Una guerra civile per spartirsi il paese
Il quadro mediorientale si presenta in tutta la sua drammatica complessità: dal Libano fino all'Iran. Se il nodo per una pacificazione dell'area resta la soluzione del conflitto israelo-palestinese, è l'Iraq in questo momento che rischia di trascinare nel baratro tutti i paesi della regione. Una possibilità che dovrebbe spaventare anche gli occupanti. E' assurdo continuare a paventare una possibile guerra civile nel caso in cui le truppe straniere si ritirassero. Bush, indebolito dalle elezioni, è sempre più solo. Anche Blair sta pensando all'exit strategy dopo che il capo di stato maggiore dell'esercito britannico aveva sostenuto che l'unica soluzione era il ritiro. Del resto ai comandi Usa basterebbe mettere la testa fuori dalla "zona verde" per capire che la guerra civile è cominciata da tempo. E forse non poteva essere diversamente: l'abbattimento di Saddam con la guerra aveva provocato un vuoto politico e istituzionale che aveva dato il via alle peggiori vendette e regolamenti di conti. Non può esserci pace senza giustizia, ma per gli Usa l'importante era mostrare lo scalpo dell'ex dittatore, giudicato con un processo sommario, al di fuori di ogni legalità internazionale. Non è con la pena capitale che si può salvare un paese che di morti ne ha già visti troppi. Anzi. Si alimenta la cultura della morte e la barbarie.
La guerra civile serve a sancire la divisione del paese. La spartizione è innanzitutto un disegno Usa, fin dal 1991 con la creazione delle no-fly zone (con il pretesto di proteggere gli sciiti a sud e i kurdi a nord). Divisione alimentata anche dai jihadisti che sono arrivati nell'Iraq occupato per combattere la «guerra santa» contro gli infedeli, non solo occidentali ma anche iracheni sciiti, considerati dai wahabiti (sunniti) traditori dell'islam. Alla base della divisione etnico-confessionale è stato anche il diverso atteggiamento nei confronti dell'intervento militare: kurdi favorevoli, sunniti contrari e sciiti ambigui, questi non potevano schierarsi con l'occidente ma hanno approfittato della situazione per liberarsi di Saddam. La linea sciita filo-iraniana si è mantenuta «pragmatica» fino ad appoggiare le elezioni volute dagli Usa per conquistare il potere.
Questa spartizione favorisce Tehran che controlla una grossa fetta dell'Iraq, mettendo in difficoltà gli occupanti Usa. Ma certo l'Iran (almeno il governo) preferirebbe mantenere il controllo su un paese più «stabilizzato» con un governo in grado magari persino di chiedere il ritiro delle truppe straniere invece che su un territorio dilaniato ogni giorno da massacri di sciiti e sunniti. Pur se la guerra sporca è alimentata anche dalle squadre addestrate dai pasdaran. Anche la Siria teme l'imbarbarimento dell'Iraq con il rischio di veder nascere alle sue frontiere un «califfato» con le inevitabili conseguenze al suo interno, dove i fondamentalisti sono stati finora repressi. Per questo Bashar al Assad, dopo 24 anni, ha ristabilito relazioni diplomatiche con Baghdad e parteciperà a un incontro a Tehran con i governanti iracheni e iraniani. Questo fa pensare che l'assassinio di Pierre Gemayel a Beirut più che favorire la svolta di Damasco voglia ostacolarla. A meno che vi sia all'interno del potere siriano chi vuol contrastare questo rapporto di Assad con Baghdad e Tehran.
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