Conflitti

Il dramma del Nord Uganda in un'intervista a José Carlos Rodriguez

Uganda: esposti alla sofferenza degli altri.


Ogni sera dormono nella sua casa parrocchiale e nella chiesa adiacente centinaia di persone nel tentativo di sfuggire alle razzie notturne dei ribelli, che hanno come primo obiettivo il sequestro di bambini destinati a diventare guerriglieri. Il giornalista e missionario comboniano Rodriguez è impegnato anche sul fronte della mediazione ufficiale tra ribelli e governo.
17 novembre 2005
Laura Lanni
Fonte: antenne di Pace


P. Carlos, spagnolo, è missionario comboniano nel nord Uganda da 17 anni. Attualmente è parroco a Minakulu, un piccolo centro situato in una zona rurale a 20 km a sud della città di Gulu. Svolge inoltre un'intensa attività come membro della "Commissione Giustizia e pace" dell'arcidiocesi di Gulu e partecipa attivamente al dialogo di mediazione tra ribelli e governo ugandese. In quanto giornalista ha contribuito a livello internazionale a diffondere informazioni sul dramma del nord Uganda, e lavora attualmente come articolista per il settimanale ugandese "The weekly observer".
Insieme a P. Carlos abbiamo vissuto per tutto il mese di agosto 2005 nella casa parrocchiale di Minakulu, che tutte le sere ospita centinaia di "night's commuters" (pendolari della notte) in cerca di riparo dalle rappresaglie dei guerriglieri.
Bambini. Gulu, Uganda del Nord. Agosto 2005


Il Nord Uganda, e in particolare la cosiddetta "Acholiland", è teatro di una guerra da quasi 20 anni. Puoi descriverci la condizione in cui attualmente si trova il popolo Acholi?

Il conflitto del nord Uganda è iniziato nel 1986, e in questi anni ha reso impossibile la vita normale della gente: migliaia di bambini si spostano tutte le sere dai villaggi verso gli ospedali, le città, le missioni, o qualsiasi altro posto ritenuto sicuro, per sfuggire ai sequestri notturni. La maggior parte degli Acholi, una popolazione di un milione e mezzo di persone, ha abbandonato i villaggi e vive in campi per sfollati, gli IDP (internal displaced people) camps, in condizioni disumane. Nei campi puoi trovare marito, moglie e 7 - 8 figli in una piccola capanna. Gente che vive su una terra molto fertile, dove tutti avrebbero da mangiare, e si trova invece a dipendere dal programma alimentare delle Nazioni Unite.
Questa vita di dipendenza e mancanza di prospettive favorisce comportamenti rischiosi come alcolismo, prostituzione, promiscuità. Basti pensare che l'Uganda vanta una delle più basse percentuali di casi di HIV/AIDS in Africa, ma qui nel nord il numero dei casi si alza ogni giorno di più.
Al momento attuale l'esercito del Lord Resistance Army (Esercito di Resistenza del Signore, LRA) che conduce la guerriglia, è molto indebolito: non ha più l'appoggio del governo del Sudan come una volta, non compie più molti attacchi come in passato, ma quello che sta uccidendo la gente è la vita nei campi.

Quali conseguenze sulla vita dei giovani, ad esempio sulla loro istruzione, ha la vita nei campi? Quali erano le possibilità che si aprivano ai giovani Acholi prima della guerra e quali quelle attuali?

In tutta l'Uganda la scuola elementare è gratuita. Il problema è che, dopo aver frequentato la scuola elementare in un campo per sfollati, dove comunque è difficile avere un'istruzione di qualità, è molto difficile accedere all'istruzione secondaria e universitaria. Una volta gli Acholi erano proprietari territeri e potevano coltivare a sufficienza per mantenere se stessi e mandare i figli all'università. Dal distretto di Gulu, in zona Acholi, si registrava il più alto numero di iscrizioni universitarie tra i distretti ugandesi. Adesso dopo le elementari i bambini non hanno prospettive di continuare la scuola, non ci sono i soldi. Per la gente questo è motivo di grande frustrazione.
Questa è una bomba che un giorno scoppierà, quando avremo migliaia di giovani che vivono con la frustrazione di non sapere come fare ad andare avanti. Basti pensare che metà della popolazione in nord Uganda ha meno di 15 anni. La maggioranza sono giovani: quale futuro avranno questi giovani è un grande punto interrogativo e una grande preoccupazione.

Parlaci del processo di mediazione in cui sei coinvolto come membro del comitato giustizia e pace: qual è la situazione attualmente?
Abbiamo cominciato a incontrare i ribelli direttamente dove vivono, cioè nel bosco, nel 2002 e da allora abbiamo avuto diversi incontri. Nonostante questo, non abbiamo ancora ottenuto l'apertura di vere e proprie trattative tra i ribelli e il governo ugandese. Nel mese di dicembre del 2004 c'è stato un incontro tra alcuni comandanti della guerriglia e tre ministri del governo ugandese che ha fatto sperare, ma purtroppo non ha portato a nessun accordo di cessate il fuoco, e a nessuna trattativa. Bisogna prendere atto del fatto che l'LRA è praticamente una setta, con tanto di messia, Joseph Kony, chiamato "messaggero di Dio"...è davvero difficile capire come un gruppo che si dice religioso e agisce nel nome dei dieci comandamenti possa spingersi ad azioni veramente brutali come mutilazioni, rapimenti di bambini, uccisioni di civili. È difficile convincere l'LRA a fare trattative perché non ha niente da negoziare, è un gruppo i cui comandanti hanno paura di venire allo scoperto e combattono per la loro sopravvivenza. In questo momento e dal 2004 l'ex ministro del governo ugandese Betty Bigombe ricopre il ruolo di mediatrice ufficiale tra governo e guerriglia, appoggiata da diversi paesi come Inghilterra, Olanda e Norvegia. Le Nazioni Unite sono coinvolte nella mediazione con un ruolo di osservazione, ma da parecchi mesi il contatto telefonico con i capi dell' LRA è diventato molto irregolare; i guerriglieri non fanno nessuna proposta e sembra di essere a un punto morto.

Da parte del governo ti sembra invece che ci sia una volontà di incontrare i ribelli nella mediazione?
In passato il governo ugandese poteva trarre dei benefici da questa guerra, che rappresentava un modo di indebolire la parte nord del paese, sempre politicamente contraria all'attuale presidente Museveni, e di coprire e nascondere l'aiuto militare che l'Uganda forniva ai ribelli di John Garang e al Sudan People's Liberation Army (Esercito di liberazione popolare sudanese, SPLA) in sud Sud Sudan. Adesso non c'è nessuna ragione per cui il governo dovrebbe lasciare che questa guerra prosegua. Una volta diceva che non sarebbe mai stato disponibile a parlare con i ribelli, con i terroristi, poi però ha mostrato la volontà di cambiare le sue posizioni e di iniziare queste trattative. Io penso che il problema sia più dalla parte della guerriglia.
Il grande punto interrogativo è: se è vero, come dice il governo, che rimangono solo due o trecento guerriglieri, come è possibile che questi pochi siano capaci di mantenere una situazione in cui un milione e mezzo di persone vivono in condizioni disumane? La comunità internazionale dovrebbe fare molta pressione sul governo per elaborare un piano in modo che la gente possa rientrare a casa.

Tu hai incontrato personalmente i ribelli e ti sei avvicinato al loro modo di operare, ci puoi descrivere il sistema dei rapimenti secondo l'organizzazione dell'LRA?
L'LRA non ha mai avuto appoggio dalla popolazione, è per questo che per i suoi capi, specialmente per Kony, l'unico modo di avere soldati è rapire bambini, e vendicarsi sulla popolazione uccidendo i civili. I bambini rapiti vengono poi costretti a combattere con l'LRA.
Un bambino viene rapito e subito terrorizzato, picchiato e costretto a uccidere altri bambini rapiti che cercano di scappare. I bambini vengono costretti ad attaccare i villaggi da cui provengono e a uccidere i loro stessi parenti. In questo modo vivono nel terrore e pensano: "se provo a scappare rischio prima di tutto di essere preso e ammazzato, e poi, se anche riesco a andare via, nel mio villaggio non mi accetteranno e si vendicheranno su di me perché sanno delle brutalità che ho commesso contro i miei parenti."
In questo modo il bambino viene integrato nella pericolosa setta dell'LRA e non ha più una famiglia "La tua famiglia, il tuo clan, siamo noi" -gli dicono i capi dell'LRA- " Noi siamo i veri Acholi, tutti gli altri Acholi sono dei traditori."
È molto facile manipolare un bambino di 10, 11, 12 anni. Sono stato nel bosco con i capi dei guerriglieri parecchi e volte, e ogni volta anche io ho provato questa paura: sei nelle loro mani, cominciano con lo spaventarti e farti capire che possono ucciderti quando vogliono, poi si rilassano e quando pensi di essere riuscito a raggiungere un buon livello di dialogo con loro, diventano nuovamente duri e ti minacciano. In quelle occasioni ho pensato che se anche io, che ho più di 40 anni, sono terrorizzato in questa situazione, figuriamoci un bambino!
Questo aspetto rende molto difficile anche il processo di reintegrazione sociale di ex ribelli, perché quando tornano nella società questi giovani hanno subito un lavaggio del cervello: l'unico modo per sopravvivere quando fai parte della guerriglia è uccidere. Se uccidi, se sei crudele con gli altri allora vieni premiato: diventi sergente, tenente, poi capitano, maggiore... vieni rispettato, ti danno delle ragazze e hai potere. Se cerchi di essere buono, invece, vieni punito.

È opinione diffusa che Joseph Kony sia un malato di mente, tu cosa ne pensi?
Io preferisco dire che è un uomo che vive per fare il male. C'è gente, come Madre Teresa, che vive per fare il bene, e c'è gente, purtroppo, come Kony, che sembra non avere altro scopo nella vita che fare il male, e farlo il più possibile al maggior numero di persone possibile. Di Kony potrei dire soltanto quello che Gesù ha detto di Giuda, che sarebbe stato meglio per quest'uomo se non fosse mai nato.

Pensando alle future prospettive del processo di mediazione, quali elementi pensi sia necessario considerare?
Sicuramente la decisione della corte penale internazionale (International Criminal Court ICC), che ha manifestato parecchie volte la volontà di intervenire firmando ordini di arresto per i principali capi dell'LRA, per Kony e per altri. Senz'altro se ci fosse modo di mettere in pratica quest'ordine di arresto, rappresenterebbe la fine della guerra. Il problema è che non sembra che ci siano i reali mezzi per mettere in pratica questo. Chi infatti potrebbe provvedere ad arrestare le persone incriminate? L'esercito ugandese non l'ha mai fatto in 19 anni, e l'esercito del Sudan senz'altro non lo farà. Ci sono molti punti interrogativi anche sull'SPLA ... allora subentra un altro problema: se la ICC intervenisse in questa maniera, sarebbe sicuramente la fine del processo di mediazione. Non puoi proporre a un gruppo di criminali di venire al tavolo dei negoziati, se sanno che così facendo verranno arrestati. Bisogna essere realisti: se la ICC interviene, sarà la fine di questo processo di pace. La ICC è in grado di dare una reale alternativa al processo di mediazione, è in grado di arrestare le persone incriminate? È una domanda a cui è molto difficile rispondere.

Abbiamo assistito finora a vari ritorni da parte di ex ribelli che hanno lasciato l'LRA: come è stato possibile ottenere questo risultato?
È stato grazie all'amnistia, e anche grazie al fatto che in seguito all'azione di mediazione, alcuni dei capi hanno abbandonato i ribelli. Questo ha rotto l'isolamento di quella setta che è l'LRA, e ha fatto capire a molti dei guerriglieri che abbandonare le armi poteva essere la via migliore. Negli ultimi due anni molti dei capi hanno abbandonato l'LRA, così come alcuni soldati, molti dei quali erano stati sequestrati anni prima. Hanno capito che non erano in pericolo, grazie alla legge dell'amnistia. Purtroppo il governo molte volte si trova a dover scegliere la soluzione militare. Certo, se hai un gruppo di guerriglieri che sta per attaccare un campo profughi e uccidere molte persone, l'unico modo per contrastarli è disarmarli, ma allo stesso tempo è bene tenere sempre aperta la porta dell'amnistia e del negoziato. Forse questa porta ci porterà un graduale beneficio, permettendo all'LRA di scomparire lentamente.
Quale pensi dovrebbe essere il ruolo della comunità internazionale, stiamo parlando sia dei governi, sia delle Organizzazioni Non Governative e delle associazioni, in questo conflitto, e come mai questa è una guerra dimenticata?
È una guerra dimenticata perché qui non c'è petrolio, non ci sono minerali, non ci sono interessi economici; è una guerra combattuta in una parte del mondo dove nessuno ha interessi.
La comunità internazionale è arrivata troppo tardi. E ho un'altra preoccupazione: se la guerra finisse domani, temo che la comunità internazionale se ne andrebbe troppo presto, perché proprio nel momento in cui la guerra finirà, avremo bisogno della comunità internazionale per il lavoro di ricostruzione e di riconciliazione, un lavoro lungo, che dovrà toccare moltissimi aspetti. Penso che la comunità internazionale dovrebbe continuare a fare pressione sul governo ugandese, affinché non chiuda la porta ai negoziati. Molto importante anche far pressione al governo del Sudan, così che non riprenda a rifornire di armi i ribelli. e di nuovo sul governo ugandese perché presenti un piano chiaro per favorire il rientro della gente dai campi per sfollati ai propri villaggi, cosa che al momento rappresenta la nostra più grande incognita.
Se le radici di questa guerra non affondano principalmente negli interessi economici, quali pensi ne siano allora le vere ragioni, e come la definiresti?
La definirei la guerra di quello che viene chiamato un "signore della guerra". I gruppi di guerriglieri che hanno iniziato a combattere 19 anni fa avevano qualche ragione politica, ma pian piano quelli che erano alimentati da queste motivazioni sono usciti di scena, ed è rimasto uno zoccolo duro, di radicali, che non hanno nessuna ragione per portare avanti una guerra, se non la loro paura di venire allo scoperto per tutte le atrocità che hanno commesso, e il desiderio di mantenere il proprio attuale stile di vita. Basti pensare che i principali capi della guerriglia hanno tantissime donne a loro disposizione, hanno potere, sono abituati a questo e non vogliono abbandonarlo. Altri si sentono in trappola: hanno paura di lasciare la guerriglia e non sanno cosa fare. Ma è veramente triste che un esiguo gruppo di persone possa controllare e rendere impossibile la vita per un milione e mezzo di persone.

Tu sei qui stabilmente da 17 anni per cui conosci bene la cultura e la lingua Acholi. Esistono delle procedure tradizionali per arrivare alla riconciliazione in caso di conflitto nella cultura Acholi, e se ci sono, perché in questo caso non hanno funzionato?
Questa è una situazione di grande confusione. La cultura Acholi favorisce la riconciliazione, il perdono, il dialogo in caso di problemi, e questo è un elemento estremamente positivo, che ha portato ad esempio, come conseguenza positiva, l'assenza di vendette da parte della popolazione sugli ex guerriglieri. Allo stesso tempo però, la gente è arrivata a un punto di esaurimento e disperazione grandi, perché il reinserimento degli ex ribelli è oggettivamente molto difficile, gli ex ribelli hanno difficoltà a tornare a casa loro, prima di tutto perché la casa non c'è più. Non è facile proporre a uno che ha vissuto per dieci anni con i guerriglieri di venire a vivere in un campo per sfollati, senza altra prospettiva che stare nell'ozio dalla mattina alla sera, in condizioni abitative, igieniche e sanitarie pessime: non è un'alternativa!
È vero che gli Acholi hanno dei rituali di riconciliazione, che si applicano ad esempio quando una persona di un clan ha ucciso qualcuno di un altro clan. Viene innescato allora un processo di dialogo che coinvolge tutto il clan. Il colpevole riconosce di aver sbagliato e chiede il perdono a entrambi i clan; il clan offeso concede il perdono dietro pagamento di un compenso e il colpevole viene reintegrato nella società. Il problema è che tutta la gente qui ha un papà, una mamma, un fratello, un figlio che è stato ucciso, ma chi è diretto responsabile di queste morti? Non lo sappiamo. Se chiedi la gente: "Vuoi perdonare?", ti risponderà: "Sì, ma perdonare chi? Chi ha ucciso i miei parenti? Non lo so". Forse sono stati i guerriglieri dell'LRA, o forse i soldati dell'esercito ugandese, che spesso compiono delle atrocità.
Si parla molto dei rituali tradizionali, ma io non ho ancora mai visto che uno di questi rituali venisse usato per la reintegrazione di un ex guerrigliero. Al momento il reinserimento degli ex ribelli avviene senza grossi problemi, ma se una volta finita la guerra il desiderio di vendetta dovesse scattare in due o tre diversi punti del paese, potrebbe poi dilagare ovunque, portando a una situazione veramente pericolosa.

Ci sono altre difficoltà che siamo in grado di prevedere, altri problemi che la gente si troverà ad affrontare una volta fatta la pace?
Senz'altro ci sarà un grande conflitto a causa della terra. Quando la gente sarà libera di tornare alla propria terra, che è rimasta abbandonata per 6-9 anni, non sarà facile ristabilire confini e proprietà.

Tu hai studiato da giornalista e continui a essere giornalista come impegno professionale, quale pensi sia stato e quale dovrebbe essere il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa in questo conflitto?
I media dovrebbero innanzitutto parlare di questa situazione, perché non è giusto che se vengono uccisi due bambini in Palestina questo diventa la prima notizia su tutti i giornali, e se qui ne vengono uccisi 20 o rapiti 30, questa non è notizia. Se la vita umana ha lo stesso valore in ogni parte del mondo, vuol dire che ha lo stesso valore nel nord Uganda, o in Kossovo o in Bosnia, o in Iraq. Cosa devono fare allora i mezzi di comunicazione? Prima di tutto venire qui. Per quello che ho visto finora, c'è qualche giornalista che viene qui, sta qui una settimana o pochi giorni e poi va via.
È molto duro per me pensare che non c'è neanche un giornalista internazionale che fa il suo lavoro da qui. I pochissimi presenti in Uganda, vivono a Kampala, la capitale, che si trova a più di trecento chilometri da qui. Se si verifica un massacro, come in passato, o un altro fatto grave, il giornalista da Kampala fa una telefonata a qualcuno qui in nord Uganda, ma non viene a vedere la situazione con i suoi occhi. Questo da un punto di vista professionale non è serio.

Nella tua esperienza di vita hai lavorato su due livelli: uno è quello della condivisione quotidiana di vita con la gente della tua parrocchia e uno è quello dell'impegno socio-politico, della mediazione. Come questi due livelli si integrano, come interagiscono?
In qualsiasi lavoro è molto importante avere una solida motivazione. È questo che fa la differenza tra il lavoro di un politico o di un diplomatico e quello di un religioso. Un politico o un diplomatico arriva qui, sta qui uno o due giorni e poi torna nel suo ufficio a Kampala, dove dorme sogni tranquilli. Le cose si vedono in un'altra maniera quando ogni sera ospiti nella tua casa i bambini scappati dalla loro casa per paura delle incursioni dei ribelli, e per tutta la notte li senti tossire, e soffrire a causa delle malattie. È molto importante essere esposti alla sofferenza degli altri. Qui come persone religiose sperimentiamo la sofferenza di Cristo sulla croce in questo tempo, e a questa dobbiamo tentare di dare una risposta, per fare in modo che non ci sia più questa sofferenza.
Il lavoro con le persone della mia parrocchia è molto importante per me. Sono persone che non hanno da mangiare, non hanno medicinali, vivono immerse nella paura, in una condizione di umana miseria: è questo che ci da la spinta per portare avanti un lavoro e interrogarci su cosa facciamo noi come chiesa per risolvere il problema di queste persone.
Quale pensi possa essere il contributo che l'incontro tra Vangelo e tradizione Acholi può dare a questo conflitto, stiamo pensando soprattutto al valore di nonviolenza evangelica. Come questo valore può incontrarsi con la cultura Acholi, e quali soluzioni possono nascere da questo incontro?
La cultura Acholi favorisce l'approccio nonviolento, la riconciliazione tramite il dialogo, il parlare dei conflitti e dei problemi, e pone come priorità il fatto di avere buoni rapporti con tutti. Quando c'è un problema gli Acholi si siedono e dedicano molto tempo al dialogo: questo è quello che anche il vangelo ci dice di fare: se stai andando al tempio a fare la tua offerta a Dio, lascia la tua offerta, va a riconciliarti col tuo fratello e poi torna.

Molti resoconti giornalistici occidentali, analizzando genericamente i problemi che affliggono il continente africano, suggeriscono a volte l'idea di una catastrofe inevitabile. Tu condividi questa preoccupazione?
Non c'è bisogno di pensare a quadri catastrofici futuri, le catastrofi in Africa ci sono già state. Pensiamo alla guerra in Sudan, che è durata più di 30 anni e ha contato più di 2 milioni di morti, questa non è una situazione catastrofica? Pensiamo anche al Congo: una guerra che è durata appena 10 anni e ha totalizzato 3 milioni di morti. Senz'altro c'è stata più attenzione ad esempio ai problemi del Kossovo o della Bosnia, rispetto a quelli del Congo o del Sudan: perché? Perché a noi europei dà fastidio avere una guerra vicino a casa, ma una guerra che succede nel centro dell'Africa non è ci disturba tanto.
Purtroppo il continente africano è stato devastato dalle guerre: Angola, Mozambico, Liberia, Sierra Leone, nord Uganda, Etiopia, Eritrea, Somalia. Eppure è importante per la gente vedere come paesi che una volta erano in guerra, oggi vivono in pace. Quando mi chiedono se ci sarà la pace in nord Uganda, rispondo "Sì, senz'altro". Forse potrà tardare, ma non è detto che non ci sarà più, Credo che anche abbiamo tutti questi problemi, siamo sulla strada giusta per arrivare alla pace e un giorno ci sarà anche una riabilitazione. Non vedo una catastrofe imminente.

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