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Intervista a Gianni Alioti, sindacalista CISL

Il disarmo? Un business!

Il riarmo non può essere giustificato né da ragioni occupazionali né economiche. Risponde solo a logiche di potenza militare. Se i miliardi per il caccia F35 fossero investiti in fonti rinnovabili si creerebbero più di 100mila posti di lavoro
16 ottobre 2007
Luciano Bertozzi
Fonte: Nigrizia Ottobre 2007

Gianni Alioti, responsabile internazionale Fim-Cisl, è un consumato osservatore dell’industria militare italiana ed europea e tra i massimi esperti nazionali sul tema della riconversione produttiva dal settore militare al civile. Strada percorribile per costruire concretamente una cultura della pace.

Perché il principio della riconversione, previsto dalla legge 185 del 1990 sul commercio delle armi, rimane tuttora lettera morta?
Perché per la politica italiana le priorità di spesa sono altre. E ciò appare evidente nell’ultima finanziaria, che cerca di soddisfare “l’appetito crescente” del nostro complesso militare-industriale, prescindendo dalla politica estera del paese e da una coerente politica di difesa. Si deve interrompere l’irresponsabile e demenziale corsa al riarmo che, mentre destina oltre 1.200 miliardi di dollari alle spese militari nel mondo, lascia solo pochi spiccioli agli obiettivi di lotta alla povertà. Se ci preoccupassimo realmente del futuro dei nostri figli, il disarmo dovrebbe ritrovare un posto centrale nell’agenda politica, almeno quanto la previdenza sociale e i cambiamenti climatici. Questa volontà non sembra emergere dal documento di programmazione economica e finanziaria per il 2008-2010. Il Dpef ripropone ingenti risorse – fuori dal bilancio della difesa – a sostegno esclusivo di programmi militari: un ritorno a forme di capitalismo di stato, ma con le “stellette”.

Oggi la riconversione produttiva dal settore militare al civile è entrata nelle piattaforme rivendicative contrattuali?
L’obiettivo della diversificazione/riconversione nel civile non è, ovviamente, materia per il rinnovo normativo e salariale del contratto nazionale dei metalmeccanici. Dovrebbe, invece, diventare una rivendicazione convinta di politica industriale per rispondere territorialmente e/o a livello d’impresa ad alcune crisi strutturali che hanno coinvolto aziende operanti sul militare, come la Breda Meccanica Bresciana (divisione di Oto Melara) o la Selex Communications, o per prevenire e gestire i cambiamenti futuri che interesseranno in Europa il settore aerospaziale e della difesa. Mi sembra, al contrario, che le risposte sindacali, oggi confinate in un’ottica provinciale, siano spesso solo difensive e, come tali, perdenti se non addirittura miopi. Pensiamo allo sciopero al Muggiano per difendere la vocazione militare del cantiere, di fronte alla scelta del management di Fincantieri di avviare la produzione civile di grandi yacht.

Un tema delicato è quello occupazionale. Ad esempio, l’adesione italiana alla realizzazione dell’aereo Usa Jsf è giudicata da alcuni positivamente perché s’intravedono molti posti di lavoro. È così? Le produzioni civili possono tutelare maggiormente l’occupazione?

Tutti i tentativi di motivare o, peggio, giustificare la scelta per i riflessi occupazionali sono patetici e privi di fondamento. La stessa partecipazione alla progettazione e produzione del caccia-bombardiere F35 e alla successiva decisione d’acquisto (nel 2009-2010 si dovrà pronunciare il parlamento) risponde solo a logiche di potenza militare. Lo stesso sottosegretario alla difesa, Lorenzo Forcieri, che aveva parlato di 2-3mila nuovi occupati subito e di 10mila a regime, ha poi fatto marcia indietro, affermando che l’acquisto dei velivoli comincerebbe solo dal 2013. E i 10mila nuovi occupati sono, in realtà, solo 1.000 (200 diretti e 800 nell’indotto). Considerando che la spesa complessiva – per la partecipazione al programma e per l’acquisto di 131 velivoli – oscilla a oggi tra i 12,3 e i 14,5 miliardi di euro, è palese che non può essere giustificata per ragioni occupazionali. Se si investissero gli stessi soldi nei settori dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili si creerebbero dai 116mila ai 203mila posti di lavoro.

Esiste, secondo lei, un problema culturale, per cui il mercato delle armi sarebbe un settore produttivo da promuovere come tutti gli altri?
Certo che esiste un problema culturale, con sviluppi di natura etica, politica ed economica. La produzione e il commercio di armi non possono essere promossi come qualsiasi altro settore. Se l’obiettivo è la sicurezza, il mercato delle armi va rigorosamente regolamentato. Ricordiamo, inoltre, che, nella migliore ipotesi di non impiego degli armamenti in scenari di guerra, la spesa sostenuta per produrli con le tasse pagate dai cittadini risulta del tutto improduttiva e non migliora il posizionamento competitivo del sistema paese nell’economia globale.

Finmeccanica risulta tra le prime dieci holding al mondo nel settore militare. E il gruppo guidato da Pier Francesco Guarguaglini sta aumentando la quota di fatturato militare rispetto al civile. A suo avviso, il ministero dell’economia, azionista di riferimento, dovrebbe convincere la società a privilegiare le attività civili?
Sarebbe già una svolta se il nostro governo smettesse di sostenere una Finmeccanica orientata solo al militare, per giustificarne il controllo pubblico. Basti pensare che il gruppo, nel 1995, operava per due terzi delle sue attività in campi civili. Dieci anni dopo, il rapporto è completamente rovesciato a favore del militare. Sarebbe interessante, a questo punto, calcolare cosa sarebbe successo se le stesse risorse impiegate nel business militare fossero state investite in campo civile nel settore dell’automazione, dell’energia, dei trasporti.

L’accordo fra Finmeccanica e la russa Suckhoi per un aereo civile può favorire la riconversione o quantomeno la diversificazione, aumentando la quota del fatturato civile?
Si, quest’accordo strategico, avviato all’inizio del 2007 con la società Suckhoi per una famiglia di jet di nuova generazione da 75-100 posti, comporterebbe importanti ricadute occupazionali nel civile, non solo per Alenia Aeronautica, ma anche per diverse aziende elettroniche di Finmeccanica e per la diffusa rete dei fornitori che ruotano attorno alla holding italiana.

È necessaria una nuova legge che aiuti le industrie del settore a riconvertire la produzione della difesa verso il civile?
Nella prima metà degli anni ‘90, con la fine della guerra fredda e il declino delle spese militari, un giusto mix tra misure di sostegno europee (programma Konver e fondi strutturali regionali) e dinamiche di mercato ha permesso significative esperienze aziendali o territoriali di diversificazione/riconversione nel civile.
Il caso più emblematico, e rimosso, è quello di La Spezia, che dalla crisi del militare si è scoperta città di mare, a vocazione molteplice (dal turismo al manifatturiero, dal porto ai servizi) con un distretto industriale di eccellenza nella “nautica e cantieristica”, che occupa migliaia di lavoratori.
Il peso del settore militare sul totale dell’occupazione è diminuito dal 9,6% del 1991 al 2,8% del 2004. E benché il peso del militare nel manifatturiero sia ancora rilevante, la sua riduzione dal 41% al 19% è indicativa del processo di riconversione nel civile, che sta trasformando, da oltre un decennio, il profilo industriale spezzino.
Oggi, nonostante si stia verificando una crescita imponente delle spese militari nel mondo (compresa l’Italia), l’occupazione in questo settore non è destinata ad aumentare, anzi subisce una progressiva contrazione. Nei casi citati di Breda Meccanica Bresciana e Selex Communications, si stanno cancellando complessivamente un migliaio di posti di lavoro. L’esperienza dei primi anni ’90 ci ha insegnato che una dipendenza esclusiva delle aziende dal mercato militare è un elemento di maggiore vulnerabilità sul piano occupazionale.

Ma l’Italia si può permettere di uscire dal mercato industriale delle armi? Non solo per ragioni politiche. Ad esempio, la vera ricerca industriale si fa solo in questo settore.
Non è vero che la ricerca industriale si fa solo nel mercato militare. Tra le prime 20 corporate al mondo per investimenti in ricerca e sviluppo (fonte: la Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, Unctad nell’acronimo inglese) non compare nessuna delle industrie che producono nel militare. In Italia, la quota di Finmeccanica (militare e civile), sul totale della ricerca nell’industria manifatturiera, non è per nulla trascurabile, ma – per fortuna – non costituisce la maggior parte della spesa in ricerca industriale nel nostro paese.
Il vero problema è che quanto si spende in Italia nella ricerca civile è molto meno di quanto spendono Francia, Germania e Regno Unito. A questo riguardo, lo spettacolo offerto con la Finanziaria 2007 è stato penoso. Mentre a fatica si sono “strappati”, per il triennio 2007-2009, 1.200 milioni di euro per la ricerca scientifica e tecnologica, sotto la voce “Fondo a sostegno dell’economia nel settore dell’industria nazionale ad elevato livello tecnologico” sono stati stanziati 4.450 milioni di euro solo per nuovi programmi militari che interessano Finmeccanica. Alla fine, come si vede, si ritorna sempre alla politica.
L’idea che la vera ricerca e l’innovazione si facciano esclusivamente nel militare è, in fondo, un vecchio postulato da “guerra fredda” . E tutti noi sappiamo com’è finita in Unione Sovietica, dove l’avevano preso sul serio.

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