Il ‘caro’ armato
Il Nuovo Modello di Difesa – la cui elaborazione inizia nel 1991, subito dopo il crollo del Muro di Berlino –, ovvero la riorganizzazione delle Forze Armate in modo che non si limitino alla difesa dei confini ma tutelino gli “interessi nazionali” soprattutto dal punto di vista “economico, sociale, finanziario e, più in generale, geopolitico”, è il punto di partenza per comprendere il progressivo aumento della spesa militare dell’Italia negli ultimi anni: investimenti per nuovi armamenti ed esercito di soli professionisti, affinché le truppe siano volontarie, ben armate e pronte ad intervenire nelle molteplici missioni all’estero, senza le lungaggini e le complicazioni che accompagnavano l’elefantiaco esercito di leva. “Il vantaggio del ricorso ai volontari – spiegava infatti nel 1997 il generale Carlo Jean alla Commissione Difesa della Camera –, da un punto di vista non tanto tecnico quanto politico, è rappresentato dal fatto che il volontario (...), essendo reclutato negli strati più bassi della popolazione, è expendable. Se, per esempio, muore il figlio di un pastore calabrese, non ci saranno movimenti di piazza: è sufficiente dare alla famiglia 100 milioni (di lire, ndr) per chiudere l’incidente”.
Ma uno strumento militare di questo tipo è pericoloso e ambiguo: le Forze Armate non sono più mezzo di difesa in senso stretto, ma vengono proiettate “sempre più verso l’esterno in missioni che spesso viaggiano sul filo del rasoio rispetto alla propria costituzionalità”, perché più che alla politica estera del Paese rispondono a quella economica. E ovviamente costoso: nel biennio 2007-2008, con Prodi e il centro-sinistra al governo, le spese militari sono aumentate del 22%, toccando quota 23 miliardi di euro annui; sono poi leggermente diminuite con il primo anno del governo Berlusconi, che però con la Finanziaria 2010, approvata due mesi fa, ha riportato la spesa a 23 miliardi e 500 milioni di euro e ha dato il via libera al mega-progetto di acquisto di 131 cacciabombardieri F-35 al costo di 14 miliardi di euro. E proprio nelle pieghe sempre più oscure dei bilanci della Difesa, perché volutamente occultati e resi poco trasparenti, e nei meandri della struttura e dell’organizzazione militare, si addentra il libro di Massimo Paolicelli e Francesco Vignarca, impegnati nella Rete italiana per il Disarmo, Il caro armato (Altreconomia edizioni, 2009, pp. 132, euro 12), che indaga con rigorosa e documentata precisione “spese, affari e sprechi delle Forze armate italiane”.
Una “casta” in cui i comandanti, cioè gli ufficiali (fra cui 599 generali pagati mediamente 8mila euro al mese), sono più dei comandati, e dove i capi di Stato maggiore – come Guido Venturoni, Guido Bellini, Umberto Guarnieri, Mario Arpino, Marcello De Donno, Sandro Ferracuti, Carlo Alberto Zignani, Giulio Fraticelli e Nazzareno Cardinali – appena dismettono la divisa, forse per essere ricompensati per le loro “attenzioni”, vanno a sedere nei Consigli di amministrazione delle industrie armiere che si aggiudicano commesse milionarie per sistemi d’arma costosissimi, inutili, contrari all’articolo 11 della nostra Costituzione – “L’Italia ripudia la guerra” –, dal momento che si configurano come mezzi di aggressione, e spesso lasciati ad arrugginire negli hangar poiché mancano i soldi per il carburante e la manutenzione ordinaria. Sprechi, con evidente dolo, come le 3.600 magliette blu per operai e gli 8mila guanti trovati nei magazzini del ministero della Difesa e mai utilizzati perché le taglie erano da bambino; oppure come i 3 milioni e 500mila euro spesi per le pulizie di 44 appartamenti, alcuni di 600 metri quadri, assegnati ad ammiragli e generali. Un bilancio complessivo da grande potenza, che colloca l’Italia all’ottavo posto nel mondo, ma Forze Armate che “sono sempre più alla soglia di una irreversibile inefficienza”, come ammise l’ex ministro della Difesa del governo Prodi Arturo Parisi. Segno evidente che, concludono Paolicelli e Vignarca al termine della loro indagine, “si spende male e si spreca molto”.
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