Un'inchiesta di Carlo Ruta

La vittima del racket e lo Stato che non c'è.

Clamorosa protesta
dell'imprenditore vittoriese Giovambattista Gulino, davanti alla prefettura
di Ragusa.
31 luglio 2005
Carlo Ruta

Giovambattista Gulino è un imprenditore vittoriese che non si è voluto
piegare ai racket estorsivi della sua città, perché crede fino in fondo
nella dignità umana. Ma è insorto pure contro l'istituzione più
rappresentativa dello Stato, da cui è sentito del tutto abbandonato. E lo
scorso 22 luglio ha attuato una clamorosa protesta. Ha indetto una
conferenza stampa sotto il portone della prefettura di Ragusa, per
reclamare il risarcimento dei danni subiti dal racket, come prescritto
dalla legge 44/99. Siamo andati alla conferenza, dove era accompagnato
dalla moglie Concita, giornalista, e da alcuni suoi dipendenti. Ha esposto
le sue ragioni, che meritano la condivisione piena della società civile.
Abbiamo raccolto alcune sue significative dichiarazioni, che proponiamo di
seguito.

Vittoria ha traversato un periodo particolarmente drammatico, e tu in tale
contesto, insieme con la tua famiglia, hai vissuto esperienze durissime.
Sei stato tra gli imprenditori che più sono stati presi di mira dai racket
estorsivi e dalle organizzazioni criminali. Ma non hai conosciuto solo
attentati incendiari e minacce estorsive. Hai subìto, come hai argomentato
in altre sedi, l'indifferenza colpevole se non addirittura l'ostilità delle
istituzioni dello Stato. Cosa puoi dire di tutto questo?

Posso dire che ho riscontrato delle sostanze comuni, a partire dal metodo,
malgrado le diversità che passano fra i vari livelli. Il racket mi ha
tenuto per anni sotto scacco, al fine di distruggermi. Le istituzioni
pubbliche prima mi si sono presentate "vicine", ma quando più sono stato
esposto mi hanno abbandonato.

Partiamo dalla vicenda dei racket. Cosa è ti accaduto in particolare?

Nei primi anni novanta, quando Vittoria è divenuta una capitale siciliana
delle cosche, io effettivamente sono stato preso di mira dal racket
estorsivo, ma non ho voluto piegarmi alle minacce e agli attentati. Ho
deciso quindi di denunciare i fatti alle istituzioni, che tuttavia, sin da
subito, malgrado la disposizione apparentemente favorevole, hanno
dimostrato carenze e scarsa professionalità. In quelle prime fasi qualcosa
si è fatto beninteso, grazie pure alla buona volontà mia e di altri,
malgrado la confusione imperante negli uffici operativi e i deficit di
coordinamento da parte della Procura. Via via ho però capito che qualcosa
non andava. Con l'ausilio dei mezzi d'informazione si voleva dare il senso
della vicinanza dello Stato al cittadino che denunzia. In realtà le vittime
del racket erano tenute in scarsissima considerazione. Di primo acchito i
responsabili degli uffici cui mi ero rivolto promettevano di aiutarmi, di
stare vicino a me e alla mia famiglia. Ma sono sopravvenute presto altre
condotte. Si trinceravano nei loro uffici. Si mostravano indisponibili a
ricevermi, facendomi dire che erano impegnati. Mi evitavano in tutti i
modi, anche perché a corto di argomenti. E tutto questo era mortificante.

Giovambattista, il racket ha cambiato la tua vita?

Il racket ti distrugge, perché ti colpisce a 360 gradi. Ti colpisce nella
mente, negli affetti, per timore che possano subire danni le persone che ti
sono più vicine, mette profondamente in discussione tutto quello che hai
realizzato in una vita. Non ti senti più padrone delle tue cose, se
arrivano a bruciarti l'automobile davanti alla porta di casa. Il racket ti
colpisce nelle amicizie, perché ti fa il vuoto attorno, perché ti ritrovi
improvvisamente solo. Ti posso dire che in certi periodi non potevo
addirittura uscire di casa: non perché avessi paura di coloro che mi
minacciavano, ma perché avevo "paura" della società, della gente "onesta"
che mi bollava come un perdente. La città rispondeva agli attacchi dei
racket con inadeguatezza. Il cittadino osservava con distacco la mia
vicenda, mi additava, mi giudicava, dicendo magari fra sé e sé "chissà cosa
c'è sotto". Tutto questo io lo avvertivo e mi faceva male, più di quanto me
ne facessero le vessazioni degli estortori.

Vogliamo dire adesso del tuo rapporto con le istituzioni in questi lunghi anni?

Dei cosiddetti boss, come ti dicevo, in fondo non avevo paura. Li conoscevo
bene, sin da quando erano dei ragazzini. Individualmente erano dei codardi.
Solo nel muoversi in gruppo acquistavano forza. Quindi non potevo temerli.
E se non temevo loro, che pure mi tenevano sotto tiro, non potevo certo
temere le istituzioni quando hanno preso a esibire nei miei riguardi un
aspetto torbido e nemico. Debbo dire che per dieci anni ho chiesto ristoro
allo Stato, e, pur avendo ottenuto il riconoscimento di vittima
dell'estorsione, per dieci anni è stato fatto il possibile per impedirmi di
attingere al fondo previsto dalla legge. Ho dovuto ricorrere al TAR, e
questo mi ha dato ragione. Ma mi è stato nuovamente negato ogni
risarcimento. Per reclamare i miei diritti ho dovuto attuare quindi una
dura protesta, rivolgendomi pure ai mass media, e solo allora ho ottenuto
delle tranches di quanto mi spettava.

Puoi dire quali persone e quali uffici istituzionali si sono messi di
traverso, hanno cercato cioè di impedire che ti fossero risarciti i danni
causati dai racket, come previsto dalle leggi dello Stato?

Faccio una premessa. Il sud-est siciliano ha accolto solitamente prefetti
di pura rappresentanza, che talora hanno finito con il fare da notai degli
interessi in gioco, leciti e non solo, ma ne ha ospitati anche valorosi,
che hanno fatto del loro meglio per combattere le iniquità, visibili e
nascoste, come Prestipino Giarritta, nei primi anni novanta. Ebbene, a mio
discapito ho potuto capire che l'attuale prefetto di Ragusa, il calabrese
Sandro Calvosa, incarna la tradizione principale, trattandosi di una
persona inadeguata al ruolo istituzionale che ricopre. Riguardo al mio
caso, tale rappresentante dello Stato ha assunto impegni morali che,
premeditatamente, non ha mantenuto. Con il suo veto ha infatti
reiteratamente bloccato il definitivo risarcimento dei danni da me subiti:
a dispetto della legge 44, che pure è chiara, precisa, inequivoca.

Come hanno reagito i vittoriesi?

I vittoriesi sono laboriosi e ricchi di inventiva, in massima parte sono
persone perbene, però in città permane molta ignoranza, pure a causa della
dispersione scolastica, che non risparmia le ultime generazioni. E in tali
condizioni, che diventano drammatiche in alcuni quartieri, insistono a
trovare buon gioco fenomeni degenerativi come il pizzo, l'illegalità delle
cosche, il traffico dei narcotici, la tradizione della "giustizia" privata.
A fare da collante al tutto è ovviamente una certa cultura dell'omertà, che
tarda a scomparire.

Il tuo rapporto con le istituzioni come è mutato?

Prima che vivessi le esperienze di cui stiamo parlando avevo soggezione
davanti a coloro che rappresentano l'autorità. Quando mi introducevo in
certi uffici pubblici provavo disagio. Sentivo lo Stato come una presenza
austera, che mi incuteva timore. Ma lentamente ho maturato tante cose.
L'educazione civica suggerisce che non si è sudditi bensì cittadini, che
tutti siamo uguali di fronte alla legge, che la dignità umana va
rispettata, che chi esercita una funzione pubblica non può arrogarsi
privilegi e intimorire il cittadino, né può trasformare la sua mansione in
un potere personale. Ebbene, purtroppo le cose stanno diversamente, e io ne
ho fatto esperienza a mie spese. Sono stato vilipeso, isolato, mortificato.
Ma, come detto, non ho avuto paura. Non ho esitato nel reclamare i miei
diritti. Non ho avuto timore di dire e di scrivere al prefetto tutto quello
che pensavo di lui. E oggi, nonostante tutto, non ho timore a protestare,
qui, sotto la prefettura di Ragusa, perché venga fatta giustizia.

Intervista a cura di Carlo Ruta

per contatti: gulino.gb@tiscali.it
Cell.338.2318692

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