzione di Sara Bani

Cosa accadrebbe se gli americani lasciassero subito l'Iraq?
È la domanda più ripetuta sui mezzi di comunicazione negli
Usa. Le risposte sono diverse, ma simili nella forma:
guerra civile, caos, anarchia. Per questo non ce ne
possiamo andare; dobbiamo proteggere il popolo iracheno.
Quindi, se ne dovrebbe dedurre che il popolo iracheno non
vuole che noi ce ne andiamo. Stiamo proteggendo gli
iracheni da una guerra civile, almeno così si dice.
Il punto è che molti iracheni preferirebbero prendersi cura
di loro stessi, senza il nostro aiuto.
I fatti sono semplici: il 30 giugno, "noi" trasferiremo la
sovranità - una comodità delicata e illusoria - al popolo
iracheno, che senza dubbio ci sarà profondamente grato per
tanta generosità. Il palazzo di Baghdad usato dalla forza
di occupazione diventerà l'ambasciata americana più grande
al mondo, e il nostro "governo iracheno", stabilito
dall'alto e non eletto, diventerà un faro di libertà, di
uguaglianza e di tutto ciò che più ci piacerebbe.
Ma adesso passiamo ai fatti. Come ha fatto notare Nathan
Brown, professore di Scienze politiche e di Affari
internazionali alla George Washington University, la
cosiddetta Autorità provvisoria della coalizione - la forza
di occupazione - ha emesso una serie di "ordini" che non
possono essere modificati su argomenti molto significativi,
come ad esempio per il sistema giudiziario. L'esercito
iracheno sarà sottoposto al comando statunitense fino a
quando non entrerà in vigore una costituzione definitiva;
inoltre, il nuovo "governo" (ovviamente non eletto) non
avrà poteri sui tribunali speciali che giudicano i membri
del partito Baath.
Gli americani controllano le leggi per il funzionamento
della banca centrale e delle aziende; le istituzioni di
controllo della stampa e della televisione in Iraq sono
state create dagli Stati Uniti - c'è anche una Commissione
per la comunicazione e i media che sarà «l'unica
responsabile per concedere le licenze e per regolare le
telecomunicazioni e i mezzi di comunicazione in Iraq».
Saranno molte le sacche di influenza americana a rimanere
in Iraq. Grazie, Professor Brown.
Ho avuto idea di cosa questo possa significare la scorsa
settimana. Sto lavorando a una storia che tratta della
sorte di Saddam Hussein e che, Inshallah (se Dio lo
concede) apparirà sul «The Independent» tra qualche giorno.
La scorsa settimana ho chiamato la mia fonte in un Paese
del Medio Oriente, e quando ho chiuso la comunicazione, la
linea è rimasta aperta e il numero del mio telefono è
passato a un numero di telefono inglese - chiaramente
registrato sull'apparecchio - che, quando cercavo di
richiamarlo, rispondeva con un messaggio: «numero
inesistente». Il numero era 0044 (il prefisso della Gran
Bretagna) 000920167. Quando ho chiesto all'ufficio del
giornale di mettermi in collegamento con questo numero, non
ci sono riusciti. Quando hanno tentato di chiamare il
numero, dall'altro capo del filo si sentiva solo un unico
suono regolare. Perché il Gchq (Government Communications
Head Quarter, il Centro governativo britannico delle
comunicazioni) è interessato alle mie telefonate? Benvenuti
nel nuovo Iraq.
Gli Stati Uniti credono di aver trovato una risoluzione
delle Nazioni Unite che li autorizzerebbe a mantenere i
110mila soldati statunitensi in Iraq. Paul Bremer, il
proconsole statunitense, ha già rilasciato un ordine
esecutivo specificando che le nuove forze armate irachene
saranno sottoposte al comando del comandante americano in
Iraq, il luogotenente generale Ricardo Sanchez, che guiderà
le forze americane dopo il "trasferimento" del potere il 30
giugno. La risoluzione dell'Onu 1511, che ha concesso il
mandato all'alleanza guidata dagli Stati Uniti - e di
questa informazione devo ringraziare il mio collega John
Burns del New York Times - può essere infatti usata per
giustificare legalmente la presenza del comando militare
statunitense, che potrà rimanere in carica fino al 31
dicembre del 2005.
Il governo ad interim servirà a raggiungere qualcosa di
simile a un accordo «Sofa» (Status of Forces agreement, un
accordo sullo status delle forze armate) che gli Stati
Uniti hanno già stipulato in decine di nazioni in cui sono
spiegate le forze americane. Quindi, quando la "sovranità"
verrà trasferita al governo iracheno, il potere rimarrà
nelle mani americane fino al «completamento del processo
politico». In altre parole, l'Iraq rimarrà sotto
l'occupazione angloamericana. I musulmani sunniti, che
avranno un membro in una presidenza composta da tre
persone, sostengono che è nell'interesse dell'Iraq che le
truppe statunitensi combattano contro i nemici del Paese -
o almeno contro la versione americana dei nemici iracheni e
contro le rivolte. Ma in Iraq sono già preoccupati per tale
questione. Una legge di Saddam del 1987 che impedisce ai
dipendenti statali iracheni di formare dei sindacati
rimarrà in vigore; la resistenza nel posto di lavoro -
resistenza "politica" - sarà proibita; i leader sindacali
potranno essere arrestati.
Gli iracheni normali - quelli che non lavorano nel palazzo
di Bremer e che non sono interessati a certe questioni
perché quello che vogliono è elettricità, petrolio, lavoro
- hanno dimostrato poco interesse verso queste notizie: ma
sbagliano.
Infatti il 30 giugno non ci sarà un "trasferimento" di
poteri. Quello a cui assisteremo sarà un passaggio di una
sovranità mistificata a iracheni pagati e appoggiati dagli
americani, che faranno quello che Washington dirà loro di
fare. Il favorito alla carica di ambasciatore americano in
Iraq altri non è che Paul Wolfowitz, membro
dell'Amministrazione americana e uno dei falchi che ha
voluto la disastrosa invasione dell'Iraq.
Che cosa farà allora la "resistenza!"? La guerriglia
cercherà di rovesciare la nuova amministrazione del Paese,
di attaccare le forze di polizia e il "nuovo" esercito
iracheno. Non è difficile capire cosa hanno in mente gli
americani: le truppe irachene presidiano già i posti di
blocco insieme agli americani; condividono la guardia al
palazzo di Bremer; indossano occhiali da sole e spesso -
come a Sammara - mettono su dei posti di blocco che
controllano portando cappucci neri che coprono il volto.
Sarà questa l'immagine del nuovo Iraq sovrano e
indipendente. Si sta facendo di tutto per far uscire le
truppe americane dalla linea di fuoco e spostarle in zone
deserte - dove possono essere attaccate dal fuoco di
mortaio, ma non saranno sottoposte a degli attacchi più
strutturati; in fin dei conti, solo i "terroristi" potranno
attaccare l'esercito del nuovo Iraq libero.
Ma qui nasce il problema: gli iracheni rispetteranno questo
nuovo esercito, questa forza di polizia, questa nuova
"sovranità"? Ne dubito. La popolazione del Paese vuole che
venga messa fine alla mancanza di leggi, alle uccisioni e
ai rapimenti che hanno segnato l'occupazione americana; ma
vuole anche vivere in un Paese che non sia sottoposto al
controllo degli Stati Uniti - e questo non sarà possibile.
Quindi il 30 giugno tirate fuori i giubbotti
antiproiettile, nascondetevi e - se siete occidentali -
state lontani dalle strade e pregate che gli iracheni
assoldati dagli americani vi proteggano, insieme alle
migliaia di mercenari stranieri che sono entrati nel Paese.
Gli americani non sono stati molto bravi a proteggere i
loro cari fino ad oggi - per non parlare dell'atrocità
delle uccisioni, delle mutilazioni e delle impiccagioni
pubbliche dei corpi nudi dei cittadini americani a Fallujah
- quindi c'è da chiedersi quali siano le possibilità reali
di successo dei loro servi iracheni.
Insomma: il 30 giugno, tutti con i giubbotti
antiproiettile. E chiamate lo 000920167.

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