Se il nazionalismo risorge dalle ceneri
BAGHDAD - La battaglia di Falluja ha cambiato sensibilmente l'opinione pubblica irachena. I giudizi sull'occupazione prima erano più sfumati, ora sono decisamente anti-americani, anche nelle classi medio-alte, e si assiste a una rinascita del nazionalismo, una fiammata di orgoglio patriottico non del tutto inattesa.
"C'è stata una sottovalutazione del nazionalismo - dice Wamid Nadhmi, professore di sociologia all'Università di Baghdad – che oggi assume vecchi e nuovi connotati, fino ad arrivare in certi casi drammatici alla xenofobia. E’ stata invece esagerata la contrapposizione tra sciiti e sunniti: sono tutti musulmani".
"Falluja ha polarizzato gli iracheni: o sono a favore o sono contro la presenza internazionale, non c'è più una posizione intermedia. Fino a qualche settimana fa molti iracheni si aspettavano che noi mantenessimo le promesse della ricostruzione. Ora vogliono che ce ne andiamo", questa è come viene fotografata la situazione in un rapporto che sta per finire sul tavolo del Governatore americano Paul Bremer. Naturalmente non si enfatizzano troppo gli errori della Cpa ma si sottolinea soprattutto l'influenza esercitata sugli iracheni dalle immagini e dai commenti dei grandi network televisivi arabi, considerati più efficaci nella propaganda anti-americana dei discorsi di Muktada Sadr.
Un viaggio nei quartieri di Khadimiya e Adhamiya, uno sciita e l'altro sunnita, il cuore di Baghdad, è anche un percorso nel neonazionalismo iracheno, dove le due comunità hanno ritrovato una coesione in funzione anti-americana.
L'ayatollah Imad al Din Awadi è un "seyed", porta il turbante nero dei discendenti di Maometto, e lavora per l'unità sciiti-sunniti. L'anno scorso era tra quelli scesi in piazza a festeggiare la caduta del regime. "Non dico che questo governo provvisorio sia pessimo: sotto Saddam abbiamo vissuto per decenni momenti ben più terribili. Il problema è un altro: questo Governo non gode di nessuna credibilità, la gente non lo ascolta. Doveva essere invece l'istituzione principale per recuperare la nostra sovranità. E’ così che la gente si rivolge a noi religiosi: gli Imam godono della fiducia del popolo, gli altri no. Anche noi religiosi siamo un simbolo di unità nazionale, non dimentichi che la prima rivoluzione contro gli inglesi fu guidata dagli ayatollah". Fu allora, nel 1920 che gli ayatollah si rivolsero alla Società delle Nazioni, che aveva affidato il mandato alla Gran Bretagna, per chiedere l'autodeterminazione dell'Irak.
Con l'ayatollah Awadi sostiamo sotto la cupola d'oro della moschea di Kadhimya dove qualche giorno fa gli sciiti raccoglievano aiuti, in cibo e medicinali, per sostenere la guerriglia sunnita di Falluja. Al Khadim significa "colui che ha sconfitto la sua pena". Qui mille anni fa sorgeva la Baghdad sciita attorno alla tomba di Musa al Kadhim, uno dei 12 Imam della tradizione. La moschea, imponente e bellissima, è la mèta di pellegrinaggi continui e di lucrose elemosine dei credenti. Attorno al tempio l'ordine è assicurato dall'Esercito del Madhi di Muktada Sadr: i "sadristi" si sono tolti la divisa nera e la fascia verde in testa per indossare abiti più anonimi da dove comunque spuntano i fucili. "Con la divisa eravamo troppo riconoscibili dagli americani", spiega Hussein che monta la guardia con il beneplacito della polizia locale.
Esercito e polizia iracheni sono sempre più nazionalisti e sempre meno affidabili. A Sadr City l'esercito, quando i miliziani del Madhi hanno attaccato gli americani, ha cominciato a sparare addosso ai marines, che si sono trovati tra due fuochi. I comandi Usa si sono anche amaramente pentiti dell'idea di mandare un battaglione del ricostituito esercito iracheno a Falluja: i soldati si sono ammutinati e ora sono circondati da una compagnia di carri che li tengono sotto tiro.
Dall'altra parte del Tigri, nel quartiere sunnita di Adhamiya, la moschea di Abu Hanifa un anno fa era il simbolo della divisione con gli sciiti. Come quella di Kadhimiya anche qui il tempio è sorto sulla tomba di un Imam, Abu Hanifa Al Numan bin Tahit, fondatore di una delle più grandi scuole di giurisprudenza islamiche. Alla moschea di Abu Hanifa, Saddam aveva fatto l'ultima apparizione prima della fuga a Tikrit. Qui gli sciiti sono venuti a portare gli aiuti per Falluja, distrutti poi da un'incursione dei marines. "Non c'è niente di strano", dice lo sceicco Ali al Dabagh, siamo tutti musulmani, siamo tutti mujaheddin".
Durerà questo abbraccio tra sciiti e sunniti? Per qualcuno dopo il passaggio dei poteri del 30 giugno le divisioni riaffioreranno come prima, soprattutto quando sarà il momento di spartirsi il potere vero. Intanto però ricompaiono da un lungo periodo di silenzio e di clandestinità i movimenti nazionalisti che avevano la loro base nella comunità sciita. Come da un fiume carsico sono riemerse tre correnti che si riallacciano alla storia del nazionalismo iracheno. Una di queste è la corrente panaraba o "nasseriana", che ebbe molto seguito negli anno Cinquanta-Sessanta. Poi ci sono i comunisti, divisi in due partiti di cui uno solo fa parte del Governo provvisorio. C'è anche, infine, un'ala rilevante del partito Baath che si era opposta a Saddam. Una parte consistente di questo nazionalismo “all'irachena”, che va dai mullah fino ai comunisti, simpatizza per i gruppi schierati contro la coalizione. Oppure come il "delfino iracheno" di Bush, Ahmad Chalabi, attacca comunque la presenza americana, in nome di un riscoperto nazionalismo che oggi ha anche il gusto amaro dell'opportunismo.
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