"La mafia uccide solo d'estate": una generazione sotto accusa
La iena più timida dello schermo è riuscita a tratteggiare i contorni di circa un trentennio di vita politica e sociale palermitana. Il suo è un film che vale la pena vedere e rivedere per riuscire a comprenderne appieno le citazioni e i riferimenti.
La prima trattativa Stato-mafia: il silenzio dei giusti
Il film è una tragicommedia che mostra una società all’interno della quale la Mafia è ormai permeata come fosse una melassa. Omicidio dopo omicidio, la mafia arriva a scuotere e a segnare anche la tranquilla esistenza di una classe media che in quegli anni prendeva una boccata d’ossigeno e si godeva il boom economico. Bomba dopo bomba la mafia sconvolge le vite delle persone che sino a quel momento sottostavano ad un tacito patto di silenzio-assenso con i poteri forti che governavano politica ed economia. Pif ci aiuta a comprendere che la prima vera trattativa stato-mafia è stata proprio quel silenzio assenso tra mafiosi e non mafiosi, tra cittadini "perbene" e criminali.
Le tante responsabilità dello Stato
In questo quadro generale lo Stato italiano e la politica di quegli anni si scoprono così doppiamente responsabili. Infatti le istituzioni non solo hanno ceduto, in nome del voto di scambio, il proprio potere alle organizzazioni criminali, ma non sono state neanche in grado di proteggere i propri uomini migliori. Uomini che in quegli anni, come agnelli sacrificali, sono stati immolati sull’altare della trattativa. L’intera città di Palermo diventa quindi un cimitero a cielo aperto, senza pioppi ma con tante, troppe, targhe alla memoria. Il gioco al massacro sfibra i cittadini, li esaspera e li porta, finalmente, a chiedere giustizia durante i funerali del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, e della scorta. Con la morte di Falcone si è ad un punto di non ritorno, il pool antimafia, anche se decimato è riuscito a stillare una goccia di spirito critico non solo nella società palermitana, ma nell'intera società italiana. Non si tratta di un punto di arrivo, ma di un piccolo punto di pertenza.
Diliberto tratteggia Totò Riina e i suoi come personaggi più che persone. Nel film sono uomini gretti, zotici, sempliciotti, limitati e quindi comici. I soldi e il potere non sono di certo riusciti a sanare la loro limitatezza intellettuale. Alla semplicità e alla “banalità del male” Pif affianca anche una “banalità del bene”. I magistrati, il Generale dalla Chiesa, sono tutti uomini semplici, ma non sempliciotti, anch’essi sono persone della porta accanto che, con dignità e rigore, vanno incontro al loro destino di morte. Con simpatia e leggerezza Diliberto non se la prende con i "cattivi" e non santifica "i buoni", ma mette sotto accusa l’educazione che un'intera generazione ha offerto. I padri e le madri degli anni '70 e '60 hanno sempre cercato di proteggere i propri figli dalla mafia, senza però educare i bambini a riconoscere il fenomeno mafioso e quindi a poter scegliere da che parte stare.
“La mafia Uccide solo d’estate” parla della vita di Arturo, un bambino concepito il 10 dicembre 1969, nello stesso momento (e luogo) in cui si compie, la “strage di via Lazio”. Così per tutta la vita le date salienti che segneranno la crescita di Arturo coincideranno con “incoronazioni”, stragi e “ammazzamenti” mafiosi. Arturo, sui banchi di scuola, si innamora della sua compagna Flora, ma è incapace di rivelare i suoi sentimenti e chiede aiuto al padre. Sarà però Giulio Andreotti ad indicare (involontariamente) ad Arturo la strada per dichiararsi alla sua bella. Da quel momento in poi Andreotti diventerà il mentore di un bambino che comincia ad adorare il politico italiano. Arturo ormai grande (Pierfrancesco Diliberto) rivede la sua Flora (Cristiana Capotondi). I due, ormai più che ventenni, si ritrovano prima l’uno contro l’altra e poi l’uno accanto all’altra nella lettura dei collegamenti che legano la politica alla mafia. Il finale, senza alcun dubbio è la parte più emozionante del film. Nella sua semplicità e nella sua naturalezza. Forse anche grazie alla classica auto-ripresa di Diliberto, che smonta un po’ il linguaggio cinematografico per riportarlo nell’ amatoriale e quindi ad una ripresa apparentemente più "reale".
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