RICORDO quei tempi andati, di dieci, quindici anni fa, in cui la gente, a Mosca, contava i morti ammazzati nelle strade, non solo in quelle della capitale, nel pieno della lotta furibonda che i futuri oligarchi avevano ingaggiato tra di loro per dividersi le spoglie dello stato socialista sovietico appena suicidatosi. Si pensava - lo pensavano i democratici, che avevano applaudito la caduta - che sarebbe presto venuta la normalizzazione, che i lupi, una volta sfamatisi, si sarebbero calmati.
Si diceva e si scriveva, con pazienza, che dopo il sangue sarebbe venuta la legge, perché anche i nuovi padroni ne avrebbero avuto bisogno per godere finalmente dei beni acquisiti. La violenza avrebbe avuto una fine, prima o dopo.
L'assassinio di Anna Politkovskaja dice crudamente che il tempo della legge non è ancora arrivato a Mosca. E' ancora guerra per bande, sicuramente non del tutto nuove, che tornano a mandare i sicari negli androni dei palazzi moscoviti - se si tratta dei meno abbienti - o agl'incroci delle grandi vie d'uscita dalla città verso le dacie lussuose immerse nei boschi tutto attorno, vigilate da alte mura di cemento, da telecamere sempre accese, da guardie del corpo numerose e bene armate. E' toccato a un grande banchiere di stato poche settimane prima che alla giornalista Politkovskaja. Due assassini eccellenti, sicuramente diversi per movente e mandante, ma la logica è una sola. Le questioni irrisolte si regolano privatamente a colpi di piombo. Per un banchiere servono raffiche di mitra, e non poche. Per Anna sono bastati due colpi di pistola: il secondo a Mosca lo chiamano, in gergo tecnico, «kontrolnij», di controllo, per verificare che la vittima sia morta per davvero. Anna Politkovskaja è finita così, ieri, nell'ascensore della Via Lestnaja, in pieno centro di Mosca.
Lei non aveva partecipato alla divisione del malloppo statale. Lei aveva raccontato come «quelli», dopo essersi scannati tra di loro, avevano organizzato le guerre di Cecenia, per far credere ai russi che tutelavano i loro interessi, che volevano ripristinare la grandezza perduta del Paese. Ma dire la verità sulla Cecenia, andare laggiù - come lei fece tante volte - per raccontare come i diritti umani di un popolo venivano schiacciati, era pericoloso. A 48 anni, dopo essere stata cronista della perestrojka, e aver tifato per coloro che la perestrojka tradirono, l'aveva scampata più d'una volta. In Cecenia doveva arrivarci, negli ultimi anni, in segreto, per quanto possibile. I militari non gradivano quel tipo di testimoni non «embedded», che poi scrivono per giornali, come la «Novaja Gazeta», rimasti come un'isola di critica in un oceano di silenzio. I palazzi dei poteri, pubblici e privati, non gradiscono i ficcanaso che rovistano nei loro affari. Nei Paesi «civili», di regola i giornalisti scomodi li si ferma con l'uso improprio delle leggi. Il vantaggio, per chi ha voglia di dire la verità è che, se anche non ci riesce del tutto, almeno rimane vivo.
In Russia, vent'anni dopo Gorbaciov, i giornalisti li si ferma «spegnendoli», come avrebbe detto Niccolò Machiavelli, secondo il vecchio criterio staliniano, che un uomo morto è un problema chiuso. Aveva «offeso» molti, sicuramente troppi. Ma non è probabile che l'abbiano ammazzata per vendetta. Anna Politkovskaja stava forse inseguendo una traccia delle sue. Il suo libro sulla «Russia di Putin» le ha dato fama in Occidente e un sacco di guai in casa. La Cecenia l'ha raccontata meglio di chiunque altro. Aveva altre cose da dire. L'hanno tolta di mezzo prima ch
e le dicesse.
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