PARADOSSI DEI MEDIA «EMBEDDED»

Che la guerra resti invisibile

24 aprile 2004
Luca Celada
Fonte: Il Manifesto

LUCA CELADA
C'è voluto più di un anno per vedere le prime bare provenienti dall'Iraq. Oltre 700 morti ed ecco infine le immagini iconiche, quelle bare avvolte nella bandiera americana che durante il conflitto del Vietnam avevano finito per diventare un catastrofico simbolo della guerra e della disfatta americana. Per questo il Pentagono iconoclasta, conscio del potere devastante che può avere, nella nostra era dell'immagine, anche una sola fotografia (quasi quanto una statua del Buddha), aveva insitito in modo categorico perché non fossero in nessun caso pubblicate, e per questo i funerali dei militari sono tuttora off-limits a giornalisti e telecamere, in questa guerra di uffici stampa e consulenti di immagine. Nesuna guerra, nessuna rivolta ma solo attacchi terroristici isolati, sabotaggio dei nemici della democrazia: la capacità di fiction dell'amministrazione non sembra avere limiti. Il vicesegretario alla difesa Paul Wolfowitz mercoledì spiegava al Senato che almeno ora in Iraq sepolture di massa non ce ne sono più: eppure le foto dello stadio di Fallujah sì che erano state pubblicate, nelle pagine interne. Infine, dopo un anno di guerra invisibile, purificata, schiacciata fra la cronaca nera e le previsioni del tempo, ieri quelle bare campeggiavano sulle prime pagine. Ancora più dei morti segreti, quelle foto sui giornali riflettono sul ruolo ambiguo della stampa americana dell'era embedded : abbiamo dovuto aspettare la foto spedita da un lettore e un sito internet privato per svelare ciò che tutti sanno ma nessuno vedeva.

Tutti sanno che si muore. In California l'ufficio del governatore invia messaggi quotidiani alla stampa per mettere al corrente giornalisti degli avvenimenti previsti per il giorno successivo, fa parte del piano per migliorare i rapporti con i media lanciato dal governatore con l'ausilio di un ufficio stampa hollywoodiano. Di recente però i messaggi si sono moltiplicati, il governatore dirama una dichiarazione ufficale di cordoglio per ogni militare di stanza in California ucciso in combattimento e dall'inizio dell'intifada irachena e non è raro trovare nella propria casella elettronica fino a una mezza dozzina di comunicati sui morti del giorno, 18 e 19enni perlopiù di stanza a Camp Pendelton, o la base marine di 29 Palms o una delle numero se basi californiane da cui sono partite truppe per l'Iraq: tanto numerose di recente che il Los Angeles Times ha dovuto infine scorporare le morti militari dai necrologi per i civili, creando una pagina apposita.

I morti si contano ma come numeri di una guerra lontana: un po' come i dati dell'inflazione, l'indice dow jones. Per questo molte delle stesse famiglie di soldati morti avevano denunciato il velo di censura dell'immagine, e per questo i Veterans for Peace da mesi visitano spiagge californiane su cui piantano piccole croci bianche ognuna in rappresentanza di un caduto. La forza di un immagine, la gente in passeggiata domenicale a Venice o a Santa Barbara si ferma le guarda, un po' stupita. Due settimane fa a Santa Monica le croci percorrevano l'intera lunghezza del molo.

Ciò che davvero sorprende però è la quotidianità, la normalità di come il paese registra le perdite di questa guerra lontana, abitudinaria, di routine. C'è l'effetto «rally» che spinge gli americani a stringersi attorno ai «nostri ragazzi» in prima linea: al di là della strumentalizzazione politica neoconservatrice c'è una sorta di spirito di corpo collettivo. Ogni critica, ogni dissenso è forzatamente preceduta dal proclama di solidarietà alle truppe in pericolo pronte all'estremo sacrificio: come una professione di fede in un sacramento estremo che prescinde da ogni contesto, e garantisce che una volta avviata una guerra diventi sempre più difficile da fermare, si auto-perpetui in un ciclo di violenza e rappresaglia - l'assedio di Fallujah come risposta al linciaggio di quattro americani, sostazialmente una vendetta.

E' l'effetto Johnson: escalation delle vittime seguito da incremento delle truppe. Eppure c'e chi (il senator Mark Pryor dell'Arizona) ha teorizzato un effetto Vietnam al contrario, per cui gli americani avrebbero imparato non tanto a chiedere conto al proprio governo quanto a non criticare le forze armate. Le indiscrezioni che trapelano da Falluja o Najaf sono non-notizie filtrate dalle fonti ufficiali, riguardano strettamente i caduti americani.

La controffensiva di immagine alle bare è stata immediata: la notizia ripresa da giornali e Tv della morte di Pat Tillman, star del football con gli Arizona Cardinals, corso ad arruolarsi «per combattere per il suo paese» dopo l'11 settembre. Il suo sguardo mi ricorda quello del marine ventenne che nel 2001, dalla guardiola della base di 29 Palms mi diceva di non vedere l'ora di andare in Afghanistan a «schiacciare teste di bambini». Gli articoli, soprattutto corredati di ampi servizi fotografici dell'eroe caduto vicino a Khost (foto in posa superhero tratta dall'annuario della squadra, in azione con la caratteristica uniforme da football : iconica anche questa, incongrua come le ragazze pon pon di Apocalypse Now nell'apocalisse indocinese).

E' particolarmente sinistro quando la guerra viene raccontata con un pragmatismo tecnocratico e i media americani ne sono in gran parte colpevoli: le forze della coalizione sono impegnate a «finire il lavoro», gli ufficiali intervistati discutono della strategia per «completare la missione» a Fallujah e parlano chirurgicamente di «inserzione» e «estrazione». Il Los Angeles Times ha di recente dedicato un articolo alla compagnia di cecchini dei marines di stanza a Camp Pendleton e al loro utilizzo sul campo: la loro è una «specialità utile», spiega l'articolo, non tanto per il danno effettivo inflitto al nemico quanto per il terrore psicologico che istilla nel campo avversario, che non sa mai chi sarà colpito a cial sereno. L'addestramento dei tiratori scelti ha come motto kill one terrorize 1000, «uccidi uno per terrorizzarne mille» e un caporale dichiara al giornalista del Times: «A volte ne colpisco uno e lo lascio urlare per un po', perché abbia il giusto effetto sui compagni. Poi uso un secondo proiettile».

Note: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/24-Aprile-2004/art16.html
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