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Passato, presente e futuro della città pugliese nel racconto del magistrato-scrittore che qui è nato e cresciuto

Il nuovo e il vecchio sindaco. L'industria e l'orgoglio: La mia Taranto

In fondo, andarsene dove ci sn più spazio e più occasioni è una scelta semplice: basta bruciarsi i ponti alle spalle e nn voltarsi mai indietro. Quanto alle radici, bè quello è un altro discorso. Nn c'è chirurgia che riesca ad amputarle per sempre. E spesso, quando meno te l'aspetti, si avvia il loro lento, inesorabile moto verso le origini
11 agosto 2007
Giancarlo De Cataldo
Fonte: La Repubblica delle Donne

Taranto - Masseria La Penna Una sera di tanti anni fa, mentre ero a Taranto per una breve vacanza, conobbi l'attuale neosindaco Ezio Stefàno. Provavo un acuto disagio a ritrovarmi nella città della mia infanzia. La crisi industriale sembrava irreversibile. La malavita organizzata spadroneggiava da tempo, seminando il terrore nel vecchio borgo e nei nuovi quartieri. A salvatore della patria si candidava Giancarlo Cito, storico esponente dell'estrema destra divenuto popolarissimo grazie all'uso spregiudicato di un'emittente televisiva.

Mio figlio, piccolissimo, si ammalò di una febbre improvvisa. Un amico di quelli che avevano avuto il coraggio di restare in provincia mi consigliò di rivolgermi a Stefàno. "Ma non era stato eletto in Parlamento?", domandai, pescando in vaghe memorie. "Sì, ma poi è tornato giù e ha ripreso a esercitare". "Figurati se riesco a beccarlo", obiettai, abituato alle convulse, sovente impossibili relazioni umane della grande città. "Sarà occupatissimo, e poi... poi non ci conosciamo". "Tu chiamalo, e vedrai".

Stefàno comparve che era quasi mezzanotte, provato da una lunga giornata di lavoro. Non si fece pagare. Lo faceva con tutti, avrei appreso in seguito. E tutti lo rispettavano. Un po' di tempo dopo, "il dottore" cercò di strappare il Comune proprio a Giancarlo Cito. Fu sconfitto. Un mucchio di brava gente che aveva votato il robusto e tonitruante geometra si sentì in dovere di presentargli le scuse: "Noi vi vogliamo bene, ma il voto lo dovevamo dare a Giancarlo". Per salvare la città, si diceva allora, per mandare a casa una classe politica inefficiente, per recuperare l'orgoglio della bella Taranto d'un tempo, per marcare una distanza da quei "signori" dei salotti romani che promettono e non mantengono mai. Ma quelle scuse avevano un significato ben preciso, che non poteva sfuggire a chi è nato in provincia, e una certa ritualità, anche semantica, l'ha succhiata con il latte materno.

Significavano, quelle scuse, che, anche se sconfitto, Stefàno restava uno di noi. Proprio come Cito. Aveva solo scelto la parte sbagliata: candidandosi come esponente della sinistra, si era mantenuto nel solco della politica tradizionale. Non aveva rotto gli argini. Per questo, anche per questo, soprattutto per questo, il rivale gli era stato preferito.

Le vicende successive sono note. I guai giudiziari di Cito. Il clamoroso dissesto delle casse comunali. Le tante speranze riposte nell'antipolitica, naufragate sotto l'implacabile logica della contabilità. Poi, pochi mesi or sono, l'annuncio: Stefàno, il "dottore", tornava in campo. E questa volta non solo per sfidare il nemico di sempre, nel frattempo reincarnatosi in un figlio continuatore dei costumi e delle tradizioni paterne; anche contro la sinistra dei partiti "istituzionali" che puntava su un diverso cavallo, Giovanni Florido, il presidente (tuttora in carica) della Provincia. La lotta fratricida a sinistra aveva creato un terremoto politico. I Ds si erano spaccati. La Margherita, decisamente "floridiana", era ai ferri corti con le altre formazioni che, a Roma, sostenevano il governo Prodi. Bisognava schierarsi. Il conflitto era, o almeno appariva, alimentato da due visioni inconciliabili del futuro della città: l'industrialista da un lato, l'ecologista-culturale dall'altro.

Da Roma seguivo la vicenda con la curiosità dell'osservatore che non riesce a sentirsi del tutto distaccato. In fondo, era del futuro della mia città che si parlava. In fondo, andarsene dove ci sono più spazio e più occasioni è una scelta semplice: basta bruciarsi i ponti alle spalle e non voltarsi mai indietro. Quanto alle radici, be', quello è un altro discorso. Non c'è chirurgia che riesca ad amputarle per sempre. E spesso, quando meno te l'aspetti, si avvia il loro lento, inesorabile moto verso le origini.

Parlavo con i "floridiani", e mi spiegavano che era pura follia la pretesa di gestire una ripresa della città senza coinvolgere il piano industriale, senza scendere a patti con l'acciaieria Ilva e il suo padrone (il contestatissimo industriale genovese Riva), senza sfruttare le occasioni offerte dal porto e dai massicci investimenti annunciati. L'economia, per assurdo che potesse sembrare, "tirava". Il Porto, per movimento merci e affari, tallonava Genova. Gli investitori, rassicurati dall'imminente cambio di rotta della città, erano pronti a valorizzare Taranto. Si prospettavano grandi opportunità. Persino Riva mostrava cauta apertura. Non pensassero davvero, "gli altri", di rispedirci a coltivare le cozze nel Golfo.

Parlavo con gli "stefaniani", e mi spiegavano che la città aveva già pagato un prezzo troppo alto all'illusione dello sviluppo industriale. Che, per salute pubblica, eravamo tra gli ultimi al mondo. Che si doveva immaginare un futuro non necessariamente legato all'industria pesante. Nessuno, giuravano, pensava di sfrattare Riva. Ma bisognava rinegoziare le regole. Esisteva una magna charta "verde", il Protocollo di Kyoto. L'Italia vi aderiva. Taranto non poteva esserne esclusa. Esisteva un'antica vocazione culturale della città, un tempo capitale della Magna Grecia. Un coacervo di risorse inesplorate da recuperare. Si evocava (ma gli interessati, a specifica domanda, oggi negano o minimizzano) Bilbao: città che perde l'industria e si riconverte in gioiellino della cultura e del turismo. La centralità del rapporto fra i tarantini e l'acciaio emergeva in tutta la sua prepotente attualità.

Dire Taranto è dire Italsider, Ilva, qui chiamata "il siderurgico" o, semplicemente, la Fabbrica. Uno stabilimento di quelli di una volta, una città di cemento venduta, cinquant'anni fa, come il motore del riscatto del Sud.

Il "gigante fra gli ulivi" avido di sacrifici umani, intorno ai cui altiforni sono state scritte pagine eroiche, drammatiche, cruente, storie di lotte violente e di repentine rassegnazioni. Il gigante che, in certe sere terse e luminose, accende dei suoi fuochi i tramonti struggenti sul Mare Piccolo, e che per tanti, troppi giorni l'anno vomita fumi pestilenziali, polveri che corrodono. Il gigante alieno verso cui si provano ora rispetto, ora gratitudine, ma che dalla città non è mai stato veramente amato. Senza l'Ilva, mi dicevano, non avremmo mai conosciuto questa mitica figura, l'Operaio, che tanta parte avrebbe occupato del nostro immaginario. Senza l'Ilva, ribattevano, non ci ritroveremmo a rimpiangere la "dolce Taranto" d'una volta. Slogan, ma dalla fortissima carica suggestiva: come se intorno all'Ilva si giocasse una partita fra l'economia e l'utopia, fra la fredda statistica e il calore di un sogno. Ma non era tutta qui, la contesa.

Gli "stefaniani" mi dicevano che gli "altri" erano la vecchia politica, i partiti dalla presenza condizionante e invasiva. Che la sola chance dei tarantini era rimboccarsi le maniche e fare da sé. Dai "floridiani" partivano sospiri irritati. Spiegavano: gli avversari parlano di autonomia e "liberazione" e poi, dietro il cartello elettorale che hanno impiantato in fretta e furia, ci sono due vecchi volponi della politica. Ovvero, Gaetano Carrozzo, il "rosso", diessino entrato in contrasto con il partito in nome di Stefàno sindaco, e Massimo Ostilio, proconsole dell'Udeur di Mastella.

Mi scappava un sorriso quando, sui quotidiani nazionali, ritrovavo Stefàno & Co. iscritti d'ufficio alla sinistra radicale. L'immagine di un Ostilio "guevarista" era degna di una vignetta becera. Tutti se lo ricordano, a Taranto, da studente, impegnato a professare la fede democristiana tra ragazzi che sognavano Mao. Quanto a Carrozzo, confesso un certo imbarazzo nello scriverne. C'è, dai tempi del liceo, stima reciproca. Da quando, sotto la scorza del "figiciotto", celava qualità umane e formidabile senso dell'umorismo. "E gli amici che sono andati dall'altra parte?", gli ho chiesto, dopo la vittoria. "Aspettiamo il loro ravvedimento", ha risposto, "e siamo pronti ad accoglierli a braccia aperte". È un politico. Ma quando sei nato in provincia, non puoi barare con la provincia. Non c'è altro luogo dello spirito che sappia essere, al contempo, così rassicurante e oppressivo. Così ricco di antagonismo e di condivisione.

In provincia, la memoria individuale non esiste: per vocazione o necessità è collettiva. I miei ricordi coincidono con quelli di tanti della mia generazione. Ostilio e Carrozzo e Stefàno: che siano politici o no, e come siano schierati, non conta. Conta che sia, ciascuno di loro, uno di noi. Attenzione: non è detto che sia la strada giusta. Non è detto che l'appartenenza significhi qualità. Ma è un dato di fatto. Se non ci fai i conti, puoi anche essere il più raffinato ideologo dell'universo. Ma, in provincia, non hai futuro.

Bene. Stefàno ha vinto. Il futuro della città è nelle sue mani. Sarà durissima, con il Comune indebitato sino al collo e la cassa al verde. Potrebbe dimostrarsi una sfida esaltante: più in basso di così non si può andare. Daranno una mano anche gli sconfitti al ballottaggio? C'è da augurarselo. Per intanto, in bocca al lupo, signor sindaco che curi i bambini. E in bocca al lupo, Taranto.

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