«Quella volta a lezione ci parlò della Cutuli»

«Ci sono dei limiti alla libertà del reporter. 'In Iraq non andrei - ci disse Torsello - non amo il pericolo in quanto tale'. Il 19 novembre 2001 sulla jeep intercettata da un gruppo armato tra Jalabad e Kabul, oltre all'inviata del 'Corriere' doveva esserci anche lui. Aveva declinato l'offerta all'ultimo. Il pericolo gli sembrava estremo»
20 ottobre 2006
Stefano Cristante (Docente di Sociologia all'università di Lecce)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Guardo il calendario che mi è arrivato brevi manu da qualche giorno. Sono stato invitato dall'assessore alla cultura di Alessano a parlarne in una libreria da poco attiva nel comune, alla presenza dell'autore. Un certo Gabriele Torsello, dice l'assessore, un fotografo nato nella cittadina del sud Salento ma residente a Londra. Aggiunge che il calendario rappresenta una sintesi del suo lavoro sul campo e che Torsello è molto bravo. C'è anche un sito dal misterioso indirizzo «www.kashgt.co.uk» .
Considero il calendario e penso con un certo timore alla presentazione. L'oggetto mi colpisce e mi disturba. Pochi giorni prima della presentazione, sfoglio ancora il calendario in cerca di ispirazione. Mi cade l'occhio su un mese (ottobre) e fisso a lungo la foto: un giovanissimo giocatore di calcio insegue una palla. Il giocatore si sorregge a una stampella. Ha solo la gamba sinistra. Terribile. Invece no. A poco a poco l'occhio si abitua alla situazione, ed emergono i dettagli. L'aria che si respira in quella foto non è affatto terribile. Lo sguardo del ragazzo è impegnato, ma quasi divertito. La gamba è piegata, sta per partire un tiro o un passaggio. Si può giocare a calcio anche così, dice la foto, si può vivere e mangiare e giocare anche in quel modo, in quelle condizioni, a Kabul. Leggo la didascalia: «Sandar è un orfano i cui genitori sono stati uccisi durante la guerra quando lui aveva solo tre mesi. A dieci anni una mina è esplosa a contatto con i piedi del ragazzo, strappandogli la gamba destra e danneggiando gravemente il piede sinistro. Ciononostante, ai World Games del 2003 per disabili, Sandar ha vinto la medaglia d'oro nei 200 metri e nella 4 x 100, e quella d'argento sui 100 metri».
Il mese di maggio è dedicato a una bambina che punta il dito sulla macchina fotografica. Ha gli occhi azzurri, da quello destro parte una vistosa concrezione tumorale, che la foto nasconde solo in parte. La didascalia di Torsello dice che la madre della bambina, una volta che il fotografo le chiedeva notizie sulla malattia della figlia, rispondeva soltanto invocando un dottore, come se non potesse o non sapesse a chi rivolgersi. Le foto seguenti (giugno e luglio) mostrano l'operazione subita dalla bambina a Kabul grazie a un'equipe medica internazionale e l'inizio della sua riabilitazione. Lo stato ordinario delle cose non prevede che qualcuno di inaspettato si prenda improvvisamente cura di una persona malata. Shabana, la bambina, senza il caso di quell'incontro con il fotografo italiano porterebbe ancora sul volto quella tremenda patologia.
La libreria di Alessano è gremita di gente. Arrivo un po' in ritardo e mi viene assegnata una sedia vicino a un tipo coi capelli lunghi e un gran barbone nero, come lo sguardo. Magari senza barba sarebbe un salentino tipico, ma così sembra un santone in occidentali abiti casual. Quando prende la parola a illustrare le diapositive che scorrono davanti al pubblico la sua voce risente delle inflessioni inglesi. Ogni tanto gli scappa un whatever o un and so on, ma il suo atteggiamento resta molto serio anche quando si corregge e così l'espressione, quasi ieratica. Racconta i suoi viaggi, il suo Kashmir, il suo Afghanistan. Parla soprattutto di persone conosciute, di episodi in cui ha dovuto riporre la macchina fotografica e dare una mano. I giorni senza scatti, cercando di capire il luogo dove si trovava. Non sembra affatto uno sprovveduto, parla con competenza di città note a tutti e di regioni ignote o dimenticate. Ha un certo humor: scherza anche sulla barba, dice che si poteva intrufolare nei mercati e nelle situazioni più popolari perché lo prendevano per autoctono e lui si comportava in modo sempre controllato, scattando quando sentiva che non dava fastidio alle persone. E' un pacifista, lo dicono le cose che dice ma anche il modo in cui le dice: si spiega senza caricare le espressioni, ripete con pazienza che la guerra dopo l'11 settembre ha lasciato aperta una valanga di problemi e che la temperatura del paese più sfortunato di tutti è destinata a restare rovente. Mentre parla e vedo le sue immagini scorrere sulla parete penso che dalle sue rappresentazioni emerga una grande curiosità antropologica disinteressata alla dimensione esotica e in grado invece di lasciar trapelare una specie di universalità dell'esperienza tragica e dei modi di fronteggiarla.
Alla fine della presentazione scambiamo quattro chiacchiere, gli dico che mi piacerebbe che potesse venire un giorno a Lecce a lezione a Scienze della comunicazione. «Ti rimborsiamo il volo low cost da Londra e discutiamo delle tue immagini con gli studenti della laurea specialistica». Dice che a maggio sarà abbastanza libero. Fissiamo una data. «E' il mese della foto della bambina» - dico. «Ti vorrei regalare il mio libro di foto in bianco e nero- risponde. Passiamo un attimo a casa che ne ho un po' di copie, andiamo». Il libro è bellissimo, alcune foto sembrano appartenere ad altre epoche, ma non c'è nessun effetto invecchiante: non è colpa del fotografo se piangere un morto nel Kashmir o a Kabul sembra un dipinto di Caravaggio. Spero venga a lezione. Ai ragazzi piacerà senz'altro. E poi è giusto che i giovani salentini sappiano che dal Salento si può emigrare anche per passione, non solo per necessità.
Il fatto su cui a lezione si insiste di più è inizialmente legato alla biografia di Gabriele. I ragazzi vogliono sapere come ha cominciato, come ha fatto a pubblicare i suoi primi lavori. Lui mostra immagini dal sito, paziente e tranquillo. Spiega che senza una determinazione speciale quel lavoro non ha semplicemente senso farlo. Occorre un tempo per imparare le tecniche, anche. Le mille opportunità di Londra lo hanno aiutato, ovvio. Poi serve un investimento personale: di tempo, innanzitutto. Stare sul posto significa assorbire il posto. Impossibile pensare di non farsi coinvolgere. Come si può non farsi coinvolgere? Ci sono dei limiti alla libertà del reporter. In Iraq non andrei, dice, non amo il pericolo in quanto tale. Poi racconta un episodio che colpisce molto chi lo ascolta, e, alla luce di quello che sappiamo oggi, fa accapponare la pelle: il 19 novembre del 2001 sulla jeep intercettata da un gruppo armata sulla strada da Jalabad e Kabul, oltre a Maria Grazia Cutuli del Corriere della sera, Julio Fuentes del Mundo e a due giornalisti della Reuter, nessuno dei quali scampati all'attentato, doveva esserci anche lui. Aveva declinato l'offerta all'ultimo istante. Anche il quel caso il pericolo gli sembrava estremo.
«Le mie foto non sono singoli scatti» - continua dopo che il brusio nell'aula si è spento - «fanno parte di un progetto legato a una certa realtà. Per questo ho volevo produrre il libro The heart of Kashmir, volevo mostrare agli eventuali interlocutori come lavoro, che cosa intendo per lavoro sulle immagini».
La seconda parte della conversazione è dedicata al mestiere di freelance. Dice che l'indipendenza di giudizio e la libertà di azione per lui sono fondamentali. Rispetto ai grandi media bisogna garantirsi in altri modi, contare su se stessi e sulla propria rete di contatti. I suoi sono di prim'ordine, da Amnesty all'Unfpa (United Nations Population Fund). Bisogna anche, dice, guardarsi intorno davvero per essere un freelance: magari trovi lavoro per un quotidiano giapponese, o per un settimanale canadese. Mi colpisce che continui a parlare mostrando le foto e soffermandosi sulla descrizione di ciò che la foto non mostra, ma che era presente al momento dello scatto.
Mi fa rabbia che quelli che lo imprigionano non possano - o non vogliano - vedere il mese di maggio del suo calendario.
* Docente di Sociologia all'università di Lecce

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