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La Vittoria di Bush, Fallujah ed il Movimento Globale Contro la Guerra

12 dicembre 2004
Walden Bello (Direttore Esecutivo del “Focus on the Global South”, basato a Bangkok, e Professore della Sociologia e l’Amministrazione Pubblica presso l’Università delle Filippine)

Mentre continuano ad esserci delle accuse attendibili di brogli, soprattutto nel conteggio dei voti nello stato di Ohio, la maggior parte degli Stati Uniti, compreso il Partito Democratico, ha riconosciuto il fatto che George W. Bush è stato ri-eletto presidente con un margine di vittoria di 3,5 milioni su John Kerry

Blocco Egemonico?

La terribile verità, comunque, è che la vittoria Repubblicana, anche se non sbilanciata, è stata solida. Un’ulteriore fase delle rivoluzione politica iniziata da Ronald Reagan nel 1980, le elezioni del 2004 hanno confermato che il centro di gravità della politica statunitense sta, non nel centro-destra, ma nell’estrema destra. Certo è vero che il paese è diviso in modo uniforme, ed anche in modo profondo. Però è la Destra Repubblicana che è riuscita ad offrire una visione irresistibile per la sua base ed a modellare e mettere in opera una strategia che ha lo scopo di guadagnarsi il potere a tutti i livelli dell’arena elettorale, nella società civile e nei media. Mentre i liberali ed i progressisti si sono impappinati, la Destra Radicale ha unito con una visione assolutamente semplice le varie componenti della sua base: il Sud e Sudovest, la maggioranza dei maschi bianchi, i ceti alti e medi che hanno tratto vantaggio dalla rivoluzione economica neoliberale, l’America aziendale e gli integralisti cristiani. Questa visione è essenzialmente subliminale, di un paese indebolito dall’interno da un’alleanza di liberali a favore di un governo forte, di gay e lesbiche promiscui e di immigranti clandestini, ed assediato dall’esterno dalle orde piene di odio, provenenti dal Terzo Mondo e dagli europei fiacchi, invidiosi della prosperità e del potere americano.

Ci sono, in effetti, due Americhe, ma una è confusa e disorganizzata, invece l’altra fa trasudare una sicurezza ed arroganza che soltanto strategia ed organizzazione possono conferire. La Destra radicale è riuscita, con la sua visione del ritorno ad una comunità immaginaria — una piccola città americana, linda, bianca e cristiana, degli anni cinquanta circa, a costruire ciò che il pensatore italiano Antonio Gramsci chiamò un "blocco egemonico". E questo blocco è pronto a continuare il suo dominio per i prossimi 25 anni.

Sembra che il futuro della democrazia, dei diritti economici, dei diritti dell’individuo e dei diritti delle minoranze sia desolato negli Stati Uniti, ma forse è soltanto attraverso un secondo elettrochoc — il primo fu la vittoria di Reagan nel 1980 — che l’America progressista potrà affrontare finalmente ciò che è necessario per "cambiare il vento": una battaglia su tutti i fronti per guadagnarsi l’egemonia ideologica e organizzativa, una battaglia nella quale non deve aspettarsi ne concedere nessuna pietà, e nella quale non può più permettersi di fare errori.

La crisi dell’Impero

Ma mentre l’America marcia verso destra, stenta a trascinare il resto del mondo con sé. Anzi la maggior parte del resto del mondo è diretta nel senso opposto. Niente dimostra questo più chiaramente del fatto che proprio nella settimana in cui Bush è stato ri-eletto, una coalizione di partiti della sinistra è giunta al potere nell’Uruguay; Hugo Chavez, la nuova nemesi di Washington nell’America Latina, ha vinto in modo strepitoso le elezioni statali in Venezuela e l’Ungheria ha annunciato che aveva intenzione di ritirare le sue 300 truppe dall’Iraq.

Sebbene la Destra Americana stia consolidando il suo potere a livello interno, non è in grado di fermare il disfacimento dell’egemonia di Washington a livello globale.

La principale causa di ciò che abbiamo chiamato la crisi di sovrapproduzione, oppure la mancanza di corrispondenza fra obiettivi e risorse dovuta all’ambizione imperialista, è lo sbaglio grossissimo dell’invasione dell’Iraq. È probabile che la crisi continuerà, se non addirittura accelererà, durante il secondo mandato di Bush.

Le manifestazioni del dilemma imperialista si possono vedere in modo molto chiaro

  • Nonostante le recenti elezioni nell’Afghanistan sponsorizzate dagli americani, il governo Karzai ha il controllo effettivo soltanto di certe parti di Kabul, e di due o tre altre città. Come ha detto il Segretario dell’ONU Kofi Annan, malgrado le elezioni, "senza le istituzioni di stato funzionali in grado di soddisfare i bisogni fondamentali del popolo in tutto il paese, l’autorità e la legittimità del nuovo governo sarà di breve durata". E finché la situazione rimarrà così, l’Afghanistan impiegherà 13.500 truppe americane all’interno del paese e 35.000 personale di sostegno fuori.
  • La guerra statunitense sul terrore ha fallito completamente, con Al Qaeda ed i suoi alleati più forti oggi che nel 2001. A questo proposito, il filmato video pre-elezione di Osama bin Laden valeva mille parole. L’invasione dell’Iraq, secondo Richard Clarke, l’ex-capo anti-terrorismo di Bush, ha deragliato la guerra al terrorismo e è servito come il migliore strumento di reclutamento per Al Qaeda. Ma anche senza Iraq, i metodi maldestri di polizia e militari di Washington per affrontare il terrorismo alienavano già milioni di Mussulmani. Questo è molto evidente nella Tailandia Meridionale, dove i consigli americani sull’anti-terrorismo hanno aiutato a trasformare uno scontento sommerso in un’insurrezione vera e propria.
  • Con il pieno sostegno della strategia "senza vincitori" di Ariel Sharon di sabotare l’emergere di uno stato palestinese, Washington ha perso tutto il capitale politico che aveva guadagnato fra gli arabi quando mediò l’ormai defunto Accordo di Oslo. Inoltre, la strategia di appoggio a Sharon, più l’occupazione dell’Iraq, hanno lasciato gli alleati di Washington fra gli èlite arabi esposti, screditati e vulnerabili. Con la morte di Yasser Arafat, Tel Aviv e Washington potrebbero nutrire speranze di un accordo sulla questione palestinese secondo loro condizioni. Questa è un’illusione.
  • L’Alleanza Atlantica è morta, e nel futuro imminente, i conflitti commerciali si aggregheranno con le differenze politiche per spingere l’USA e l’Europa ancore più lontani. L’Europa è la chiave per la sostenibilità dell’impero americano. Come ha scritto l’autore neo-conservatore Robert Kagan: "Gli Americani avranno bisogno della legittimazione che l’Europa può offrire, ma gli europei potrebbero anche non concederla." Ma il divario Atlantico, sempre in crescita, non deriva soltanto dagli approcci diversi verso l’assicurazione della stabilità globale; gli europei hanno sempre più paura che un USA aggressivamente militaristica sia la minaccia strategica maggiore alla loro sicurezza regionale.
  • Lo spostamento a sinistra dell’America Latina si accelera. La vittoria della coalizione di sinistra nell’Uruguay è semplicemente l’ultima di una serie di vittorie elettorali per le forze di progresso, in seguito a quelle in Venezuela, Ecuador, Argentina e Brasile. Insieme agli spostamenti a sinistra, potrebbero essere anche imminenti insurrezioni di massa come quella avvenuta nella Bolivia nell’ottobre 2003. A proposito della svolta la sinistra e via dell’impero,(?) uno degli amici degli americani, l’ex-ministro degli esteri messicano Jorge Castaneda, valuta bene la situazione: "Gli amici degli americani… sentono il fuoco di quest’ira anti-americana. Si trovano a dover cambiare la propria retorica e atteggiamento per scoraggiare la loro difesa delle politiche viste come pro-americane o ispirate dagli americani, e per rafforzare la loro resistenza alle esigenze ed ai desideri di Washington".

Fallujah: Crogiuolo della resistenza Globale

L’Iraq, naturalmente, è la fonte principale del discioglimento dell’impero. La resistenza del popolo iracheno non ha soltanto frustrato l’occupazione coloniale americana del loro paese. Ugualmente importante, ha mostrato una nuove generazione di anti-imperialisti in tutto il mondo, per i quali la guerra del Vietnam è storia antica, che è possibile combattere l’impero fino ad uno stallo e alla fine fino alla vittoria.

È improbabile, comunque, che l’amministrazione di Bush riconoscerà i segni nel futuro prossimo. Aveva ordinato l’attacco sulla città di Fallujah nell’illusione disperata che questo avrebbe distrutto il centro operativo dell’insurrezione.

Fallujah, comunque, non era un centro operativo ma un centro simbolico che aveva già giocato il suo ruolo, e la sua "caduta" non fermerà la diffusione e l’aumento di un movimento di resistenza decentralizzata per tutto l’Iraq. Inoltre, come alcuni avevano previsto, la maggior parte degli insorgenti di Fallujah si sono ritirati, scambiando, come a Samara, una difesa tradizionale della città per una presenza guerrigliera che tormenta e inchioda l’esercito americano e i suoi mercenari iracheni.

Man mano che passavano i giorni è emersa la realtà che il ritiro a Fallujah faceva parte di una brillante controffensiva strategica da parte dei guerriglieri nella quale la resistenza ha organizzato insurrezioni a Mosul, Ramadi e nelle altre città. E anche nel ritiro da Fallujah i guerriglieri non hanno reso facile la ripresa della città da parte delle forze americane, con una piccola retroguardia di qualche centinaia di guerriglieri che ha costretto gli americani a partecipare a molte battaglie nelle strade per conquistare ogni centimetro di terreno urbano. Addirittura, tre settimane dopo che l’attacco fosse lanciato l’8 novembre, i marine americani — l’equivalente attuale delle unità militari della SS nella Seconda Guerra Mondiale — sono uccisi ancora, e 50 per cento delle case della città devono essere ancora "pulite". È una ripetizione del Tet, nel 1968.

L’obiettivo dichiarato dell’attacco era di spianare la strada per le elezioni imminenti, ma i guadagni politici che gli americani avevano sperato di realizzare sono stati dissipati dalla distruzione e dall’uccisione indiscriminata dei civili provocate dal potere di fuoco e dalle immagini televisive raccapriccianti di un marine che ammazza un prigioniero iracheno disarmato e ferito. Come ha commentato il Financial Times, le speranza per una soluzione elettorale alla tragedia irachena "può essere sepolta nelle macerie di Fallujah".

Con 55 città già classificate come zone off limits per le truppe statunitensi, l’amministrazione Bush si renderà presto conto che la ripresa e l’occupazione dei centri urbani in massa semplicemente non funziona. Ci sono 130.000 truppe americane circa nell’Iraq oggi. Solo combattere i guerriglieri fino ad arrivare ad una situazione di stallo richiederebbe almeno 500.000 truppe per affrontare il livello di resistenza che si incontra nell’Iraq oggi. Questo non sarà possibile a meno che Bush non reintroduca la leva obbligatoria, e questo sicuramente provocherebbe un disordine civile che minaccerebbe l’egemonia repubblicana attuale.

L’alternativa di Washington sarà di ritirarsi e trincerarsi dietro basi super-fortificate e precipitarsi fuori periodicamente per sfoggiare la bandiera. Mentre questo significherebbe una sconfitta de facto per l’USA, significherebbe anche che la resistenza del popolo iracheno non avrà il controllo territoriale de iure dal quale possa dichiarare la sovranità e cominciare il processo della realizzazione di un governo veramente nazionale.

Le Sfide al Movimento

Sostenere la lotta del popolo iracheno a creare uno spazio sovrano nel quale creare un governo nazionale di loro scelta continua ad essere una delle due priorità essenziali del movimento globale contro la guerra.

L’altra è di porre fine all’occupazione israeliana della Palestina e al fatto che i diritti del popolo palestinese siano calpestati.

In un momento segnato dalla congiunzione di una Destra risorgente nell’USA ed una crisi continua d’impero al livello globale, che cosa ci vorrà per raggiungere questo obiettivo?

Prima di tutto, il movimento deve avanzare oltre la spontaneità e arrivare ad un nuovo livello di coordinamento oltre i confini, che va oltre la sincronizzazione di giorni annuali di protesta contro la guerra.

La massa critica che influenzerà l’esito della guerra non sarà ottenuta senza un’ondata di proteste globali simili a quelli che hanno accompagnato le mobilitazioni conto la guerra del Vietnam dal 1968 al 1972 — proteste che impegnano milioni di persone in uno stato costante di attivismo. La coordinazione, inoltre, significa non soltanto manifestazioni di massa, ma anche la disobbedienza civile, il lobbying quotidiano degli ufficiali e l’istruzione politica. Un coordinamento più efficace e soprattutto la professionalizzazione del lavoro contro la guerra non devono essere raggiunte, però, al costo dei processi di partecipazione che sono il "trademark" del nostro movimento.

Secondo, in termini di tattiche, bisogna impegnarsi in nuove forme di protesta. Le sanzioni ed i boicottaggi sono metodi che devono essere adottati. Al World Social Forum di Bombay all’inizio di quest’anno, Arundhati Roy ha proposto di iniziare con una o due delle ditte americane che traggono beneficio diretto dalla guerra, quali Halliburton e Bechtel, e di mobilitare con lo scopo di chiudere le loro operazioni in tutto il mondo. È giunto il momento di prendere la sua proposta sul serio, non solo riguardo alle aziende americane ma anche con le aziende ed i prodotti israeliani.

D’altronde, il livello di militanza deve essere alzato, con l’incoraggiamento di sempre più disobbedienza civile e di interruzioni non-violente contro il commercio. Dobbiamo dire a Washington ed ai suoi alleati che non ci possono essere affari finché la guerra continua.

Il tipo di dibattito che avviene nella Gran Bretagna, se proporre le manifestazioni pacifiche oppure la disobbedienza civile, è inutile, siccome tutte e due sono essenziali e devono essere unite in modi innovativi e efficaci.

Negli Stati Uniti, gli attivisti possono far ricorso alla tradizione estremamente potente della disobbedienza civile nei confronti della legge ingiusta che ha motivato persone come gli abolizionisti, Henry David Thoreau, i Quaccheri ed i Fratelli Berrigan. Infatti, questo tipo di resistenza potrebbe essere la chiave per fermare non soltanto la spinta imperialista, ma anche la furia di limitare le libertà politiche e la democrazia. Mai come oggi è necessario opporsi al mandato imperialista invocando una legge superiore.

Terzo, è chiaro che la Gran Bretagna e l’Italia — specialmente la Gran Bretagna — sono i sostenitori principali della politica di guerra di Bush fuori degli Stati Uniti. Bush fa riferimento costante a questi governi per legittimare l’avventura americana. Ciò che succede in Italia incide a turno su ciò che succede nella Gran Bretagna. Entrambi i paesi hanno maggioranze contro la guerra solide che adesso devono essere convertite in una forza potente per distruggere gli affari in questi paesi gestiti dai governi complici nella guerra americana. Entrambi i paesi hanno la tradizione santificata dello sciopero generale che, insieme alla disobbedienza civile massiccia, possono aumentare i costi ai loro governi per il sostegno a Washington.

Quando gli è stato chiesto perché le manifestazioni del 20 marzo 2004 attiravano molto meno persone rispetto a quelle del febbraio, 2003, molti attivisti nella Gran Bretagna e nell’Italia rispondono: perché la gente sentiva che le loro azioni non erano state in grado di impedire che gli USA entrassero in guerra.

Questo tipo di disfattismo e demoralizzazione può essere sconfitto non esigendo meno dalla gente, ma di più, chiedendogli di rischiare e impegnarsi in atti di resistenza civile non-violenta.

Quarto, siccome il Medio Oriente sarà il campo di battaglia strategico per i prossimi decenni, sarà essenziale rafforzare i legami tra il movimento della pace globale ed il mondo arabo. I governi del Medio Oriente sono notoriamente indolenti quando si tratta degli Stati Uniti, quindi come nell’Europa è nella creazione di legami di solidarietà fra i movimenti civili che deve esserci la spinta principale di questo sforzo. Questo sarà, infatti, un passo coraggioso e polemico, perché alcuni dei movimenti anti-USA più forti sono stati etichettati "terroristi" o "filo-terroristi" dagli americani a da altri governi europei. L’importante è di non permettere che le definizioni imposte dagli americani blocchino la strada per le persone che stendono la mano per cercare una base dalla quale lavorare insieme.

Ugualmente, è essenziale che il movimento palestinese ed i movimenti israeliani anti-sionisti e della pace vadano oltre le etichette imposte dai governi e trovino modi di cooperare per porre fine all’occupazione israeliana. Il processo trova un modo di portare insieme le persone provenienti dalle posizioni politiche apparentemente non-conciliabili. A questo proposito, l’Assemblea Anti-Guerra di Beirut che si è tenuta a metà settembre 2004, con forte partecipazione del movimento globale della pace e dei movimenti sociali da tutto il mondo arabo, ha segnato un passo significativo in questo senso.

Ma mentre il movimento globale della pace si concentra sull’Iraq e Palestina, i movimenti nazionali e regionali devono continuare ad intensificare le lotte esistenti per aprire nuovi fronti contro l’egemonia statunitense nelle loro aree.

Infatti, c’e un rapporto dialettico fra le lotte globali e locali contro l’imperialismo. Indebolire la struttura americana di base nell’Asia Orientale, ad esempio, inciderà sulle operazioni militari americane nell’Iraq e nell’Afghanistan. Ugualmente, la creazione di difficoltà per gli americani potrebbe contribuire ad un senso di isolazionismo negli USA che potrebbe trasformarsi in pressioni per il ritiro dalle basi e dalle strutture nell’Asia Orientale.

Mentre inizia il secondo mandato, l’ordine del giorno di Bush rimane uguale: la dominazione globale. La nostra risposta è uguale: la resistenza globale. C’è una sola cosa che può frustrare gli scopi malvagi dell’impero nell’Iraq, nella Palestina e altrove: la solidarietà militante fra i popoli del mondo. Rendere questa solidarietà reale e potente e infine trionfante è la sfida davanti a noi.

Note: Contributo di Walden Bello al Convegno "Mediterenum para bellum" promosso dal Comitato per il ritiro immediato delle truppe italiane dall’Iraq Pisa, 11-12 dicembre 2004,

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