Conflitti

Le cattedrali italiane nel deserto del Darfur

L'ospedale «Avamposto 55», annunciato in gran pompa al festival di Sanremo, che funziona part-time e solo come ambulatorio. L'acquedotto di Kass che non eroga acqua. Questi e altri sono i capolavori della cooperazione italiana in Darfur, sotto la direzione di Barbara Contini. Per fare chiarezza, la Farnesina invia una missione di tecnici
1 novembre 2006
Stefano Liberti - Irene Panozzo
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Un ospedale che funziona a singhiozzo, un acquedotto senz'acqua, un parco giochi circondato da filo spinato. Questa è in sintesi l'eredità che Barbara Contini ha lasciato in Darfur, la regione occidentale del Sudan, prima come coordinatrice degli interventi umanitari della cooperazione italiana, poi come responsabile dell'International management group (Img), un organismo internazionale finanziato anche dalla Farnesina. Quasi due anni di lavoro durante i quali la raissa, sbarcata tra le sabbie sudanesi dal precedente incarico di governatore della provincia irachena di Dhi Qar, ha gestito fondi, personale e progetti in modo del tutto personalistico, bypassando le normali (e stabilite per legge) procedure della Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del Ministero degli esteri italiano.
Oggi, cambiati il governo e i vertici della cooperazione, si cerca di mettere un po' d'ordine in una situazione che appare ancora assai intricata e densa di ombre. Una missione esplorativa di tecnici è stata inviata dalla Dgcs in Sudan, a fotografare la situazione e cercare di mettere mano alle carte che mancano per capire come e dove alcuni fondi sono stati spesi. In questo caso, si tratta di una novità assoluta: la missione è diventata possibile solo negli ultimi tempi, visto che fino a qualche mese fa ogni tentativo di verifica veniva sistematicamente bloccato dall'alto. Il rapporto finale non è ancora concluso, ma indiscrezioni raccontano di scarsi risultati a lungo termine, soprattutto se paragonati ai soldi erogati (10 milioni di euro su due anni), di una gestione dei progetti mirata più alla visibilità di Contini che alla sostenibilità. E di una interpretazione quanto mai allegra del proprio ruolo di responsabile della cooperazione.

Una decisione presa in sette minuti
Siamo nell'autunno del 2004. La leggenda, tramandata dalla diretta interessata, narra che il suo incarico viene inventato in sette minuti da Gianni Letta, Umberto Vattani e Giuseppe Deodato, all'epoca rispettivamente sottosegretario alla Presidenza del consiglio, segretario generale del Ministero degli esteri e direttore generale della cooperazione allo sviluppo. I tre, con il placet di Silvio Berlusconi, avrebbero deciso di inviare l'ex governatrice di Nassiriya nella regione sudanese «perché non volevano perdermi», secondo quanto ha più volte raccontato l'inossidabile Contini. Ma già sul mandato la chiarezza è poca. Inviato straordinario del governo, come lei stessa ama definirsi? Semplice esperto esterno di cooperazione, come risulta dalla sua scheda alla Farnesina? Fatto sta che Contini si accredita sul campo come mediatrice; incontra e stringe rapporti con i ribelli del Sudan's liberation movement/army (Slm/a). Va addirittura ad Abuja, in Nigeria, sede dei negoziati tra guerriglieri e governo mediati dall'Unione Africana, salvo essere richiamata frettolosamente da una Farnesina sempre più irritata e imbarazzata dalle sue «private iniziative». Nel frattempo, nel febbraio 2005, la «lady di ferro» sbarca a Sanremo e lancia la campagna per raccogliere fondi per un ospedale da costruirsi alla periferia di Nyala. Si chiamerà - annuncia Paolo Bonolis dal palco dell'Ariston - Avamposto 55, in onore del 55esimo Festival della musica italiana.
Oggi Avamposto 55 spicca maestoso tra le sabbie. Ma è chiuso. O meglio, funziona a sprazzi. Nei cinque giorni in cui sono rimasti a Nyala, i tecnici della missione non sono riusciti a vederlo aperto, nonostante i ripetuti tentativi. È la fine del ramadan: tutto scorre più lentamente e anche l'ospedale si adegua ai ritmi imposti dalla festa. Ma anche in tempi normali pare che la struttura sia in attività a regime ridotto solo per le poche ore della mattina. «Quando sono arrivata mi era stato detto che avremmo dovuto aprire un ospedale generale», racconta la dottoressa Pina Garau, esperto della cooperazione italiana in Darfur dal febbraio al 29 aprile 2006, quando è stata costretta da Contini ad andarsene, finendo il suo mandato a Kassala, nell'est del paese. «In realtà, per il budget di cui io era conoscenza - continua Garau - si poteva predisporre un day hospital materno infantile e un centro nutrizionale, apportando le opportune modifiche alla struttura». Ma non è stato fatto neanche questo. E, alla fine, la struttura è diventata operativa solo come ambulatorio.

La colletta al festival di Sanremo
Dopo un inizio positivo, i rapporti tra Contini e Garau si rovinano velocemente. «Uno dei motivi di scontro - racconta la dottoressa - è stato l'accordo tecnico che dovevamo concordare con il ministero della sanità sudanese per poter aprire l'ospedale. Contini ha continuato a rimandare la cosa». Motivo: una difficoltà nello scegliere sotto quale etichetta far rientrare il progetto. Una domanda rimane in effetti ancora senza risposta. Per chi lavora Barbara Contini in questo momento? La sua missione con la cooperazione allo sviluppo è finita formalmente il 31 dicembre 2005, nonostante lei continui ad accreditarsi come inviato speciale del governo. Dal sito dell'Img, risulta invece responsabile per il Sudan dell'organizzazione, che però non è registrata nel paese africano e non compare da nessuna parte. La confusione è grande. Anche perché in realtà Img un ruolo ce l'ha ed è legato a un'altra situazione poco chiara, quella che riguarda i finanziamenti con cui Avamposto 55 è stato costruito.
Anche in questo caso, come già per la questione del mandato, le versioni sono discordanti. Quanto Contini ripete a ogni occasione fa a pugni con quanto emerge dalle carte e dai corridoi della Dgcs. La raissa ribadisce ormai da quasi un anno di aver costruito Avamposto 55 solo con fondi privati, per metà raccolti a Sanremo, attraverso l'autotassazione di Bonolis, degli artisti e della Rai, e per l'altra metà giunti «da altre persone che mi sono state vicine». Ma le cose stanno diversamente. Accanto ai 250mila euro del Festival, i soldi utilizzati per costruire l'ospedale sono stati messi a disposizione dall'Img che li aveva ricevuti, sotto forma di contributi volontari, dalla stessa cooperazione italiana.
La questione si è complicata ulteriormente negli ultimi mesi. Perché in vista della fine del suo contratto con Img, Contini ha pensato bene di creare una fondazione italo-sudanese senza scopi di lucro a cui affidare la gestione dell'ospedale. Il tutto senza interpellare il ministero degli esteri o la cooperazione italiani, le cui insegne capeggiavano su Avamposto 55 fino a non molto tempo fa. Ora sono sparite, sostituite in tutta fretta da targhe che portano il nome della fondazione, di cui fanno parte, oltre ad alcuni cittadini italiani, anche il governatore e il ministro della sanità del Sud Darfur e lo sheikh della principale confraternita islamica della regione, a cui appartiene il terreno su cui Avamposto 55 è stato costruito. Personalità pubbliche, dunque, che però intervengono nell'impresa a titolo meramente privato. Con il rischio, secondo fonti interne alla Farnesina, che tra un anno o due i notabili sudanesi coinvolti nell'operazione decidano di trasformare un ospedale costruito anche con fondi pubblici italiani in una clinica privata.
Tra gestione poco chiara dei fondi, commistione tra pubblico e privato e assenza degli standard minimi di un ambiente sanitario è ormai chiaro come Avamposto 55 sia nato sotto i peggiori auspici. Ma la cosa non riguarda solo questo progetto, sicuramente il più controverso. Anche negli altri, quelli in cui la gestione da parte della cooperazione italiana è stata diretta, le zone d'ombra e le inefficienze rimangono. Un esempio è l'acquedotto di Kass, altra opera che sulla carta potrebbe contribuire a migliorare gli standard di vita della popolazione ma che non è mai stato messo in funzione. Anzi no, per la verità un giorno ha funzionato. Era metà dicembre 2005 e l'allora direttore generale della Dgcs Giuseppe Deodato era in visita in Darfur, per l'inaugurazione di tutti i progetti targati cooperazione italiana. Quel giorno l'acqua è arrivata, grazie a un raccordo con l'acquedotto preesistente creato per l'occasione e poi prontamente eliminato. Dopo quell'effimero exploit l'acquedotto di Kass, anche se formalmente concluso e operante, è asciutto come e più del deserto circostante. E i venticinque punti di distribuzione, mai utilizzati, iniziano già a mostrare i segni del tempo. C'è poi il «playground» di Garba Intifada, poco fuori Nyala. Uno scivolo e due altalene colorate troneggiano tristi dietro un muro di filo spinato. I bimbi del luogo, distratti probabilmente da altre priorità, non sembrano aver mai avuto accesso a questo parco giochi. Forse anche perché la vicina scuola, sempre costruita dalla cooperazione targata Contini, fino a qualche mese fa non era ancora in funzione.

I tank rubati all'Unicef
Ma la smania di mostrare i risultati del proprio operato ha raggiunto l'apice con un'altra opera idrica. Cinque tank per la raccolta dell'acqua, che da dicembre scorso portano sul fianco, in bella mostra, il logo della cooperazione italiana. Ma che in realtà sono stati donati anni fa dalla cooperazione giordana e poi recentemente riabilitati dall'Unicef. La mossa, fatta sempre in vista dell'arrivo di Deodato, non ha certo contribuito a riabilitare il nome dell'Italia in Darfur, già messo in ombra della gestione personalista di Contini e dalle ricorrenti voci che circolano negli ambienti internazionali di Nyala e che parlano di presunte strette collaborazioni con lo Slm/a - tanto che uno dei leader ribelli sarebbe stato visto aggirarsi per le strade della città su una macchina della cooperazione italiana - e di non meglio specificate «attività misteriose».
Contini continua instancabile a raccogliere fondi per il «suo» ospedale: solo l'altro ieri, al teatro Argentina di Roma, ha partecipato a una serata di beneficenza organizzata dall'ong «Donne e non solo» in favore di Avamposto 55. Tra abiti da sera e immagini strazianti di bambini sudanesi, la «lady di ferro» ha magnificato le sorti del suo operato, dichiarando tra l'altro di «non essere abituata a lasciare le cose a metà». Ma lo sapranno le donne di «Donne e non solo» che l'ospedale pediatrico che si sono impegnate a sostenere «per aiutare i bambini a nascere e a crescere» non è altro che una cattedrale nel deserto?

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