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«La mia morte può attendere»

Gli Usa lo volevano condannare alla sedia elettrica, in Italia è semilibero. «Ho ucciso un uomo a Miami, sono pentito e ho chiesto perdono. Oggi lavoro in una parrocchia, e aspetto. Sono colpevole e devo pagare ma vorrei tornare in Florida: ho lasciato là tutta la mia famiglia»
26 aprile 2008
Tonio Attino
Fonte: La Stampa, 19 Aprile 2008

Pietro Venezia

Il mio sogno è tornare negli Stati Uniti, il paese che poteva darmi la pena di morte. Io sono un cittadino italiano, ma la mia famiglia è americana. Spero di riuscire a raggiungerla, un giorno. E sento di dover chiedere perdono a tutte le persone alle quali ho fatto del male. Ora sto ancora scontando la condanna. Devo pagare».

Detenuto in semilibertà, Pietro Venezia lavora in chiesa: mette in ordine l’archivio. Ha 55 anni, la barba bianca. Ne aveva 40 quando - il 23 dicembre 1993 - uccise, a Miami, Donald Bonham, esattore del fisco. Gli aveva bloccato il conto in banca per un debito di 40 mila euro. «Persi la testa, presi la pistola.

Quegli attimi terribili cambiarono tutto». Venezia sarebbe finito probabilmente sulla sedia elettrica se non fosse fuggito in Italia rifugiandosi a Laterza, nella casa dei genitori. E se la Corte costituzionale, il 27 giugno 1996, non avesse impedito in extremis l’estradizione chiesta dagli Usa e già concessa dal governo italiano. Fino al giorno prima si sentiva un «dead man walking». «Ero già morto». Fu il terrorista Pierluigi Concutelli a dargli la notizia nel carcere di Rebibbia: «Pietro, hai sentito?».

Condannato a Taranto a 22 anni di reclusione, Venezia ha ora ottenuto la semilibertà. Mentre la sua famiglia, moglie e due figli, vive a Miami, lui lavora nella parrocchia della Santa Croce a Laterza, il paese da cui emigrò a 19 anni per girare il mondo prima di mettere radici in Florida e diventare proprietario del «Buccione», il ristorante dei vip. «La mia seconda vita è cominciata da pochi giorni, il 3 aprile. La prima ce l’ho sempre dentro. Il rimorso non si cancella. Provo a ripartire. Al mattino esco dal carcere, alle 7,30 prendo l’autobus e vengo qui a Laterza, in chiesa. Devo informatizzare l’archivio. Mettere nel computer mezzo secolo di dati. Nascite, battesimi, comunioni, matrimoni e decessi dal 1948 ad oggi». Di pomeriggio Venezia lavora con la cooperativa sociale Futura. «Vado nella vecchia chiesa del Purgatorio, che ora è una sala congressi. La tengo pulita. Poi alle 18 prendo l’autobus, alle 20 rientro in carcere».

Conteggiando i tre anni di indulto e la buona condotta, Venezia finirà di scontare la pena il 5 maggio del 2010. «Il mio avvocato chiederà l’affidamento ai servizi sociali. Sono fortunato. In tanti mi vogliono bene nonostante tutto. Le mie sorelle. Mia moglie non mi ha mai abbandonato, anche se io l’avevo lasciata. I nostri due figli li ho visti crescere nelle fotografie: li ho incontrati l’anno scorso, dopo 13 anni di carcere. Non volevo che mi vedessero lì dentro. A giugno sono venuti a Laterza, ci siamo abbracciati. Carmine ha 19 anni, Nicolina 17. Si chiamano come i miei genitori. La notte abbiamo dormito tutti insieme, in quattro nel lettone. Scontata la pena, vorrei andare da loro, negli Usa. E’ il più grande desiderio che ho. Spero mi sia concesso».

La storia comincia nel ‘71. Figlio di contadini, cinque sorelle che lo coccolano, Venezia ha il diploma di ragioniere. Frequenta un corso per programmatore informatico. A Taranto è nato il centro siderurgico Italsider. Da Laterza partono i pullman. I contadini lasciano la terra per la fabbrica. Pietro no. «Laterza mi stava stretta. Volevo imparare». Va a Roma, poi a Londra. Lavora come cameriere, «un mestiere che aiuta se non sai fare niente». Nel ‘74 acquista un ristorante con tre amici. Un anno dopo è in Norvegia. Si imbarca sulle navi da crociera. Conosce New York. Miami. E si ferma. Gestisce un ristorante, ne apre un altro al centro di Miami, sposa Francesca Catania, perito assicurativo e broker immobiliare: «Americana, ma di origini italiane. Genitori del New Jersey, nonni paterni di Lipari, nonni materni di Ischitella, un paesino pugliese del Gargano».

Nel 1987, «con un prestito di 600mila dollari» compra il ristorante «Buccione», 18 dipendenti, cucina italiana. «Ci venivano avvocati, giudici. Funzionò. Giro d’affari, due milioni di dollari l’anno». E’ ricco. «Un giorno sono sotto la doccia. Mia moglie mi chiama. Dice: guarda la tv. Avevano arrestato una decina di giudici. Clienti del mio ristorante». Venezia si ritrova testimone nel processo, il fisco spulcia tra i suoi conti. La cattiva pubblicità dello scandalo «Court Broom» fa male agli affari. Quando il fisco gli blocca i conti, crolla il suo impero. «Sparai» ricorda. E si mette le mani alla testa. Gli Usa volevano processarlo. «Mi aiutarono i compaesani, il senatore Pietro Alò di Rifondazione, l’associazione Nessuno tocchi Caino».

Una campagna contro l’estradizione verso la Florida in cui c’è la pena di morte. «Mia moglie non mi hai abbandonato. Lo so: sono indifendibile. Ho fatto del male». Don Lorenzo Cangiulli, il prete che lo ha accolto in parrocchia, ha 31 anni. E’ dolcissimo: «Pietro non è un delinquente». E Pietro: «Da ragazzo stavo per entrare in seminario». Ma il sogno è l’America. «C’è qualcosa che devo fare. Trovare i parenti di Donald Bonham. Chiedere perdono. Durante il processo a Taranto incontrai la sorella, il figlio e il cognato di Bonham. Chiesi perdono. Scoppiarono a piangere. Abbracciarono le mie sorelle mentre mi portavano in cella». Vorrebbe piangere anche lui, Pietro Venezia. Non ce la fa. Alle 18 saluta le sorelle, chiude la porta della casa paterna e torna in carcere.

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