25 Aprile
Festa eretica
25 aprile 2004
Marco Revelli
Fonte: Il Manifesto
Non è una festa conciliante, il 25 aprile. Né conciliata.
Non lo è mai stata. E' sempre stata, piuttosto, una festa aspra. Scomoda.
Una «festa eretica», la definirei. Ricordo, fin da quando la mia capacità
di memoria riesce ad arrivare, i «pranzi» del 25 aprile, quando i partigiani
risalivano le valli in cui avevano combattuto, per ritrovarsi, e confermare -
in una sorta di liturgia laica - la propria identità comune. Non erano «gente»
qualunque. Non si confondevano con i gitanti della domenica, tra quelle montagne.
Sapevano stare tra gli altri, ma sapevano benissimo di essere un po' diversi:
una parte dell'Italia. Una parte non grandissima. Avvertivano di appartenere al
gruppo ristretto dei «pochi pazzi» che, come li ebbe a definire Ruffini
- uno dei 12 professori universitari che si erano rifiutati di giurare fedeltà
al regime fascista - avevano dovuto (e non solo in quell'occasione) rimediare
ai guasti e ai disastri causati dai «troppi savi». Erano dei «bastian
contrari». Dei «malpensanti», come li avrebbe definiti Salvemini,
per distinguerli dai «benpensanti» che da sempre si allineano ai peggiori
governanti. Delle «teste quadre», che di colpo si erano trasformate,
per necessità e per scelta, in «teste calde» (l'espressione è
di Livio Bianco). Una «minoranza precaria» - ecco cos'erano - che aveva
vinto, certo, e aveva garantito libertà e democrazia per tutti, ma che intuiva
tutt'intera la possibilità che di colpo il paese potesse tornare a richiudersi
sulle loro teste, e sommergerli di nuovo nell'ottusità. Il loro 25 aprile
diceva che non c'era «ritorno a casa» possibile, dopo quell'esperienza
di oppressione e di ribellione. Che l'idea di una «memoria condivisa»
- dopo la rottura insanabile introdotta dagli orrori del fascismo e del nazismo
- era vana e blasfema. Li infastidiva la retorica patriottarda e unanimistica.
Temevano l'abbraccio di cariche istituzionali spesso incarnate dai notabili di
ieri, dagli artefici della catastrofe a cui loro - volontari per forza - avevano
dovuto, con sofferenza, porre riparo. Per questo, almeno una volta all'anno, scappavano
su in montagna, lontano dal pantano della pianura, per respirare insieme l'aria
della libertà che avevano conquistato.
Ci dicono, oggi: che c'entra quella festa, con la pace? Che c'entra con il «no alla guerra»? Lo dicono nuovi politici e vecchi marpioni con l'elmetto, arruolatisi nelle file di quello che di nuovo credono un alleato «invincibile». Lo ripetono giornalisti embedded e opinion leaders senza opinioni che non siano quelle di chi reputano il più forte. Lo dicono - forse non lo sanno neppure - con le stesse parole con cui ieri gli imboscati del regime mandavano gli altri ad ammazzare e a farsi ammazzare. Patria. Onore nazionale. Coraggio. Eroismo. Qualche volta conditi con un po' di melassa umanitaria, come vuole lo spirito del tempo. E scompare dalla coscienza collettiva, l'odio feroce, contro la guerra, che invece animò l'esperienza resistenziale. L'universo morale e mentale partigiano. Fu, quella, una grande, disperata, radicale rivolta contro la guerra e chi l'aveva voluta. Contro la guerra e la retorica che l'aveva alimentata. Contro l'infamia di una classe dirigente che la guerra aveva voluto, e che in guerra aveva portato l'intera nazione facendone pagare il prezzo più alto alla sua parte più debole, ai contadini, ai poveri cristi sacrificati perché un dittatore potesse sedere al tavolo dei vincitori. Certo, quei partigiani non erano cultori della non violenza. Gettati in una guerra orrenda e disumana, cercarono di uscirne nell'unico modo possibile in quelle circostanze e compatibile con la loro dignità: con un fucile in mano. Ma l'odio che nutrivano per la guerra, il rifiuto totale di ogni aspetto di essa, del suo linguaggio stesso, dei termini infetti che ne alimentavano la retorica, è senza dubbio il sentimento prevalente, che li fece uscire da quel loro combattere con l'idea fissa, ossessiva, indiscutibile, che quella fosse davvero «l'ultima guerra». Che la parola d'ordine della democrazia che andavano creando fosse davvero «mai più guerra». Un'idea tanto forte che la scrissero - perché fosse indelebile - nella Costituzione che ci hanno lasciato. Non dimentichiamolo. Tanto più oggi.
Ci dicono, oggi: che c'entra quella festa, con la pace? Che c'entra con il «no alla guerra»? Lo dicono nuovi politici e vecchi marpioni con l'elmetto, arruolatisi nelle file di quello che di nuovo credono un alleato «invincibile». Lo ripetono giornalisti embedded e opinion leaders senza opinioni che non siano quelle di chi reputano il più forte. Lo dicono - forse non lo sanno neppure - con le stesse parole con cui ieri gli imboscati del regime mandavano gli altri ad ammazzare e a farsi ammazzare. Patria. Onore nazionale. Coraggio. Eroismo. Qualche volta conditi con un po' di melassa umanitaria, come vuole lo spirito del tempo. E scompare dalla coscienza collettiva, l'odio feroce, contro la guerra, che invece animò l'esperienza resistenziale. L'universo morale e mentale partigiano. Fu, quella, una grande, disperata, radicale rivolta contro la guerra e chi l'aveva voluta. Contro la guerra e la retorica che l'aveva alimentata. Contro l'infamia di una classe dirigente che la guerra aveva voluto, e che in guerra aveva portato l'intera nazione facendone pagare il prezzo più alto alla sua parte più debole, ai contadini, ai poveri cristi sacrificati perché un dittatore potesse sedere al tavolo dei vincitori. Certo, quei partigiani non erano cultori della non violenza. Gettati in una guerra orrenda e disumana, cercarono di uscirne nell'unico modo possibile in quelle circostanze e compatibile con la loro dignità: con un fucile in mano. Ma l'odio che nutrivano per la guerra, il rifiuto totale di ogni aspetto di essa, del suo linguaggio stesso, dei termini infetti che ne alimentavano la retorica, è senza dubbio il sentimento prevalente, che li fece uscire da quel loro combattere con l'idea fissa, ossessiva, indiscutibile, che quella fosse davvero «l'ultima guerra». Che la parola d'ordine della democrazia che andavano creando fosse davvero «mai più guerra». Un'idea tanto forte che la scrissero - perché fosse indelebile - nella Costituzione che ci hanno lasciato. Non dimentichiamolo. Tanto più oggi.
Articoli correlati
- Sean Ono Lennon sul palco degli Oscar 2024
"War is Over!", il corto di animazione ispirato alla celebre canzone
La guerra, gli scacchi, due sconosciuti che si affrontano in una partita a distanza
La storia si preannuncia toccante e potrà servire a stimolare dibattiti e passi in avanti nella risoluzione dei vari conflitti, piccoli e grandi, "if you want it"18 marzo 2024 - Maria Pastore - Polemiche a Palermo per l'evento in programma dal 17 al 20 marzo
Il MIR Italia critica la manifestazione su "Pace, Sicurezza e Prosperità"
L'iniziativa si apre con la fanfara del 6º Reggimento Bersaglieri e prevede interventi di istituzioni militari come il Royal Military College e la United States Military Academy. "Così si formano gli studenti alla cultura militarista", protesta il Movimento Internazionale della Riconciliazione16 marzo 2024 - Redazione PeaceLink - L'iniziativa a Palermo si intitola “Peace Security & Prosperity”
Appello per l'annullamento del Forum per la pace gestito dai militari
Si punta ad arruolare culturalmente e professionalmente i giovani delle scuole. Quantomeno ambiguo sembra essere stato il ‘reclutamento’ del vescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice che non aveva mai acconsentito ad essere inserito all’interno del programma del Forum.16 marzo 2024 - Andrea Cozzo - Guerre di Israele e nostre complicità
La catena dell'impunità
Inchiesta sulla storia degli armamenti israeliani e sulle complicità dell'Occidente e dell'Italia nella guerra condotta ai danni della popolazione civile in Palestina12 marzo 2024 - Rossana De Simone
Sociale.network