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14 aprile 2003

la prigione rosa

Autore: Carmela Angiuli

LA PRIGIONE ROSA

Vennero in due a dirmi che dovevo tornare, tornare nella mia prigione, la prigione nella quale ero nata e cresciuta, in cui qualcuno mi aveva allevata con "tanto tanto amore".
Mi dissero che ormai lì era tutto cambiato, che le celle non esistevano più, che tutto era più accogliente e che i carcerieri, persino loro, erano divenuti più umani, più comprensivi. Non ci credevo molto, ma non avevo molta scelta.
Tornare ... ! L'idea mi riempiva di un non so che di piacevole.
Laggiù era tutto così grande, così tranquillo. Nonostante tutto, l'ambiente era vivibile, esistevano degli angolini in cui potersene stare da soli con sé, e cercarsi, e ritrovarsi a volte, più facilmente che altrove.
Il ritorno fu piacevole e la prima settimana trascorse in un'atmosfera di armonia e di serenità incredibili. Ma la sorpresa più grande fu quella di trovare che nella grande prigione i muri erano scomparsi e le porte non esistevano più. C'era solo un immenso stanzone diviso da piante e divani, un ambiente che a prima vista poteva apparire dispersivo, ma che non lo era perché bastava fare un po' di attenzione per scorgere, in un angolo, il luogo ideale per sedersi ad ascoltarsi, a parlare, a guardare nel vuoto.
Tutto sembrava cambiato, persino il colore dei muri, quel colore grigio, scuro, opaco, che conciliava la noia, ormai non c'era più. Tutto era stato colorato di rosa, un rosa intenso, che se non riusciva certo a trasmettere la gioia, per lo meno non la soffocava.
C'era però un non so che di strano in tutto questo: un'aria gelida, nononstante il sole colpisse direttamente anche gli angoli più nascosti dell'immenso salone rosa. E quel gelo sembrava penetrare nelle ossa, immobilizzarle, sembrava concretizzarsi a volte in grandi blocchi di ghiaccio, assumendo le forme più strane.
Ma tutto ciò non contava, non contava affatto. L'importante era sentirsi liberi, poter correre da un lato all'altro della stanza, e cantare, e gridare a squarciagola, se questo poteva significare LIBERTA'.
Ma perché per raggiungere l'uscita bisognava seguire un percorso stabilito? perché non poter saltare le siepi, o passare attraverso le piante? Perché esisteva una sola strada per raggiungere il sofà?
Dei corridoi simbolici erano segnati sul pavimento. Bisognava seguirli: era l'unica legge rimasta in vigore nella prigione, per il resto regnava la LIBERTA'.
Che bella la libertà, pensavo, non ci avrei mai sperato, e forse ora cominciavo a respirarla, ad intravvederla, persino a crederci.
Ed intanto camminavo tenendo in mano un libro cominciato tante volte e mai finito, per mancanza di tempo. Era molto, molto bello, forse ancora più bello ora che lo leggevo in un'atmosfera di pace e di serenità, quali quelle che regnavano in quella gelida selva colorata di rosa.
Ed intanto la mente cominciava a seguire i sentieri di quel racconto, così affascinante, e abbandonava a poco a poco i sentieri reali, quelli segnati sul pavimento da lunghissime strisce di un rosso aggressivo, quasi violento. I passi si inseguivano l'un l'altro senza schemi, senza obblighi, spingendosi istintivamente verso le due grandi siepi. Ed a questo punto un sussulto, la percezione istintiva di essersi spinti al di là dei limiti, oltre i sentieri di fuoco.
Che altro fare se non raggiungere di corsa l'uscita e spiegare tutto ai carcerieri, che non era stata un'infrazione volontaria, che si trattava di un errore, di una distrazione.
Raggiunsi in un minuto le due siepi, decisa ad oltrepassarle. Ma ormai era troppo tardi: dal soffitto, immensi lastroni di ghiaccio scesero ricreare le barriere di sempre. Quelle barriere, che il tempo e la speranza sembravano aver cancellato, erano ora più vere che mai, più fredde e crudeli che mai.
Ed un velo di ghiaccio scese a ricoprire il giardino delle mie speranze, ad irrigidire anche il più pallido sorriso, per trasformarlo in una smorfia di cinico sgomento.
L'ultimo tradimento era ormai stato consumato, non c'era più nessuna cosa in cui sperare, nessuno in cui credere. NULLA DI VERO, oltre a quei muri di ghiaccio, immensi, invalicabili, durissimi da abbattere, ma pur sempre di ghiaccio, difficili da abbattere, ma di ghiaccio, e se il freddo un giorno avesse abbandonato la prigione, forse ...
La stanchezza era ormai irresistibile, caddi in un sonno profondo, forse sognai.

La pluie piquait l'air assommée de cet apres-midi tranquille, les feuilles grises des oliviers attendait un fil de soleil qui fasse etinceler leur surface argentés. Le bruit des marteaux, au loin, donnait un rhytme a cette musique monotone du temps, une continuité à cette suite d'instants qui se succedaient de facon
confuse sur ma fenetre ouverte. Sur ma table, un orloge indiquait le nombre des instants qui avaient dejà quitté l'ecran, pursuivant fidèlement sa tache quotidienne.
Il y avait un tas d'objects autour de lui, des objects bizarres, qui n'avaient aucune relation entre eux, une clé, des pelotons de laine multicolores, des crayons, des gommes, des taille-crayons, des cassettes, du beurre de cacao, des stylos, des cendriers, des livres, des feuilles jetés là pele-mele; et toute cette confusion semblait lancer un défi a ce petit robot judicieux, qui n'oublierait jamais meme
pas un de ses tic-tac.
Il regardait d'un air à la fois craintif et obstiné les membres de cette armée si variée, sans mot dire, comme pour leur donner, comme pour leur donner un example de droiture, d'ordre.
Il était sérieux, lui!

I was waiting for his phone call, but the phone was silent, it didn't move; everithing was so still in that room! (it seemed to me that something was going to happen, sooner or later). I didn't understand why, but there was a strange sense of nervousness in me, a funny feeling of impatience, though I was perfectly sure that I wasn't looking forward to receiving that call at all. I knew that, if the telephone hadn't rung before eight o'clock, I would have gone out anyway, without him.
But still I was in pain, I was terribly afraid of the nothing that was going to happen, though I knew, I was sure that nothing, really nothing was worth of being afraid of. I had nothing to lose in my life any more,
everything had already been los; all the things which I loved most, all the things which I had hoped for so long had gone, gone away with my dreams, with my adolescence. I was a woman, I had entered the cold and grey world f balance and detachment. I kept on dreaming, but my dreams had lost the sweet taste of hope, they stood in my mind as sphynxes of a far past, or as sporadic flashes of a light which was becoming more and more pale and soulless. Soon after the fgay and coloured images woven by my tireless mind, stood the tired stillness of a colourless reality.
Was I moving towards the death of all feelings and emotions? Was I going to land in the cold desert of reason, or was I going to precipitate in the black hell of woe? I couldn't answer these questions. At the moment, the only think I knew was that I was flying, over the world I had entered, and that I unluckily was in it, while being out of its laws and rules.
And it was so hard to suceed in keeping on flying, because the sky in which I was desperately looking for my freedom was seldom clear and unclouded, and too often the moon and stars in it refused to give an answer to the misteries of the night.
Many times I had looked for a sign, for a reference mark in the firmament, but what seemed to be a comet, was only a shooting-star, an unworthy son of the light chased out of the realm of clearness. And never, never could I take a glance to the world below me, without feeling a sense of woe, an irresistible desire to fly away, to brave the storm of doubt and uncertainty coming towards me and forcing me to look for a shelter, down there, in the kingdom of puppets and scare crows. The great distance dividing my eyes from the earth allowed me to see more clearly, as on a movie screen, all the movements of the peoplenliving there; and they were terribly ridiculous, awfully clumsy. Yet, they didn't seem to be aware of that, and their assurance, their funny sense of rightness had something sad and sower in it; a sort of tragicalness ran through ran through their smiles, their empty talks, their useless attempts to become someone, to acquire consistence, compactness and solidity. This seemed to be their only goal, their utmost aspiration: to change themselves into lifeless blocks of ice. But how could this ever be possible if the sun spent all his time and energy filling the sky with light, the air with eath, the earth with colours?
None of my questions simed to have an answer. There wasn't any real reason for them to act in that way, but they did so, almost unconsciosly, probably to give a sense to their crazy lives. They seemed to have found many different ways to give sense to their existence, but for some strange reason, no one seemed to work properly. So the research went on and on, the sense-rush involved more and more people.
And they talked, and talked, and talked, about anything, about no-things, and their words sounded loud, too loud for my little and weak ear.
I didn't like their wods, I didn't like words at all; I liked to hear, to feel in other ways, and in that moment I felt like I couldn't hear anymore, because the noise made me deaf. Those voices, those cries were too sharp, too shrill , ... a bell, a bell in my ear .............. the telephone bell, the phone ..., the phone was ringing, at last, I had almost forgotten that it was going to ring. I answered, Paul was on the line, his voice called my name, but that voice seemed to have no expression, I couldn't feel that voice ...... I hung up, without any real reason. I was alone now, I wanted to be alone, I had finally chosen to BE, ... ... alone.

Rimanemmo soli nella stanza da letto. Lui non parlava, era assorto nei suoi pensieri. Io lo guardavo, attendendomi un cenno, un sorriso che mi facessa capire che c'ero, se c'ero, in quella stanza.
Mi adagiai sul copriletto di piumino ad Sprofondai/ affondai la testa nel cuscino, quasi per cercare di raccogliere il mio volto disfatto, ed ascoltavo i suoi passi nervosi portarlo da un lato all'altro della stanza, senza mai variare il ritmo di battuta. Avevo l'impressione che ognuno di quei passi (martellanti)
disegnasse nella mia mente le note di una strana musica, una musica che si faceva sempre più marcata, sempre più insistente, fino a diventare ossessiva. E la mia testa sprofondava sempre più giù, sempre più dentro, istintivamente, senza che me ne rendessi conto, e quel tepore sembrava creare un anello di bambagia attorno a me; avevo l'impressione di sprofondare in un mare di spugna, o di piume
non so bene, e la musica sembrava allontanarsi a poco a poco, e tutto, persino i miei pensieri erano velati di una coltre di morbidezza. Ed in questo tepore così accogliente, la mia mente si staccava a poco a poco dalla realtà per lasciare posto al sonno. Dormiii profondamente, non so se per qualche minuto o per un anno. So solo che in quel minuto o in quell'anno non era cambiato molto in quella stanza: i muri erano sempre allo stesso posto, i mobili avevano la stessa e identica disposizione, e persino le finestre erano sempre lì, immobili, a guardare ciò che la strada offriva loro. Loro, erano affacciati sulla strada; erano aperti alla vita, loro. Eppure mancava qualcosa, qualcosa che avrebbe certamente finito per rendere insopportabile l'aria racchiusa tra quelle quattro mura. La musica era infatti cessata e Andrea era sul letto accanto a me, col volto disteso, pacato. Succedeva sempre così, la tempesta e poi ... l'apatia, l'indifferenza.
In quel momento sentivo di odiarlo con tutte le mie forze, la sua presenza mi irritava, ogni suo movimento mi risultava insopportabile; eppure sapevo benissimo che si trattava di un momento, semplicemente di un momento ... e che importava se momenti come questi stavano diventando sempre più frequenti, l'importante era che poi tutto sarebbe passato, e che la nostra storia, malgrado tutto sarebbe continuata, ancora.
Ancora insieme, dopo sei anni, ancora insieme a raccontarci il nostro vuoto, la nostra noia, la nostra insoddisfazione.
Ma chi era per me andrea, Andrea sdraiato lì accanto a me, Andrea che non parlava? Me lo ero chiesta tante volte e ancora non riuscivo a rispondermi. Io e Andrea, ancora insieme, nonostante tutto. Io e Andrea, in quella stanza ormai buia, io e Andrea, sullo stesso letto, vicini, più vicini delle nostre nevrosi, delle nostre angosce.
Infondo, forse, gli volevo ancora bene ....

Sally e Nail

Sally aveva appena iniziato a studiare e già i suoi pensieri cominciavano a cancellare le pagine che aveva sotto gli occhi, le frasi, le parole che la sua mente avrebbe dovuto assorbire, se almeno per un momento fosse stata libera di concentrarsi su qualcosa. Non c'era verso di ritornare alla realtà, la realtà di quel libro aperto era troppo squallida rispetto ai mille arzigogoli che la sua fantasia tesseva e disfaceva con una sorprendente rapidità.
Cos'era quel mondo che tanto la attirava, e cosa aveva a che fare con la pagina biana a righe nere che i suoi occhi non potevano fare a meno di fissare?
Nulla, forse.
E mentre era così lontana Sally ebbe un sussulto. Suonavano alla porta. Si trattava certamente dio Nail; dalla finestra della sua stanza gli avrebbe fatto cenno di entrare. Senza esitare Sally si precipitò alla finestra, ma rimase subito delusa: Nail non era ancora arrivato. Eppure avevano appuntamento alle sei.
Non era la prima volta che arrivavano in ritardo e Sally soffriva molto per questo. Gli voleva davvero tanto bene, ed ogni minuto di attesa era per lei una vera sofferenza. Nail lo sapeva, ma fingeva di non farci caso, oppure non ci faceva caso davvero.
Era fatto così, non sapeva cosa significasse il compromesso con un'altra persona, perché non esistevano altre persone all'infuori di lui nel suo mondo, un mondo, un mondo così diverso da quello di Sally!
Ed era proprio questa diversità che dividendoli li univa, perché li rendeva davvero strani e incomprensibili.
Un nuovo sussulto, una rapida fuga alla finestra, questa volta era lui.
"Finalmente!" - disse Sally - credevo proprio non venissi più.
Nail fece una brutta cera, non gli piaceva / gradiva che si facessero osservazioni sul suo comportamento. Era sì o no libero delle sue azioni? O forse quella persona che ora lo guardava con occhi quasi supplichevoli poteva influire sulla sua volontà o sui suoi capricci. Non era un problema che uno come lui doveva porsi.
- "che facciamo, allora, usciamo?"
- "Non ne ho voglia" - disse lui scocciato, e prese a giocherellare con una penna che era sulla scrivania.
Poco dopo andò a sedersi nella poltrona nell'angolo.
Sally aveva tanta voglia di parlare con lui, di abbracciarlo forte, di dirgli tutto il bene che gli voleva, ma di fronte a lei si era ormai innalzata una coltre di ghiaccio che neanche una spada avrebbe potuto scalfire.
Tacque.
Quel silenzio le sembrava insopportabile, aveva l'impressione che qualcosa dovesse saltare in aria da un momento all'altro. E invece nulla, nulla si muoveva, solo l'orologio continuava imperterrito la sua marcia verso il futuro.
Era una di quelle serate no, di quelle tante serate no che si ripetevano ormai da un pezzo in quella stanza.
Nail andò a sedersi alla scrivania, chiese un mazzo di carte ed iniziò a giocare, da solo.
Era solo in quel momento, Sally non contava, non aveva alcuna importanza quello che lei pensasse o desiderasse, non c'era che lui nella stanza ...

Alle dieci, finalmente, Nail si alzò e si diresse verso la porta.
- "Vado via" - disse, e si allontanò in fretta.
Sally restò con il naso appiccicato ai vetri, gli occhi puntati verso la strada deserta. Dove erano finiti tutti quei sogni che nemmeno per un attimo la sua mente aveva cessato di creare /tessere, in attesa che il campanello suonasse? Quello squillo avrebbe dovuto trasformarli in realtà, forse.
Ma no, sarebbe stato assurdo pretendere che la persona che pochi minuti prima aveva lasciato la sua casa, sbattendo la porta, fosse proprio il Nail che aveva animato la sua fantasia.
Non sapeva se provare rabbia o dolore ...

Ci era voluto del tempo prima che arrivassero nei giardini di Versailles, avevano dovuto prendere il treno da Parigi e, a pranzo, si erano fermati in un piccolo ristorante nei pressi della reggia. C'era in ciascuno di loro un'inquietudine profonda, intima, assolutamente individuale, che rendeva le poche parole che si erano scambiati in quello squallido locale vuote e lontane.
Erano distanti, terribilmente distanti, immersi nelle loro vite passate e future, due vite che in comune non avevano altro che la paura, l'angoscia di non saperle vivere. Ma quest'ansia, questa costante e tenace insofferenza era, in lui, più pacata, più densa di rasseganzione, quella rassegnazione che a volta giova agli spiriti inquieti e che in lei cominciava appena ad attecchire. Patrick glielo aveva detto, la sera in cjui assieme avevano percorso la "rue pietonne" in cerca di un posto in cui mangiare una crepe e bere qualcosa. L'età matura e tranquillizza, spegne gli entusismi ed assorbe le ansie. Ma Ilde non riusciva a crederci. Per lei ogni emozione durava una vita, e la sua vita la leggeva nel groviglo delle sue emozioni. Forse non ci credeva nemmeno lui , ma l'esperienza gli aveva insegnato che era inutile affannarsi nella ricerca di un appagamento che non esisteva, in realtà, in nessuna parte del mondo. E ciononostante lui stesso non cessava di affannarsi, di cercare nei sogni più banali ciò che mai avrebbe saputo trovare nella realtà. Gli piaceva innamorarsi, si innamorava di tanta gente, di tante cose, ma si trattava di emozioni che non duravano a lungo, che si spegnevano a mano a mano che il loro oggetto acquistava concretezza, perdendo il suo sapore di mistero.
E tutto diveniva sempre così maledettamente concreto, e i suoiamori erano così fragili e brevi che nel suo intimo restava sempre un senso di incompletezza, il sentimento dell'inappagato, la coscienza di non essere, in realtà, capace di amare.
Una profonda solitudine era ciò che gli lasciavano le giornate trascorse in balia delle sue assurde passioni, e quella solitudine lo angosciava con la sua crudezza e con la sua evidenza. Bisognava riempirla di sogno, e insieme di rassegnazione, perché di rasseganzione erano intrisi anche i suoi sogni più intensi.
Dopo aver pranzato si incamminarono verso il palazzo reale. Non c'era tempo per visitare gli interni, e poi lei non ne aveva nessuna voglia; i giardini la attiravano molto di più. Patrick volle restare con lei.
Avrebbero aspettato che le fontane si fossero risvegliate, dopo l'ultima delle loro consuete soste quotidiana. Era molto importante per loro riuscire a vedere quell'acqua, sia pur per pochi secondi, entrambi lo desideravano ardentemente. Si trattava di un desiderio comune, l'unica cosa che li unisse in quel momento: un vero desiderio!
Erano giunti dinanzi alle due grandi vasche, immerse nel verde dei prati, che dalle fontane si stendevano fino a toccare l'orizzonte.
Quell'immensa distesa d'acqua aveva rapito lo sguardo di Ilde, e lei camminava seguendo il viale alberato per rispondere a quel richiamo, senza più curarsi del suo compagno. Patrick la seguiva in silenzio, anche lui quasi stordito da quello spettacolo. Aveva voglia di condividere con lei quel senso di pace profonda. La raggiunse e le prese la mano, ma l'incantesimo non durò che pochi secondi. Qualcosa li riportò alla realtà: le fontane! Era ora, bisognava tornare indietro! Bisognava affrettarsi, c'erano solo pochi attimi, il tempo non aspetta chi è abituato a sognare. Non è possibile ..., è troppo tardi, è ormai troppo tardi, niente, più niente ormai, al di fuori di questo desiderio, ardente, irresistibile, destinato a restare inappagato ......

LA PRIGIONE ROSA

Vennero in due a dirmi che dovevo tornare, tornare nella mia prigione, la prigione nella quale ero nata e cresciuta, in cui qualcuno mi aveva allevata con "tanto tanto amore".
Mi dissero che ormai lì era tutto cambiato, che le celle non esistevano più, che tutto era più accogliente e che i carcerieri, persino loro, erano divenuti più umani, più comprensivi. Non ci credevo molto, ma non avevo molta scelta.
Tornare ... ! L'idea mi riempiva di un non so che di piacevole.
Laggiù era tutto così grande, così tranquillo. Nonostante tutto, l'ambiente era vivibile, esistevano degli angolini in cui potersene stare da soli con sé, e cercarsi, e ritrovarsi a volte, più facilmente che altrove.
Il ritorno fu piacevole e la prima settimana trascorse in un'atmosfera di armonia e di serenità incredibili. Ma la sorpresa più grande fu quella di trovare che nella grande prigione i muri erano scomparsi e le porte non esistevano più. C'era solo un immenso stanzone diviso da piante e divani, un ambiente che a prima vista poteva apparire dispersivo, ma che non lo era perché bastava fare un po' di attenzione per scorgere, in un angolo, il luogo ideale per sedersi ad ascoltarsi, a parlare, a guardare nel vuoto.
Tutto sembrava cambiato, persino il colore dei muri, quel colore grigio, scuro, opaco, che conciliava la noia, ormai non c'era più. Tutto era stato colorato di rosa, un rosa intenso, che se non riusciva certo a trasmettere la gioia, per lo meno non la soffocava.
C'era però un non so che di strano in tutto questo: un'aria gelida, nononstante il sole colpisse direttamente anche gli angoli più nascosti dell'immenso salone rosa. E quel gelo sembrava penetrare nelle ossa, immobilizzarle, sembrava concretizzarsi a volte in grandi blocchi di ghiaccio, assumendo le forme più strane.
Ma tutto ciò non contava, non contava affatto. L'importante era sentirsi liberi, poter correre da un lato all'altro della stanza, e cantare, e gridare a squarciagola, se questo poteva significare LIBERTA'.
Ma perché per raggiungere l'uscita bisognava seguire un percorso stabilito? perché non poter saltare le siepi, o passare attraverso le piante? Perché esisteva una sola strada per raggiungere il sofà?
Dei corridoi simbolici erano segnati sul pavimento. Bisognava seguirli: era l'unica legge rimasta in vigore nella prigione, per il resto regnava la LIBERTA'.
Che bella la libertà, pensavo, non ci avrei mai sperato, e forse ora cominciavo a respirarla, ad intravvederla, persino a crederci.
Ed intanto camminavo tenendo in mano un libro cominciato tante volte e mai finito, per mancanza di tempo. Era molto, molto bello, forse ancora più bello ora che lo leggevo in un'atmosfera di pace e di serenità, quali quelle che regnavano in quella gelida selva colorata di rosa.
Ed intanto la mente cominciava a seguire i sentieri di quel racconto, così affascinante, e abbandonava a poco a poco i sentieri reali, quelli segnati sul pavimento da lunghissime strisce di un rosso aggressivo, quasi violento. I passi si inseguivano l'un l'altro senza schemi, senza obblighi, spingendosi istintivamente verso le due grandi siepi. Ed a questo punto un sussulto, la percezione istintiva di essersi spinti al di là dei limiti, oltre i sentieri di fuoco.
Che altro fare se non raggiungere di corsa l'uscita e spiegare tutto ai carcerieri, che non era stata un'infrazione volontaria, che si trattava di un errore, di una distrazione.
Raggiunsi in un minuto le due siepi, decisa ad oltrepassarle. Ma ormai era troppo tardi: dal soffitto, immensi lastroni di ghiaccio scesero ricreare le barriere di sempre. Quelle barriere, che il tempo e la speranza sembravano aver cancellato, erano ora più vere che mai, più fredde e crudeli che mai.
Ed un velo di ghiaccio scese a ricoprire il giardino delle mie speranze, ad irrigidire anche il più pallido sorriso, per trasformarlo in una smorfia di cinico sgomento.
L'ultimo tradimento era ormai stato consumato, non c'era più nessuna cosa in cui sperare, nessuno in cui credere. NULLA DI VERO, oltre a quei muri di ghiaccio, immensi, invalicabili, durissimi da abbattere, ma pur sempre di ghiaccio, difficili da abbattere, ma di ghiaccio, e se il freddo un giorno avesse abbandonato la prigione, forse ...
La stanchezza era ormai irresistibile, caddi in un sonno profondo, forse sognai.

La pluie piquait l'air assommée de cet apres-midi tranquille, les feuilles grises des oliviers attendait un fil de soleil qui fasse etinceler leur surface argentés. Le bruit des marteaux, au loin, donnait un rhytme a cette musique monotone du temps, une continuité à cette suite d'instants qui se succedaient de facon
confuse sur ma fenetre ouverte. Sur ma table, un orloge indiquait le nombre des instants qui avaient dejà quitté l'ecran, pursuivant fidèlement sa tache quotidienne.
Il y avait un tas d'objects autour de lui, des objects bizarres, qui n'avaient aucune relation entre eux, une clé, des pelotons de laine multicolores, des crayons, des gommes, des taille-crayons, des cassettes, du beurre de cacao, des stylos, des cendriers, des livres, des feuilles jetés là pele-mele; et toute cette confusion semblait lancer un défi a ce petit robot judicieux, qui n'oublierait jamais meme
pas un de ses tic-tac.
Il regardait d'un air à la fois craintif et obstiné les membres de cette armée si variée, sans mot dire, comme pour leur donner, comme pour leur donner un example de droiture, d'ordre.
Il était sérieux, lui!

I was waiting for his phone call, but the phone was silent, it didn't move; everithing was so still in that room! (it seemed to me that something was going to happen, sooner or later). I didn't understand why, but there was a strange sense of nervousness in me, a funny feeling of impatience, though I was perfectly sure that I wasn't looking forward to receiving that call at all. I knew that, if the telephone hadn't rung before eight o'clock, I would have gone out anyway, without him.
But still I was in pain, I was terribly afraid of the nothing that was going to happen, though I knew, I was sure that nothing, really nothing was worth of being afraid of. I had nothing to lose in my life any more,
everything had already been los; all the things which I loved most, all the things which I had hoped for so long had gone, gone away with my dreams, with my adolescence. I was a woman, I had entered the cold and grey world f balance and detachment. I kept on dreaming, but my dreams had lost the sweet taste of hope, they stood in my mind as sphynxes of a far past, or as sporadic flashes of a light which was becoming more and more pale and soulless. Soon after the fgay and coloured images woven by my tireless mind, stood the tired stillness of a colourless reality.
Was I moving towards the death of all feelings and emotions? Was I going to land in the cold desert of reason, or was I going to precipitate in the black hell of woe? I couldn't answer these questions. At the moment, the only think I knew was that I was flying, over the world I had entered, and that I unluckily was in it, while being out of its laws and rules.
And it was so hard to suceed in keeping on flying, because the sky in which I was desperately looking for my freedom was seldom clear and unclouded, and too often the moon and stars in it refused to give an answer to the misteries of the night.
Many times I had looked for a sign, for a reference mark in the firmament, but what seemed to be a comet, was only a shooting-star, an unworthy son of the light chased out of the realm of clearness. And never, never could I take a glance to the world below me, without feeling a sense of woe, an irresistible desire to fly away, to brave the storm of doubt and uncertainty coming towards me and forcing me to look for a shelter, down there, in the kingdom of puppets and scare crows. The great distance dividing my eyes from the earth allowed me to see more clearly, as on a movie screen, all the movements of the peoplenliving there; and they were terribly ridiculous, awfully clumsy. Yet, they didn't seem to be aware of that, and their assurance, their funny sense of rightness had something sad and sower in it; a sort of tragicalness ran through ran through their smiles, their empty talks, their useless attempts to become someone, to acquire consistence, compactness and solidity. This seemed to be their only goal, their utmost aspiration: to change themselves into lifeless blocks of ice. But how could this ever be possible if the sun spent all his time and energy filling the sky with light, the air with eath, the earth with colours?
None of my questions simed to have an answer. There wasn't any real reason for them to act in that way, but they did so, almost unconsciosly, probably to give a sense to their crazy lives. They seemed to have found many different ways to give sense to their existence, but for some strange reason, no one seemed to work properly. So the research went on and on, the sense-rush involved more and more people.
And they talked, and talked, and talked, about anything, about no-things, and their words sounded loud, too loud for my little and weak ear.
I didn't like their wods, I didn't like words at all; I liked to hear, to feel in other ways, and in that moment I felt like I couldn't hear anymore, because the noise made me deaf. Those voices, those cries were too sharp, too shrill , ... a bell, a bell in my ear .............. the telephone bell, the phone ..., the phone was ringing, at last, I had almost forgotten that it was going to ring. I answered, Paul was on the line, his voice called my name, but that voice seemed to have no expression, I couldn't feel that voice ...... I hung up, without any real reason. I was alone now, I wanted to be alone, I had finally chosen to BE, ... ... alone.

Rimanemmo soli nella stanza da letto. Lui non parlava, era assorto nei suoi pensieri. Io lo guardavo, attendendomi un cenno, un sorriso che mi facessa capire che c'ero, se c'ero, in quella stanza.
Mi adagiai sul copriletto di piumino ad Sprofondai/ affondai la testa nel cuscino, quasi per cercare di raccogliere il mio volto disfatto, ed ascoltavo i suoi passi nervosi portarlo da un lato all'altro della stanza, senza mai variare il ritmo di battuta. Avevo l'impressione che ognuno di quei passi (martellanti)
disegnasse nella mia mente le note di una strana musica, una musica che si faceva sempre più marcata, sempre più insistente, fino a diventare ossessiva. E la mia testa sprofondava sempre più giù, sempre più dentro, istintivamente, senza che me ne rendessi conto, e quel tepore sembrava creare un anello di bambagia attorno a me; avevo l'impressione di sprofondare in un mare di spugna, o di piume
non so bene, e la musica sembrava allontanarsi a poco a poco, e tutto, persino i miei pensieri erano velati di una coltre di morbidezza. Ed in questo tepore così accogliente, la mia mente si staccava a poco a poco dalla realtà per lasciare posto al sonno. Dormiii profondamente, non so se per qualche minuto o per un anno. So solo che in quel minuto o in quell'anno non era cambiato molto in quella stanza: i muri erano sempre allo stesso posto, i mobili avevano la stessa e identica disposizione, e persino le finestre erano sempre lì, immobili, a guardare ciò che la strada offriva loro. Loro, erano affacciati sulla strada; erano aperti alla vita, loro. Eppure mancava qualcosa, qualcosa che avrebbe certamente finito per rendere insopportabile l'aria racchiusa tra quelle quattro mura. La musica era infatti cessata e Andrea era sul letto accanto a me, col volto disteso, pacato. Succedeva sempre così, la tempesta e poi ... l'apatia, l'indifferenza.
In quel momento sentivo di odiarlo con tutte le mie forze, la sua presenza mi irritava, ogni suo movimento mi risultava insopportabile; eppure sapevo benissimo che si trattava di un momento, semplicemente di un momento ... e che importava se momenti come questi stavano diventando sempre più frequenti, l'importante era che poi tutto sarebbe passato, e che la nostra storia, malgrado tutto sarebbe continuata, ancora.
Ancora insieme, dopo sei anni, ancora insieme a raccontarci il nostro vuoto, la nostra noia, la nostra insoddisfazione.
Ma chi era per me andrea, Andrea sdraiato lì accanto a me, Andrea che non parlava? Me lo ero chiesta tante volte e ancora non riuscivo a rispondermi. Io e Andrea, ancora insieme, nonostante tutto. Io e Andrea, in quella stanza ormai buia, io e Andrea, sullo stesso letto, vicini, più vicini delle nostre nevrosi, delle nostre angosce.
Infondo, forse, gli volevo ancora bene ....

Sally e Nail

Sally aveva appena iniziato a studiare e già i suoi pensieri cominciavano a cancellare le pagine che aveva sotto gli occhi, le frasi, le parole che la sua mente avrebbe dovuto assorbire, se almeno per un momento fosse stata libera di concentrarsi su qualcosa. Non c'era verso di ritornare alla realtà, la realtà di quel libro aperto era troppo squallida rispetto ai mille arzigogoli che la sua fantasia tesseva e disfaceva con una sorprendente rapidità.
Cos'era quel mondo che tanto la attirava, e cosa aveva a che fare con la pagina biana a righe nere che i suoi occhi non potevano fare a meno di fissare?
Nulla, forse.
E mentre era così lontana Sally ebbe un sussulto. Suonavano alla porta. Si trattava certamente dio Nail; dalla finestra della sua stanza gli avrebbe fatto cenno di entrare. Senza esitare Sally si precipitò alla finestra, ma rimase subito delusa: Nail non era ancora arrivato. Eppure avevano appuntamento alle sei.
Non era la prima volta che arrivavano in ritardo e Sally soffriva molto per questo. Gli voleva davvero tanto bene, ed ogni minuto di attesa era per lei una vera sofferenza. Nail lo sapeva, ma fingeva di non farci caso, oppure non ci faceva caso davvero.
Era fatto così, non sapeva cosa significasse il compromesso con un'altra persona, perché non esistevano altre persone all'infuori di lui nel suo mondo, un mondo, un mondo così diverso da quello di Sally!
Ed era proprio questa diversità che dividendoli li univa, perché li rendeva davvero strani e incomprensibili.
Un nuovo sussulto, una rapida fuga alla finestra, questa volta era lui.
"Finalmente!" - disse Sally - credevo proprio non venissi più.
Nail fece una brutta cera, non gli piaceva / gradiva che si facessero osservazioni sul suo comportamento. Era sì o no libero delle sue azioni? O forse quella persona che ora lo guardava con occhi quasi supplichevoli poteva influire sulla sua volontà o sui suoi capricci. Non era un problema che uno come lui doveva porsi.
- "che facciamo, allora, usciamo?"
- "Non ne ho voglia" - disse lui scocciato, e prese a giocherellare con una penna che era sulla scrivania.
Poco dopo andò a sedersi nella poltrona nell'angolo.
Sally aveva tanta voglia di parlare con lui, di abbracciarlo forte, di dirgli tutto il bene che gli voleva, ma di fronte a lei si era ormai innalzata una coltre di ghiaccio che neanche una spada avrebbe potuto scalfire.
Tacque.
Quel silenzio le sembrava insopportabile, aveva l'impressione che qualcosa dovesse saltare in aria da un momento all'altro. E invece nulla, nulla si muoveva, solo l'orologio continuava imperterrito la sua marcia verso il futuro.
Era una di quelle serate no, di quelle tante serate no che si ripetevano ormai da un pezzo in quella stanza.
Nail andò a sedersi alla scrivania, chiese un mazzo di carte ed iniziò a giocare, da solo.
Era solo in quel momento, Sally non contava, non aveva alcuna importanza quello che lei pensasse o desiderasse, non c'era che lui nella stanza ...

Alle dieci, finalmente, Nail si alzò e si diresse verso la porta.
- "Vado via" - disse, e si allontanò in fretta.
Sally restò con il naso appiccicato ai vetri, gli occhi puntati verso la strada deserta. Dove erano finiti tutti quei sogni che nemmeno per un attimo la sua mente aveva cessato di creare /tessere, in attesa che il campanello suonasse? Quello squillo avrebbe dovuto trasformarli in realtà, forse.
Ma no, sarebbe stato assurdo pretendere che la persona che pochi minuti prima aveva lasciato la sua casa, sbattendo la porta, fosse proprio il Nail che aveva animato la sua fantasia.
Non sapeva se provare rabbia o dolore ...

Ci era voluto del tempo prima che arrivassero nei giardini di Versailles, avevano dovuto prendere il treno da Parigi e, a pranzo, si erano fermati in un piccolo ristorante nei pressi della reggia. C'era in ciascuno di loro un'inquietudine profonda, intima, assolutamente individuale, che rendeva le poche parole che si erano scambiati in quello squallido locale vuote e lontane.
Erano distanti, terribilmente distanti, immersi nelle loro vite passate e future, due vite che in comune non avevano altro che la paura, l'angoscia di non saperle vivere. Ma quest'ansia, questa costante e tenace insofferenza era, in lui, più pacata, più densa di rasseganzione, quella rassegnazione che a volta giova agli spiriti inquieti e che in lei cominciava appena ad attecchire. Patrick glielo aveva detto, la sera in cjui assieme avevano percorso la "rue pietonne" in cerca di un posto in cui mangiare una crepe e bere qualcosa. L'età matura e tranquillizza, spegne gli entusismi ed assorbe le ansie. Ma Ilde non riusciva a crederci. Per lei ogni emozione durava una vita, e la sua vita la leggeva nel groviglo delle sue emozioni. Forse non ci credeva nemmeno lui , ma l'esperienza gli aveva insegnato che era inutile affannarsi nella ricerca di un appagamento che non esisteva, in realtà, in nessuna parte del mondo. E ciononostante lui stesso non cessava di affannarsi, di cercare nei sogni più banali ciò che mai avrebbe saputo trovare nella realtà. Gli piaceva innamorarsi, si innamorava di tanta gente, di tante cose, ma si trattava di emozioni che non duravano a lungo, che si spegnevano a mano a mano che il loro oggetto acquistava concretezza, perdendo il suo sapore di mistero.
E tutto diveniva sempre così maledettamente concreto, e i suoiamori erano così fragili e brevi che nel suo intimo restava sempre un senso di incompletezza, il sentimento dell'inappagato, la coscienza di non essere, in realtà, capace di amare.
Una profonda solitudine era ciò che gli lasciavano le giornate trascorse in balia delle sue assurde passioni, e quella solitudine lo angosciava con la sua crudezza e con la sua evidenza. Bisognava riempirla di sogno, e insieme di rassegnazione, perché di rasseganzione erano intrisi anche i suoi sogni più intensi.
Dopo aver pranzato si incamminarono verso il palazzo reale. Non c'era tempo per visitare gli interni, e poi lei non ne aveva nessuna voglia; i giardini la attiravano molto di più. Patrick volle restare con lei.
Avrebbero aspettato che le fontane si fossero risvegliate, dopo l'ultima delle loro consuete soste quotidiana. Era molto importante per loro riuscire a vedere quell'acqua, sia pur per pochi secondi, entrambi lo desideravano ardentemente. Si trattava di un desiderio comune, l'unica cosa che li unisse in quel momento: un vero desiderio!
Erano giunti dinanzi alle due grandi vasche, immerse nel verde dei prati, che dalle fontane si stendevano fino a toccare l'orizzonte.
Quell'immensa distesa d'acqua aveva rapito lo sguardo di Ilde, e lei camminava seguendo il viale alberato per rispondere a quel richiamo, senza più curarsi del suo compagno. Patrick la seguiva in silenzio, anche lui quasi stordito da quello spettacolo. Aveva voglia di condividere con lei quel senso di pace profonda. La raggiunse e le prese la mano, ma l'incantesimo non durò che pochi secondi. Qualcosa li riportò alla realtà: le fontane! Era ora, bisognava tornare indietro! Bisognava affrettarsi, c'erano solo pochi attimi, il tempo non aspetta chi è abituato a sognare. Non è possibile ..., è troppo tardi, è ormai troppo tardi, niente, più niente ormai, al di fuori di questo desiderio, ardente, irresistibile, destinato a restare inappagato ......

LA PRIGIONE ROSA

Vennero in due a dirmi che dovevo tornare, tornare nella mia prigione, la prigione nella quale ero nata e cresciuta, in cui qualcuno mi aveva allevata con "tanto tanto amore".
Mi dissero che ormai lì era tutto cambiato, che le celle non esistevano più, che tutto era più accogliente e che i carcerieri, persino loro, erano divenuti più umani, più comprensivi. Non ci credevo molto, ma non avevo molta scelta.
Tornare ... ! L'idea mi riempiva di un non so che di piacevole.
Laggiù era tutto così grande, così tranquillo. Nonostante tutto, l'ambiente era vivibile, esistevano degli angolini in cui potersene stare da soli con sé, e cercarsi, e ritrovarsi a volte, più facilmente che altrove.
Il ritorno fu piacevole e la prima settimana trascorse in un'atmosfera di armonia e di serenità incredibili. Ma la sorpresa più grande fu quella di trovare che nella grande prigione i muri erano scomparsi e le porte non esistevano più. C'era solo un immenso stanzone diviso da piante e divani, un ambiente che a prima vista poteva apparire dispersivo, ma che non lo era perché bastava fare un po' di attenzione per scorgere, in un angolo, il luogo ideale per sedersi ad ascoltarsi, a parlare, a guardare nel vuoto.
Tutto sembrava cambiato, persino il colore dei muri, quel colore grigio, scuro, opaco, che conciliava la noia, ormai non c'era più. Tutto era stato colorato di rosa, un rosa intenso, che se non riusciva certo a trasmettere la gioia, per lo meno non la soffocava.
C'era però un non so che di strano in tutto questo: un'aria gelida, nononstante il sole colpisse direttamente anche gli angoli più nascosti dell'immenso salone rosa. E quel gelo sembrava penetrare nelle ossa, immobilizzarle, sembrava concretizzarsi a volte in grandi blocchi di ghiaccio, assumendo le forme più strane.
Ma tutto ciò non contava, non contava affatto. L'importante era sentirsi liberi, poter correre da un lato all'altro della stanza, e cantare, e gridare a squarciagola, se questo poteva significare LIBERTA'.
Ma perché per raggiungere l'uscita bisognava seguire un percorso stabilito? perché non poter saltare le siepi, o passare attraverso le piante? Perché esisteva una sola strada per raggiungere il sofà?
Dei corridoi simbolici erano segnati sul pavimento. Bisognava seguirli: era l'unica legge rimasta in vigore nella prigione, per il resto regnava la LIBERTA'.
Che bella la libertà, pensavo, non ci avrei mai sperato, e forse ora cominciavo a respirarla, ad intravvederla, persino a crederci.
Ed intanto camminavo tenendo in mano un libro cominciato tante volte e mai finito, per mancanza di tempo. Era molto, molto bello, forse ancora più bello ora che lo leggevo in un'atmosfera di pace e di serenità, quali quelle che regnavano in quella gelida selva colorata di rosa.
Ed intanto la mente cominciava a seguire i sentieri di quel racconto, così affascinante, e abbandonava a poco a poco i sentieri reali, quelli segnati sul pavimento da lunghissime strisce di un rosso aggressivo, quasi violento. I passi si inseguivano l'un l'altro senza schemi, senza obblighi, spingendosi istintivamente verso le due grandi siepi. Ed a questo punto un sussulto, la percezione istintiva di essersi spinti al di là dei limiti, oltre i sentieri di fuoco.
Che altro fare se non raggiungere di corsa l'uscita e spiegare tutto ai carcerieri, che non era stata un'infrazione volontaria, che si trattava di un errore, di una distrazione.
Raggiunsi in un minuto le due siepi, decisa ad oltrepassarle. Ma ormai era troppo tardi: dal soffitto, immensi lastroni di ghiaccio scesero ricreare le barriere di sempre. Quelle barriere, che il tempo e la speranza sembravano aver cancellato, erano ora più vere che mai, più fredde e crudeli che mai.
Ed un velo di ghiaccio scese a ricoprire il giardino delle mie speranze, ad irrigidire anche il più pallido sorriso, per trasformarlo in una smorfia di cinico sgomento.
L'ultimo tradimento era ormai stato consumato, non c'era più nessuna cosa in cui sperare, nessuno in cui credere. NULLA DI VERO, oltre a quei muri di ghiaccio, immensi, invalicabili, durissimi da abbattere, ma pur sempre di ghiaccio, difficili da abbattere, ma di ghiaccio, e se il freddo un giorno avesse abbandonato la prigione, forse ...
La stanchezza era ormai irresistibile, caddi in un sonno profondo, forse sognai.

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