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Mare Amaro, un racconto breve inedito di Francesco Ruggieri

Pubblichiamo il racconto di Francesco Ruggieri che ha ricevuto una menzione speciale nell'ambito del concorso letterario bandito dal Corriere del Giorno.
17 ottobre 2008
Francesco Ruggieri

Taranto e il suo mare
Giovanni si era fermato di colpo, quando, passando velocemente davanti alla edicola, aveva intravisto un titolo del giornale locale, in alto a sinistra, in prima pagina: “Mare amaro”. Per lui, nato e cresciuto in una grande città di mare, che del “suo” mare conosceva quasi ogni goccia, ogni riflesso, ogni odore, per lui, pescatore dalla nascita, era davvero difficile comprendere ed accettare quell’aggettivo così sgradevole: amaro. Ma da lì a poco i suoi dubbi, la sua meraviglia, il suo non celato disappunto, avrebbero lasciato posto ad una più chiara ma non meno dolorosa comprensione.

La lettura veloce di poche righe di quel pezzo avrebbe eliminato ogni stupore, tracciando, riga dopo riga, parola dopo parola, un profondo solco nel suo animo. Comprò il giornale e lesse dunque quell’articolo. Il sole in quel giorno di mezza estate era impietoso; alle 16 di un pomeriggio torrido e umido, come solo in una città ai confini tra l’Europa e l’Africa è possibile saggiare, colpiva da ogni angolo. Nessun riparo, nessuna zona d’ombra. Lì, sotto le scale consunte di quella splendida Chiesa antica, in cima ad un pendio, si scorge appena uno spicchio di mare; da lì si percepisce tutta la bellezza e la grandiosità di una città un tempo crocevia di traffici, mercanti, poeti e mecenati. Sì, un tempo era così.

Giovanni, Mario, Cataldo e Giuseppe, erano coetanei; nati a pochi giorni di distanza l’uno dagli altri, in casa, come si usava una volta. Erano cresciuti per strada, nei vicoli del centro storico della città; la chiamavano la ”città vecchia”, vuoi solo per semplici ragioni storiche, vuoi per l’aspetto dei suoi palazzi d’epoca, vuoi infine per quell’affetto che si deve a ciò che è avanti negli anni, e per questo richiede attenzione e rispetto.

Giovanni aveva ritagliato quell’editoriale, e ripiegatolo con maniacale cura, lo aveva riposto nel taschino della sua camicia; lo aveva letto e riletto fino quasi a memorizzarne ogni parola, ogni virgola, ogni spazio vuoto di quel breve annuncio. Mare amaro, mare amaro, mare amaro, ripeteva meccanicamente, mentre con Rosa, sua moglie, percorreva la via principiale della sua città vecchia, interrompendo, con lo strisciare pesante dei suoi sandali estivi, il riposo di un piccolo meticcio addormentato all’ombra di una mezza colonna in pietra, di quelle che cingono il duomo.

Quante volte aveva giocato con i suoi amici utilizzando quelle mezze colonne! Saltandoci sopra e non dirado tornando a casa con le ginocchia sbucciate. I quattro amici avevano vissuto serenamente tra i vicoli della città vecchia la loro infanzia, rincorrendosi o rincorrendo una palla; facendo roteare al massimo dei giri la loro trottola da combattimento. Certo, parlare loro di trottola poteva apparire quasi un insulto; ma quale trottola? La trottola è un gioco per bamboccioni, “figli di papà” come si usava e forse si usa ancora etichettare chi ha avuto la fortuna, ma sarà davvero fortuna? di essere nato in una famiglia benestante. “U currùchélé semmai; un pezzo di legno cuneiforme con un puntale di ferro e tante scanalature laterali fatte su misura per un laccio di scarpa, un pezzo di spago sottratto furtivamente in qualche piccola botteguccia, u cuénzé detto in vernacolo del luogo; non un gioco ma un rito, una sfida tra pari, una gara onesta. Vince chi fa roteare per più tempo quel pezzo di legno lavorato da qualche paziente novello mastro Geppetto.

Giovanni, guardando quelle mezze colonne, pensava a quei giochi; provava un forte senso di colpa per non essere riuscito a trasmettere quelle sane abitudini, quel modo così fantasioso, e collettivo, di soddisfare ogni ludica necessità, ai figli ormai solidalmente e stabilmente integrati alla loro play station, impegnati a sfidare uno spietato microchip, freddo e senz’anima, invincibile. Soli nel silenzio della chiassosa confusione di una comunità virtuale; virtuale, appunto.

Giovanni si avvicinava al luogo in cui si erano dati appuntamento con Mario e Giuseppe, qualche vicolo prima della chiesa; non vedeva gli amici da qualche giorno. L’ultima volta si erano incontrati in una nuova pizzeria aperta da un’artista del luogo proprio vicino al municipio. Aveva pagato per tutti Cataldo; un modo abbastanza consueto di rendere partecipi gli amici di un successo: il suo primo vero stipendio. Nonostante l’età non giovanissima dei quattro nessuno aveva mai percepito un vero e proprio stipendio. Dopo le elementari Giovanni e Mario avevano frequentato le scuole medie, mentre Giuseppe e Cataldo avevano abbandonato dopo il primo anno; ma nessuno, comunque, era andato oltre negli studi. C’era altro da fare; più urgente, più cogente: lavorare per aiutare la famiglia nella attesa di farsene una propria. Un lavoro duro il loro, defatigante: certo non lo avevano scelto, ma a loro piaceva e come! prendere il mare prima dell’alba non era facile da far accettare all’orologio biologico di un giovane i cui cicli circadiani sono sottoposti a continui stress; ma a loro piaceva. Piaceva quell’odore così intenso di caffè che le mamme preparavano insieme a qualche piccola provvista che doveva soddisfare il loro mai soddisfatto appetito, durante le tante ore di lavoro in mare. Avevano imparato il mestiere dai loro genitori che a loro volta lo avevano appreso dai nonni, generazione dopo generazione; un mestiere antico quello del pescatore; ma per Giovanni, Mario, Cataldo e Giuseppe quello non era neppure un mestiere, era un componente del loro DNA. Loro pescatori non erano diventati, ci erano nati; non avrebbero mai neppure immaginato di fare altro nella loro vita; forse. A quei tempi, a dire il vero, le alternative erano scarse. O forse mancava quel necessario ottimismo e quella voglia di rischiare che avrebbero consentito di guardare con più attenzione alle tante potenzialità del territorio. Mai i quattro non si ponevano poi tante domande; il mare era nel loro destino.

Giovanni, mentre si avvicinava alla chiesa, rallentava sempre più il suo passo; come se una forza misteriosa lo trattenesse; si fermò sotto un arco antico creando qualche preoccupazione a Rosa. Tirò fuori dal taschino quel ritaglio di giornale e lo rilesse ancora una volta: mare amaro; continuava a fissare quel titolo come attratto da una forza magnetica, sforzandosi di capire ciò che continuava a turbarlo profondamente. Leggeva e rileggeva, ma continuava a chiedersi il significato di quell’aggettivo che tanto lo aveva colpito. Riprese il cammino raggiungendo in breve la chiesa. Non volle entrare subito; fuori c’era tanta gente. All’ombra di un alberello malconcio e assetato due operatori delle TV locali scambiavano qualche parola, confrontandosi forse sul modo migliore di effettuare le riprese, o, magari, riferendosi alle tante ore passate a sopportare sulla spalla il peso enorme della cronaca quotidiana, catturata dalle loro telecamere e formattata in qualche migliaia di pixel. Vicino alla porta della Chiesa Giovanni vide il direttore del giornale locale da cui aveva tratto la notizia, l’autore dell’editoriale che aveva ritagliato e che ormai poteva ripetere a memoria; d’istinto si lanciò sulle scale, sembrava quasi volesse aggredire il giornalista. Poi si fermò; vide estrarre una pipa e l’inizio di un rito, quello della carica del fornello e della lenta accensione. Non volle disturbare.

I quattro amici erano assolutamente inseparabili; sempre insieme nei vicoletti stretti della loro città vecchia, insieme a scuola, insieme dietro alle prime ragazze, ma soprattutto in mare. Mariastella era la loro passione comune, la loro vita, non riuscivano a separarsene, se la dividevano in quattro, l’amavano, sempre insieme. Mariastella, la loro motobarca, era sempre tirata a lucido; non le facevano mancare nulla; e lei ricambiava conducendoli sempre alla meta, lungo la costa o in alto mare fino a scomparire dopo l’orizzonte, per riportarli sempre in porto, molto spesso inclinata a poppa per il ricco carico di pesce. Non c’era certo da diventare ricchi con quel mestiere; ma a loro piaceva: si sentivano un po’ figli di Nettuno, quando erano in mare; il senso di libertà che provavano era impagabile. Ma quanta fatica, quanta sofferenza, quanti i sacrifici; si riusciva appena a sbarcare il lunario. Forse anche per questo Cataldo aveva preso la decisione; non gli andava più di restare in mare tanti giorni, sentire il sale entrare nei solchi della sua pelle tagliuzzata dal vento e dal sole, passare le domeniche a riparare le reti. Avevano litigato per questo; il primo vero serio litigio dei quattro amici; per un po’ non si erano più visti. Poi il tempo rimette tutto a posto, riattacca i cocci, magari si perde qualche frammento e il vaso della vita alla fine non è più quello di prima ma continua, bene o male, a svolgere la sua funzione.

Dalla dunhill in radica si alzavano con ritmo lento e costante piccole nuvolette di fumo; il direttore del giornale era sempre lì fermo a guardare tutto ciò che accadeva intorno; immobile, come timoroso di contaminare con il suo fare la cronaca di quei momenti. Era da molti riconosciuto un’importante penna del giornalismo locale; grande conoscitore delle tradizioni e soprattutto un amante quasi morboso della sua città. Mai fazioso, mai protagonista, mai troppo sulla scena. Insomma una sorta di eretico in un era di veline e di informazione spesso scritta su dettatura.
Giovanni continuava a guardarlo; chissà cosa avesse in testa di chiedergli; sicuramente avrebbe voluto comprendere la scelta di quel titolo che non gli era piaciuto per nulla: mare amaro. Ma poi, alla fine, rinunciò.

Raggiunto il luogo dell’appuntamento trovò i due amici con le rispettive ragazze; decisero di bere qualcosa, un po’ per il caldo insopportabile, un po’ per ricercare una normalità smarrita. Entrarono nel vicino bar e ordinarono delle aranciate per le donne, mentre i tre pescatori non rinunciarono alla loro birra. Una birra storica, vecchia anche quella; prodotta per decenni nella loro città, poi, come tante altre cose scomparse o, peggio, ripudiate, anche quella antica fabbrica, quel marchio inconfondibile, era andato via. Tante cose negli ultimi anni erano cambiate in città; l’industria pesante aveva travolto tutto e tutti, agglomerando insieme a calcarei, carbon coke, e minerali di ferro, il genio antico di un popolo di pescatori, navigatori, poeti e sognatori; facendone un esercito di alieni; anonimi componenti del processo produttivo della fabbrica.

Cataldo era entrato a far parte di quell’ esercito; lo avevano assegnato al piano di colata di un altoforno; lì, vicino al “rigolone”, con una lunga canna divideva la ghisa dalla loppa inviando ognuno dei due prodotti nel rigolo di competenza; tutto il turno così; tra fuoco, polvere, e il forte odore di gas. La pausa a mezzogiorno: un pezzo di pane, un caffè, ma soprattutto il ritorno, per qualche minuto, ad una dimensione più naturale; libero di muoversi nel pur angusto spazio della mensa, senza la tensione di chi sa di non poter sbagliare un solo movimento. Un movimento, il suo, totalmente integrato nel processo produttivo; le sue braccia una sorta di appendice dell’altoforno; movimenti precisi, immodificabili, come quelli di un ingranaggio meccanico. Altro che buttare le reti in mare! Cataldo sentiva tutta la responsabilità di quel suo lavoro; ne era fiero.

Aveva scherzato molto quella sera in pizzeria, e bevuto altrettanto; Maria, la sua ragazza, una ventenne esile e timida, nata anche lei nella città vecchia, aveva cercato di convincerlo a tornare con gli amici in mare, con le loro reti, il calore del sole, il profumo del pescato. Anche gli amici, per tutta la serata, avevano continuato a parlargli di libertà, di amicizia, di tradizioni, di vocazioni. Niente, Cataldo era stato pienamente ed irreversibilmente contaminato: il posto fisso, lo stipendio, la sicurezza del futuro. Alla fine avevano smesso; se l’amico aveva deciso così, pazienza.

Uscirono dal bar e si avviarono verso la chiesa, ormai piena. Giovanni sembrava assente, non partecipava più al dialogo con gli amici. Mare amaro; ma perché amaro? continuava a chiedersi in maniera ossessiva. Lui lo sapeva salato, il mare; a volte anche avaro, quando la pesca era scarsa; arrabbiato, quando il vento soffiava forte; ma amaro? Perché amaro? Si fermò davanti al portale in legno della chiesa, gli amici entrarono, lui restò fuori; si voltò e vide in basso il direttore del giornale sempre fermo, immobile, come un congegno ben piantato in terra per misurare attentamente il divenire continuo della vita.

Gli sguardi si incrociarono, proprio mentre il maestro dava il via alla banda; sentì la guancia inumidirsi e una goccia scendere verso la bocca. Assaporò quella goccia e sentì forte il suo sapore….amaro. Guardò ancora il direttore, finalmente capì ciò che pur dopo mille letture non aveva compreso; forse non aveva voluto comprendere.

La città piangeva ancora per l’ennesima morte bianca; un altro suo figlio rubato al destino e immolato sull’altare del progresso. Era scivolato su quel rigolone infuocato; cadendo nel vuoto non aveva avuto il tempo di pensare, non era potuto tornare indietro, travolto dalla forza di gravità, o, forse, da una forza ancora più forte, quella della illusione di una vita migliore ricercata, ma non trovata, nella fabbrica. Cataldo ora usciva dalla chiesa; lo portavano sulla spalla gli amici Giuseppe e Mario. Giovanni pensò a quel pianto, a quel mare,…. amaro,…. di lacrime, versate per anni da una città intera, e,…….finalmente, capì quel titolo.

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