Palestina

Una domenica particolare

Diario elettorale tra le speranze future e l'inferno presente dei palestinesi
Il giorno delle elezioni palestinesi a Gaza nel racconto di Luisa Morgantini, l'europarlamentare andata nei Territori occupati come osservatrice Ue. Dalla grande organizzazione nei seggi elettorali al calvario permanente soprattutto di donne e bambini ai check point israeliani
14 gennaio 2005
Luisa Morgantini
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Per fortuna domenica 9 gennaio, giorno delle elezioni a Gaza, è stata una giornata di sole. Mi alzo alle 5.30, nel gelo. Il Palestine Hotel è senza riscaldamento e nella mia stanza al quinto piano l'acqua non arriva. Mi lavo con una mezza bottiglia di acqua minerale.Voglio essere in tempo per l' apertura dei seggi elettorali. Devo svolgere per bene le mie funzioni di osservatrice per il parlamento Europeo. Solo quattro dei 30 parlamentari presenti come osservatori, hanno scelto di venire a Gaza. Ad una di noi, una parlamentare britannica, verrà richiesto dai suoi servizi di rientrare a Gerusalemme: temono attacchi contro i cittadini britannici per il coinvolgimento nella guerra in Iraq. Lei resiste. Tutti noi, insieme alla sicurezza palestinese, pensiamo sia un inutile allarme. Alla fine elaboriamo un compromesso, resterà nel centro elettorale di Gaza senza muoversi sul territorio. Ci dividiamo in tre team. Scelgo che il mio itinerario comprenda al Nord i campi profughi di Shati e Jabalia, alcuni quartieri di Gaza con forte presenza di Hamas (Sheik Radwan), altri più neutri, e poi Beitlahaya e Beit Hannuna, dove l'assedio, le incursioni israeliane, le distruzioni di case sono quotidiane e poi il sud con Khan Yunis e il villaggio di Al Mawasi dove gli abitanti, più di cinquemila sono imprigionati e circondati dai coloni e dai soldati dall'inizio della seconda intifadah.

Al campo profughi di Beach Camp, i seggi sono in una scuola costruita da non molti anni, siamo, io compresa, sorpresi dall'incredibile organizzazione, dentro e fuori i seggi. Ho monitorato diverse elezioni, dal Sud Africa, alla Bosnia, Albania, Pakistan, E' la prima volta che assisto quasi alla perfezione. Intanto, e sarà una costante, i seggi sono prevalentemente gestiti da donne che prendono molto sul serio le regole. Ogni tanto noi pensiamo di prenderli in flagrante e invece ci prevengono. In una scuola di Jabalia, hanno messo le sedie fuori per chi deve aspettare ed un signore gentile tiene ordine nella fila. Ogni tanto si contravviene alle regole, entrano nel cortile della scuola un nugolo di bambini che portano un manifesto con Mustafa Barghouti e Haider Abdle Shafi. In un altro seggio un signore vuole entrare a votare con tutti i bambini uno dei quali porta una sciarpa/kufia con il nome di Abu Mazen. Il solito signore si premura di tenere i bambini fuori mentre il padre viene invitato a desistere dal farli entrare.

Allarme inchiostro

Ogni tanto all'entrata dei seggi vi sono automobili con affissi i vari manifesti elettorali di Abu Mazen, Mustafa Barghuti, Taysir Khaled, Bassam Saleh, in verità cose minori. Solo per un momento la certezza della quasi perfezione vacilla, quando arriva un Sms dal centro degli osservatori: in alcune sezioni di Gaza, la 805 e 809, l'inchiostro non è indelebile. Mi prende il panico, non mi sembra possibile che ci sia una frode di questo tipo. La nostra interprete entra svelta in un seggio e si fa mettere l'inchiostro, esce, ed immediatamente lo ripulisce con un fazzoletto impregnato di alcool. L'inchiostro scompare. Impallidisco, penso già alle elezioni che saranno invalidate. Dopo qualche attimo sull'unghia e la pelle di Muna, ritorna il colore dell'inchiostro, il colore ritorna anche a me. Mandiamo un Sms dicendo che andremo a verificare ai seggi 805 e 809, ma intanto non si diffondano notizie non verificate.

Nell'andare ai seggi «incriminati» passiamo dal seggio di Ibrahim, il nostro autista, cosi può votare e noi verificare l'inchiostro. Ci fermiamo al miglior bar di Gaza city, c'è persino il caffè espresso e dolci e salati fantastici. Reincontro Nabil Shaat, il ministro degli esteri che la sera prima ci aveva ospitato, anche lui lì per portarsi a casa i dolci. Mi mostra ironicamente il suo dito, blu, indelebile, come tutti gli altri. Riponiamo la questione inchiostro nel cassetto, anche se nel pomeriggio una volontaria belga dall'ufficio elettorale di Mustafa Barghuti vuole insistere sulla questione dell'inchiostro e sulla frode.

Intanto andiamo nelle sezioni dove è stato messo il registro civile. Un vero disastro. Per cercare di ovviare al voto di clan o famigliare gli elenchi non sono per ordine di residenza e neppure per cognome ma per il primo nome. Vediamo una quantità di persone, vecchi col bastone, donne anziane che non trovano i loro nomi, gli addetti li informano che devono recarsi nell'altro seggio, distante quattro chilometri. L'uomo anziano si arrabbia, «non posso camminare e non ho i soldi per prendere un taxi. Basta, non voto». Ci dicono poi che in due ore sono arrivate più di duecento persone e solo 20 sono state trovate negli elenchi e hanno potuto votare.

A Bethlaya andiamo sul luogo dove una settimana prima i soldati israeliani sparando dal carro armato hanno ucciso sette ragazzi e altri tre sono feriti gravi all'ospedale Shifa di Gaza. I soldati sono entrati in un campo di fragole nelle vicinanze del quale era stato sparato un razzo contro il vicino insediamento ebraico. Dicono di non aver capito che i ragazzi uccisi stessero innaffiando il campo. Erano bambini dai 10 ai 17 anni. Quando arriviamo vediamo una donna che a piedi scalzi e piangendo innaffia le fragole, ogni tanto si siede, si prende la testa tra le mani, piange e l'acqua la bagna tutta. Un'altra donna cerca di consolarla. Ci avviciniamo, lei urla e racconta di suo figlio che non c'è più. Glielo hanno ucciso lì mentre bagnava le fragole e adesso lei è rimasta sola e fa il lavoro del suo bambino. Ripete le parole in modo automatico, perduta. Era sola con il figlio, il marito è morto, ci dice la vicina. Poi arrivano il padre e il fratello degli altri ragazzi uccisi. Mi chiedono di andare all'ospedale Shifa e di vedere il ragazzo che è rimasto senza gambe, chiedono aiuto. Ce ne andiamo straziati, io determinata a raccogliere i fondi non solo per il ragazzo senza gambe ma per un processo contro i soldati criminali.

Si fa tardi e vogliamo arri vare ad Al Mawasi. E' dal 19 agosto del 2001 che non assisto al calvario dei palestinesi che devono rientrare al loro villaggio dopo essersi recati a Khan Yunis per le visite in ospedale o per vendere i loro ortaggi o per comprare qualcosa. So che il divieto continua. Al mattino avevo sentito osservatori di Action for Peace che avevano cercato di entrare e avevano assistito al blocco di qualche centinaio di palestinesi che venivano fatti rientrare molto lentamente, gli uomini costretti uno a uno a mostrare il petto nudo prima di poter accedere allo screening di sicurezza.

Nel 2001, al check point di Al Tuffah avevamo visto decine e decine di palestinesi con i bambini ammalati che erano fermi da qualche giorno senza poter rientrare a casa. Dopo estenuanti trattative con un ufficiale, condotti sotto il tiro del fucile del soldato israeliano sulla torretta che minacciava di spararmi ogni volta che mi muovevo, ero riuscita a concordare il passaggio a cinque a cinque dei palestinesi, dovevo però restare a contarli. Eravamo una delegazione di Donne in nero e Associazione per la pace, naturalmente i soldati mi avevano chiesto di «ritirare i miei». Avevo chiesto di tenerne almeno due. Mi fu concesso. Ai palestinesi chiedemmo scusa per avere avuto questo potere, che avevamo chiaro che fosse un loro diritto passare liberamente. Ci rispondevano che per ora erano contenti di poter tornare a casa.

Arriviamo che è notte. Il nostro permesso per entrare a Al Mawasi è stato concordato. Mentre arriviamo a Khan Yunis, vediamo i risultati di questi anni di incursioni e distruzioni. L'interprete di origine tunisina e il funzionario del parlamento che sono con me visitano Gaza per la prima volta. Guardano i risultati delle incursioni e dicono: «ma questa è l'apocalisse, è lo tsunami». È vero. La terra umida e ancora smossa con chilometri di alberi sradicati per impedire che vi si nascondano combattenti, le povere case demolite. Sì, è l'apocalisse, ma nessuno vi bada. Quando arriviamo a Khan Yunis verso il check point di Tuffah per entrare ad Al Mawasi si vede il lungo tratto che prima era popolato di case, oggi soltanto macerie. E il muro, il grande muro che si innalza a lato per difendere l'insediamento di Gush Khatif. Non c'è più strada, solo terriccio. Il nostro autista non sa esattamente dove andare ed è terrorizzato. Lo rassicuro con difficoltà. Nel frattempo il funzionario coordina via telefono il nostro passaggio. Dobbiamo attendere. Scendo. E' buio, sono ormai le 19. Spira un venti freddo che ti taglia. Mi avvicino al nugolo di donne e bambini piangenti che stanno accanto ad un camion, con un uomo che chiede i nomi. Una donna mi avvicina e chiede se ho qualcosa per il bambino, sono lì dalla mattina non hanno mangiato niente. Alcuni bambini sono cosi intirizziti che sembrano catatonici, altri si stringono intorno alle gonne delle madri e piangono. Saranno una ventina di donne e altrettanti bambini. Alcune di loro stavano da qualche tempo a Khan Yunis in attesa di rientrare. Fatima ha partorito da poco, tiene il bambino avvolto nella coperta, ha altri sei figli a casa, non ha potuto tornare perché il check point era sempre chiuso. Ieri e oggi tutti speravano di rientrare perché avevano promesso che per le elezioni il check point sarebbe stato aperto. All'ospedale i famigliari di Khan Yunis l'aiutavano. Il marito non ha ancora visto il figlio, non ha 45 anni e quindi come tutti gli uomini al di sotto di quell'età non può uscire da al Mawasi. L'ha sentito al telefono, ma solo due volte, loro non hanno il telefono. Adesso sperava di poter tornare a casa. Vorrei restare con loro ma devo andare.

Il nostro passaggio è allucinante. Pianissimo, lasciamo l'auto. La torretta con lo spioncino e il soldato sono sempre là. Il soldato non ha l'altoparlante, si è rotto, bisogna urlare. Al nostro lato 4 donne con bambini sono messe in fila da un palestinese che capisce l'ebraico e si fa tramite con il soldato della torretta. Purtroppo il nostro passaggio rallenta l'entrata delle quattro donne in fila. Entriamo nel girone dell'inferno che per noi è comunque sicuro, non così per i palestinesi. Anche le mie scarpe passano al setaccio. Un soldato che non vediamo ci dice cosa dobbiamo fare, si entra uno per uno. Quando arrivo dall'altra parte non posso non chiedere del «capo» e dire quanto è illegale e inumano quello che stanno facendo a quelle donne e a quei bambini fuori, che li facciano passare subito. Dice che hanno il faro della luce rotto, non appena lo avranno faranno passare tutti. Continuo con le proteste, alla fine l'ufficiale si rifiuta di parlarmi.

Siamo fuori. Dopo aver ripreso l'automobile, opportunamente verificata, procediamo nel buio. Sul lato destro vediamo una cancellata nuova dipinta di verde acqua: è l'entrata dell'insediamento. Sull'altro lato macerie e terra smossa. E' il risultato delle distruzioni della case palestinesi e dei campi di arance. Non sappiamo dove dirigerci, le strade sono chiaramente strade per i coloni, sono belle, nuove. Ci fermiamo e vediamo dalle dune arrivare una camionetta. Sono i palestinesi. Andiamo alla scuola dove si vota a lume di candela. Il generatore dà luce solo per alcune ore. Nel semibuio, si avvicina un gruppo di uomini. Uno di loro mi saluta calorosamente. E' uno dei palestinesi che insieme alla moglie avevano portato il bambino in ospedale a Khan Yunis e che ha potuto rientrare dopo le trattative con i soldati. Vuole assolutamente che vada a casa sua. Lo farò un altra volta. Anche qui i seggi sono gestiti principalmente dalle donne. Siham è bella e giovane, la jihab colorata, ha vent'anni, non è mai riuscita ad arrivare a Gaza, qualche volta vede la televisione. Quando il generatore funziona, malgrado le difficoltà continua a studiare, vorrebbe andare all'Università di Birzeit, ma per gli studenti di Gaza è impossibile avere i permessi per andare in Cisgiordania.

«Siamo prigionieri»

Il preside della scuola ci racconta di quanto sia difficile per gli studenti recarsi a scuola, ci sono sempre i check point, spesso i coloni che sono armati minacciano i bambini, il materiale scolastico non arriva, viene bloccato ai check point, la maggior parte del materiale è ancora nella sede del Ministero dell'istruzione a Gaza. Anche gli insegnati che non sono di al Mawasi non possono arrivare per i check point. Intervengono altri. «Siamo prigionieri, vogliono che ce ne andiamo, ma noi restiamo,il mio raccolto ho dovuto buttarlo, era marcito, i costi sono diventati insopportabili, non possiamo usare i nostri mezzi di trasporto per portare le merci a Khan Yunis, arriviamo fino al check point e poi dobbiamo scaricare e caricare su un mezzo che viene da Khan Yunis, col doppio delle spese e del tempo, e poi i controlli sono lentissimi e senza regole, dipende di che umore sono i soldati». Nur, un' insegnante, dice che si sentono abbandonati, «nessuno viene a vedere come stiamo, i giornalisti non possono entrare, e anche l'autorità palestinese ci ha abbandonato. Non abbiamo mai visto un ministro qui. Mio figlio è costretto a restare a Khan Yunis, non era qui quando hanno fatto il censimento nel marzo del 2001, e adesso non può più rientrare a Al Mawasi».

Torniamo, sono ansiosa di vedere le donne al check point, se sono passate. Difficile ritrovare la strada tra le dune, l'autista è nel panico, abbiamo paura che i soldati ci sparino, lo fanno normalmente. Ritroviamo la strada, grazie ad alcuni palestinesi che ci hanno visto in lontananza. Al check point vediamo l'ultimo gruppo di quattro donne con bambini sottoposte alle luce acceccante dei fari e alla voce del soldato nella torretta. Stanno passando. Sono sollevata, ho visto che ci sono dai taxi dalla parte palestinese, non andranno a piedi. L'ufficiale israeliano, mi rimprovera: «ha detto che siamo crudeli», no, gli dico «non solo crudeli, anche criminali. Mi auguro anche per la salvezza della vostra umanità che non siate più costretti a umiliare e uccidere nessuno».

Torniamo a Gaza, il voto si è svolto senza incidenti. Andiamo al conteggio dei seggi elettorali che abbiamo visitato al mattino. Stessa calma, stessa professionalità. Abu Mazen si afferma presidente, Mustafa Barghuti una vera opposizione. I palestinesi ancora una volta hanno fatto la loro parte e votato, malgrado l'occupazione militare, per la democrazia e la pace. Adesso spetta alla comunità internazionale imporre a Israele il cessate il fuoco e il negoziato per la fine dell'occupazione militare e la realizzazione di due popoli due stati con Gerusalemme capitale condivisa. Intanto ieri i cittadini palestinesi di Gerusalemme est si sono visti impedire il passaggio dal check point di Kalandia e a Gaza. L'Idf ha chiesto la demolizione di 3000 case per poter costruire una barriera che impedisca i tunnel e il contrabbando di armi. Non sono buone nuove per la pace.

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