Iraq: lo scaricabarile di Bush

Il New York Times suona la carica dei democratici timorosi che il presidente lasci la patata bollente del ritiro al successore. Anche i repubblicani sono in fuga da «una causa persa». E la pacifista Cindy esige da Nancy Pelosi l'impeachment immediato di Bush
10 luglio 2007
Matteo Bosco Bortolaso
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Corridoi sempre più irrequieti alla Casa bianca, dove aumentano sussuri e grida per il ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq. Gli uomini del presidente George W. Bush, secondo il New York Times, stanno studiando un piano per arginare le defezioni tra le fila repubblicane, sempre più frustrate sulla guerra mediorientale. Che fare? L'idea è di ritirare gradualmente i soldati dalle zone più a rischio. Inizialmente si pensava di aprire il dibattito sulla situazione irachena a metà settembre, dopo la pubblicazione dei rapporti che il nuovo ambasciatore americano a Baghdad, Ryan Crocker, e il comandante militare, generale David Petraeus, leggeranno di fronte al Congresso. Ma il giornale, che domenica ha pubblicato uno storico editoriale in cui si chiede il ritiro, ha raccolto i sussurri di funzionari che suggeriscono di anticipare i tempi.
Già questa settimana, al senato, si potrebbe aprire un aspro dibattito sul futuro della guerra: sono previste le testimonianze di Crocker e Petraeus per un aggiornamento della situazione, in vista del rapporto definitivo di settembre. «Quando si contano i voti che abbiamo perso e quelli che potremmo perdere nelle prossime settimane», dice una fonte anonima al New York Times. Ad abbandonare Bush, in campo repubblicano, sono stati i senatori Lamar Alexander, Judd Greeg, Richard Lugar, George Voinovich e Pete Domenici, mentre altri repubblicani, come Chuck Hagel e Gordon Smith, avevano già rotto i ponti con la Casa bianca da diverso tempo.
La scorsa settimana ci sono state lunghe discussioni tra le eminenze grigie della Casa bianca. In particolare, il consigliere per la sicurezza nazionale Stephen Hadley e il grande stratega Karl Rove sarebbero molto preoccupati delle defezioni di repubblicani. La proposta del ritiro graduale è firmata da Robert Gates, responsabile della difesa che ha l'appoggio del segretario di Stato Condoleezza Rice. La ricetta è semplice: ritirare i soldati fino a dimezzare il numero di brigate combattenti che sono nelle zone più pericolose. Diverse unità combattenti verrebbero quindi utilizzate per una missione più limitata, con il compito di istruire le forze irachene, proteggere i confini del paese e bloccare le organizzazioni terroriste.
Anche il New York Times si è quindi allineato sul fronte del ritiro e ha scritto che «è giunto il momento per gli Stati uniti di lasciare l'Iraq». L'influente quotidiano americano ha detto basta alla guerra con un lungo editoriale che è il culmine di un mea culpa che continua da diversi mesi. Inizialmente il giornale aveva accettato le tesi dell'amministrazione Bush sulle presunte armi di distruzioni di massa possedute dal regime di Saddam Hussein. Con il passare dei mesi, però, il giornale ha cominciato a fare pubblica ammenda, soprattutto attraverso gli articoli del suo public editor, il giornalista incaricato di raccogliere le istanze e le critiche dei lettori.
«Come tanti americani abbiamo rinviato questa conclusione in attesa di un segnale, che il presidente Bush stesse cercando di sottrarre gli Stati uniti al disastro da lui creato invadendo l'Iraq senza ragioni sufficienti, sfidando l'opposizione generale, senza un piano per stabilizzare il paese - spiega l'editoriale domenicale - all'inizio abbiamo pensato che dopo avere distrutto il governo, l'esercito, la polizia e le strutture economiche dell'Iraq, gli Stati uniti si sentissero obbligati a raggiungere alcuni di quei traguardi che Bush proclamava di inseguire, in particolare la costruzione di un Iraq stabile e unificato». Ma il giornale scrive invece che «adesso è spaventosamente chiaro che il piano di Bush è di mantenere la rotta attuale finché sarà presidente, per poi scaricare questo macello sul suo successore. Quale che fosse la sua causa, è una causa persa».
Domenica è stato anche il giorno che potrebbe segnare il passaggio di Cindy Sheehan, la mamma pacifista, dal movimento alla politica attiva. Recentemente la Sheehan aveva annunciato di rinunciare ad essere il volto pubblico dei pacifisti a stelle e strisce. L'altro ieri, nell'ultima incursione al ranch di Bush in Texas, la Sheehan ha sfidato Nancy Pelosi, speaker democratica della Camera: entro due settimane deve essere promossa una procedura di impeachment contro Bush, colpevole di aver mentito sulle ragioni che hanno portato alla guerra guerra e di aver violato la Convenzione di Ginevra torturando i prigionieri catturati nella guerra al terrorismo. La scadenza dettata da Madre coraggio per l'impeachment è il 23 luglio, giorno in cui terminerà la marcia partita dal ranch di Bush con destinazione Washington. Se questo non accadrà, la pacifista si candiderà nel 2008 contro la Pelosi, da indipendente a San Francisco, perché «i democratici e gli americani si sentono traditi dalla leadership del partito».

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