La guerra del coltan
LA GUERRA DEL COLTAN IN AFRICA TRA AFFARISMO E
TACITA IPOCRISIA
Di tutti quelli che leggeranno questo articolo, certamente solo una
minima percentuale potrà dirsi realmente informata di questi
conflitti per l'approvvigionamento di materie prime che fanno più
morti delle due guerre mondiali messe insieme. E il tutto nel più
assoluto silenzio dei mass media ufficiali.
L’Africa è forse oggi il continente più ricco di minerali preziosi:
possiede il 30% delle riserve mondiali da cui si ricavano oro,
argento, rame, cobalto, uranio, coltan, stagno, tungsteno, fosfati e
manganese. Il legame tra risorse naturali e conflitti è presente
in circa il 20% dei conflitti nel mondo. In Africa sono in atto 33
conflitti legati alle risorse. E non si può parlare di conflitti senza
tener conto del commercio delle armi: U.S.A., Russia, Cina,
Germania, Francia, U.K., Spagna, Italia, Ucraina e Israele sono i
maggiori fornitori di armi in Africa. Un caso emblematico è la
Repubblica Democratica del Congo che possiede l’80% delle
riserve mondiali di coltan (una sabbia nera presente nei
condensatori dei cellulari e computer) e il 47% di riserve di
cobalto, utilizzato per le batterie dei cellulari. E’ inoltre ricco di oro,
diamanti, stagno, carbone, ferro, zinco, piombo, rame,
manganese. A causa delle estrazioni di coltan la popolazione ha
visto espropriate le proprie terre e gran parte degli introiti delle
miniere finanziano la guerra, con conseguenze devastanti per la
popolazione: insicurezza, violenza, fame, mancanza di servizi,
illegalità, corruzione e migrazione. La columbitetantalite o
columbotantalite (per contrazione linguistica congolese Coltan) è
una miscela complessa di columbite e tantalite, due minerali della
classe degli ossidi che si trovano molto raramente come termini
puri (il Brasile possiede il 5% delle riserve mondiali, la Thailandia
anche il 5%, l’Africa l’80% e l’Australia il 10%). Per questo il Coltan
è chiamato l’oro bianco, ed è una risorsa strategica, essenziale per
lo sviluppo di nuove tecnologie. Serve per la fabbricazione di
telefoni cellulari, GPS, satelliti, armi guidate, televisori al plasma,
console per videogiochi, computer portatili, PDA, MP3, MP4, razzi
spaziali, missili, giocattoli elettronici, macchine fotografiche e molto
altro ancora. Nelle miniere africane i metodi di lavoro sono simili a
quello dei vecchi cercatori d’oro del West americano. Un buon
lavoratore può produrre un chilo di Coltan al giorno. Il guadagno di
un lavoratore medio congolese è di 10 dollari al mese, mentre un
lavoratore del Coltan guadagna da 10 a 50 dollari alla settimana. Il
boom tecnologico ha fatto schizzare il prezzo del Coltan a 500
dollari al chilo. Aziende come Bayer, Nokia e Sony se lo
contendono. I minatori sono spesso giovani agricoltori e allevatori
che lasciano i loro campi. Sfollati e prigionieri di guerra. Migliaia di
bambini, i cui corpi possono muoversi più agevolmente sottoterra
nelle anguste gallerie delle miniere. Sempre sorvegliati dai soldati.
Le conseguenze di questa situazione sono che boschi e campi si
trasformano in pantani, i ragazzi e le ragazze non vanno più a
scuola, si diffondono molte malattie per mancanza di acqua pulita,
cibo, turni e condizioni lavorative estenuanti. Inoltre proliferano
diversi gruppi armati che controllano le miniere. Si stima che ogni
chilo di Coltan che viene estratto costi la vita di due bambini, molti
dei quali muoiono a causa di frane. Altre gravi conseguenze sono
migliaia di spostamenti forzati, migliaia di civili fuggiti dalle loro
case, milioni di rifugiati, violazione dei diritti fondamentali di
anziani, donne e ragazze. I lavoratori del Coltan smettono di
coltivare la loro terra, lavorano dall’alba al tramonto, e dormono e
mangiano nella zona selvagge di montagna. Non sono solo gli
uomini a subire le conseguenze dell’estrazione del Coltan. Per
estrarre il Coltan del Congo si sono invasi i parchi nazionali. La
popolazione degli elefanti è scesa dell’80%. La popolazione di
gorilla è diminuita del 90%. Un rapporto delle Nazioni Unite ha
portato alla luce lo sfruttamento delle risorse naturali del Congo. Ci
sono rapporti che dimostrano che Ruanda, Uganda e Burundi sono
coinvolti nel traffico di Coltan in Congo, e utilizzano i profitti
generati dal suo prezzo elevato per finanziare e continuare le loro
guerre. Si stima che l’esercito ruandese riceve almeno 170 milioni
dollari all’anno dalla vendita di Coltan, anche se il Ruanda non ha
Coltan. Ovviamente tutti i paesi coinvolti nel conflitto negano di
avere sfruttato le risorse naturali del Congo. Aziende
multinazionali, principali produttori di computer, telefoni,
videogiochi, come Nokia, Alcatel, Apple, Nikon, Ericsson, Bayer
sono citate nel rapporto delle Nazioni Unite come saccheggiatrici.
Finanziano la guerra e sostengono i governi corrotti e non hanno
nessun interesse a fermare la guerra. Hanno il consenso dei
governo. I media non ne parlano. Se la guerra si ferma non si
faranno più affari con il Coltan. A loro poco importa dei più di 5
milioni di morti che ha causato. Per porre fine a queste stragi, il
Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 29 novembre 2010, ha adottato
la risoluzione 1952 che richiama gli Stati membri a mettere in atto
misure di diligenza ragionevole per conoscere l’origine dei minerali
e assicurarsi che il ricavato di quelli importati non vada a beneficio
di uomini armati, compresi i militari dell’esercito congolese. Nel
2011 gli Stati Uniti hanno promulgato una normativa che vieta alle
imprese americane di importare o utilizzare minerali provenienti
dalle zone di guerra in Congo che non abbiano garanzia e
certificazione di provenienza. La conseguenza è che diverse
aziende americane hanno preferito spostarsi verso altre zone
piuttosto che certificare l’utilizzo di minerali “conflictfree”. Nel 2014
anche l’Unione Europea ha proposto un regolamento per il
commercio responsabile di minerali provenienti da zone di conflitto
ma la proposta di legge è su base volontaria ed è rivolta solo agli
importatori. Diversi attori della società civile europea, coordinati da
EurAC, la rete europea di ong e altri enti che lavorano in Africa
Centrale, stanno facendo pressione a livello istituzionale per una
modifica della legge. A Maggio 2015 il Parlamento Europeo ha
chiesto a tutte le aziende europee, che producono o importano
componenti e prodotti finiti contenenti i minerali contemplati nel
regolamento, un controllo obbligatorio sul proprio sistema di
approvvigionamento assicurandosi che non si stiano alimentando
conflitti e siano rispettati i diritti umani. Dopo mesi di negoziati, le
tre istituzioni europee Commissione, Consiglio e Parlamento
hanno raggiunto nel giugno 2016 un accordo per rendere
obbligatoria la tracciabilità dei minerali importati nello spazio
UE. Ma se le istituzioni europee hanno fatto la loro pur minima
parte, sappiamo bene che l'Europa non è l'unico continente a
depredare l'Africa bensì uno dei meno invasivi dopo l'America con
gli Usa e l'Asia con la Cina e il Giappone a fare la parte del leone.
Spesso le stesse grandi multinazionali che producono cellulari e
materiale elettronico, sono le stesse che finanziano alcune ONG e
associazioni che operano sul territorio africano e delle quali
comprano soprattutto la complicità. Allora viene da chiedersi cosa
si potrebbe fare concretamente. Innanzitutto denunciare questa
realtà, informandoci e informando meglio la nostra comunità con
quello che già sappiamo. Assumendo comportamenti etici. In fondo
abbiamo davvero bisogno di un telefono nuovo ogni anno? Vale la
pena finanziare con i nostri consumi la politica dell’usa e getta?
Potremmo condividere i telefoni che non usiamo magari lasciandoli
nei punti di riciclaggio, o se non esistono nella nostra comunità,
creandoli. Ma spesso il demone della vanità e della civetteria ci
mettono la coda, e allora ogni Natale la stessa patetica fila davanti
ai negozi per acquistare l'ultimo modello di smartphone. La "logica"
del consumismo che ci domina è talmente suadente e
dannatamente perversa che perfino i minatori africani sottopagati e
sfruttati comunicano con gli stessi smartphone che gli stanno
scavando la fossa. Non ci meravigliamo se migliaia di disperati
africani sbarcano in Europa a cercare la sopravvivenza negata in
patria e forse non solo quella.
Fonti:
www.focus.com
www.un.org
CINZIA PALMACCI
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