Infanzia e territorio: crescere insieme a Castel Volturno
– Giochiamo a biliardino? – Una bambina africana di sei anni, minuta e spigliata, mi interpella nel giardino della “Casa del bambino” dei missionari comboniani. Le dico che giocherei volentieri, ma non c’è la pallina. – Giochiamo con... un’aranciata! – mi risponde risoluta e si arrampica sul muretto, cercando di raggiungere un ramo dell’albero vicino. In un attimo è di nuovo da me, con una piccola arancia tra le mani. La infila nella porta per controllare che le dimensioni siano adeguate, poi iniziamo a giocare. Sono loro, sono questi, i bambini di Castel Volturno, che possono insegnarti il problem solving in un pomeriggio d’inverno, che crescono dipanandosi nella giungla di contraddizioni imposte dal territorio e ribadiscono la normalità in un luogo votato al fuori norma.
La Domiziana è un nastro d’asfalto che ingoia le distanze, le cela dietro la monotonia di un paesaggio sciatto che ripropone moduli edilizi e stilemi sociali. La città non c’è: non è il Villaggio Coppola, ieri moderna cittadella autoreferenziale, oggi più simile a un quartiere periferico e degradato di una metropoli mai sorta; non è il centro di Castel Volturno, ancora paese, per certi versi gradevole, con la piazza e il fiume che, a poche centinaia di metri, sfocia nel Tirreno, ma alieno a tutto il resto, congelato nella sua presunta autenticità. La Domiziana è una fibbia che sfiora o attraversa luoghi vicini e contrapposti, ma che va sempre oltre, nella foga di una modernità scriteriata, refrattaria alla riflessione, recidiva.
Maglia amministrativa il cui spessore storico è conosciuto solo da quanti, per un motivo o per l’altro, hanno scelto di interessarsi a luoghi apparentemente poco interessanti, il comune di Castel Volturno è invece noto all’opinione pubblica per la sequela di misfatti che si sono compiuti all’interno del suo perimetro, episodi di varia natura, che attirano la sete intermittente di certa stampa più dell’impegno a comprendere e, soprattutto, a condividere. In questa terra dura e diffidente, dove niente è facile e niente scontato, la presenza massiccia di immigrati, in particolare africani provenienti dall’areale subsahariano del continente, è uno degli aspetti che hanno contribuito a scrivere la storia e la geografia del luogo negli ultimi vent’anni. Una realtà socio-territoriale già di per sé complessa e problematica è andata così ulteriormente articolandosi, rimodulandosi in forme talvolta discutibili o biasimabili, talaltra accettabili, auspicabili e, non di rado, sorprendenti.
La presenza dei missionari comboniani in questo punto della “città-strada” risale al 1996, quando un primo tentativo di risposta alle esigenze che provenivano dal territorio fu individuato nel recupero dalla strada delle ragazze immigrate e nell’accoglienza di quelle agli arresti domiciliari. Nei primi anni Duemila è emerso il problema delle donne africane che trovavano lavoro ma non sapevano dove lasciare i propri figli e le attività hanno cominciato a orientarsi intorno all’infanzia attraverso forme di autogestione. In quegli anni il territorio non offriva un numero di posti sufficiente nella scuola materna, perciò si è deciso di creare un centro diurno nel quale i bambini potessero restare dalla mattina al pomeriggio. È stata allora presa in affitto una casa colonica che, una volta ristrutturata, è diventata la “Casa del bambino”.
Oggi la scuola materna pubblica offre più posti, mentre il doposcuola è un servizio molto richiesto dal territorio. Da una parte, emerge la difficoltà delle famiglie che non possono seguire i propri figli per motivi lavorativi o linguistici, per cui urge sia la necessità di un luogo dove lasciarli dopo le regolari attività scolastiche per riprenderli la sera, sia di qualcuno che possa accompagnarli nello svolgimento dei compiti. A queste esigenze rispondono solo in parte gli istituti privati e paritari che vanno diffondendosi in zona, proponendo un’offerta integrata che generalmente ingloba scuola materna, elementare, doposcuola, pranzo e trasporti. Inevitabilmente i costi di questi servizi restano inaccessibili ai più. D’altro canto, i giovani patiscono quotidianamente gli ostacoli posti da un contesto che non offre punti di aggregazione extra-scolastici né pubblici né privati – che non siano i bar o le sale giochi e scommesse di cui la statale è costellata. Un problema, quello della difficoltà di aggregazione, accentuato da luoghi marcati strutturalmente dalla dispersione e poco connessi tra loro.
Il tentativo è, dunque, quello di offrire un’occasione di crescita insieme. La tipologia di utenti che fa riferimento alla “Casa del bambino” è mista: sebbene la dimensione africana sia prevalente, non mancano ragazzi italiani o di altre nazionalità, ma il metissage è anche socio-economico e, se alcune famiglie scelgono questo posto perché più accessibile alle loro possibilità – anche rispetto ai numerosi servizi di doposcuola “in casa” molto diffusi in zona – altre lo preferiscono perché i loro figli hanno trovato qui il proprio spazio.

Alcuni punti fermi nell’operato dei missionari comboniani sanciscono una differenza che è difficile non scorgere. In primis l’attenzione a non restare chiusi al loro interno, a non creare un “ghetto nel ghetto”, il tentativo – tutt’altro che facile ma mai disatteso – di cercare un contatto con la comunità locale. Hanno anche questa finalità gli eventi e le feste organizzati nel corso dell’anno scolastico; i campi scuola, messi su con l’aiuto di qualche volontario e di alcuni genitori durante i mesi estivi; il gioco del rugby, che coinvolge un gruppo misto di under 12 riunitosi sotto il nome de “I pirati”.
«Il cambiamento non può che essere culturale: io e te africano siamo uguali. Può sembrare banale, ma è tutto qui. Se non si parte da questo c’è assistenzialismo e l’assistenzialismo porta alla subordinazione, alla dipendenza. È facile creare sacche di pezzenti che dipendono da te, ma questo non ti porta da nessuna parte. Noi abbiamo tagliato con tutto ciò proprio perché siamo uguali. Sono meccanismi subdoli, l’essere umano arriva a mortificarsi per delle stupidaggini: uomini e donne che hanno attraversato il deserto e il Mediterraneo non possono aver paura di andare in un ufficio pubblico a chiedere un’informazione. Certo, se c’è qualcosa di complesso si cerca di risolverlo insieme, si offre volentieri un consiglio, ma qui non si risolve la vita agli altri: qui si cammina insieme. Questa è la nostra mentalità. Noi non siamo i salvatori di nessuno ma possiamo salvarci tutti insieme e con noi salvare anche il territorio. Il nostro slogan ce lo ricorda: “non salviamo i bambini dalle strade ma le strade con i bambini”».

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