Non vogliamo pagare le vostre guerre

Quando lo Stato finanzia il massacro e chiama "complicati" i bambini morti
13 dicembre 2025
Jacopo Tallarico

LASCIATECI IN PACE! Non vogliamo pagare le vostre guerre.

C'è una parola che la nostra classe politica ama ripetere quando vuole evitare di prendere posizione: "complesso". Gaza è complessa. Il Medio Oriente è complesso. La questione palestinese è complessa.

Sapete cosa non è complesso? Leggere i dati.

Dall'ottobre 2023, secondo il Ministero della Salute di Gaza, le vittime palestinesi hanno superato le 70,654 persone. Di queste, oltre 20,000 sono bambini. Bambini che avevano un nome, un volto, una madre che li aspettava a casa. Bambini che ora giacciono sotto le macerie di quello che un tempo era casa loro, mentre i nostri politici ci spiegano quanto sia "complessa" la situazione.

L'UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East) documenta 772 attacchi contro strutture sanitarie dall’inizio del conflitto e la distruzione di 526 scuole. Ma forse anche contare gli ospedali bombardati è troppo "complesso" per chi è abituato a ragionare solo in termini di sondaggi elettorali.

Il business della morte ha un nome: Leonardo S.p.A.

Parliamo di soldi, visto che è l'unica lingua che il potere capisce davvero.

Secondo il rapporto "Don't Bank on the Bomb" del 2024, UniCredit e Intesa Sanpaolo – due colossi della finanza italiana – hanno investito complessivamente oltre 2 miliardi di euro in aziende che producono armamenti destinati a Israele. In testa c'è Leonardo S.p.A., il principale produttore italiano di armi, che vanta accordi di cooperazione militare con Israele dal valore strategico non precisato (perché ovviamente la trasparenza è un optional quando si tratta di vendere morte).

La Relazione governativa sulla Legge 185/90 – quella che dovrebbe vietare l'esportazione di armi verso Paesi in conflitto – ci informa candidamente che nel 2023 l'Italia ha autorizzato esportazioni di materiale bellico verso Israele per 9,3 milioni di euro. Pochi? Forse. Ma sono solo quelli dichiarati. Gli accordi di cooperazione militare bilaterale, infatti, sfuggono al monitoraggio pubblico.

Traduzione: non sappiamo quante armi italiane stanno massacrando civili a Gaza, ma sappiamo che ci sono.

E il nostro governo? Tace. Anzi no, peggio: stringe la mano ai responsabili, partecipa ai vertici NATO, autorizza transiti di armamenti e poi ci viene a raccontare che "l'Italia è dalla parte della pace". Quale pace? Quella delle fosse comuni?

La Legge 185/90: quella bellissima legge che non si applica mai

Vale la pena ricordarlo: l'Italia ha una delle legislazioni più avanzate al mondo sul controllo delle esportazioni di armamenti. La Legge 185 del 1990 vieta espressamente la vendita di armi verso Paesi in stato di conflitto armato o che violano i diritti umani.

Eppure, mentre scrivo, le armi italiane continuano a fluire verso Israele. Come è possibile? Semplice: la legge prevede eccezioni per accordi "di cooperazione internazionale" e "programmi congiunti". Eccezioni che, guarda caso, diventano la regola.

Il risultato? Una legislazione che sulla carta ci fa sembrare angeli della pace, ma nei fatti ci rende complici di un massacro. Un capolavoro di ipocrisia istituzionale.

"Indottrinati" noi? Loro a noi?

Quando noi studenti osiamo dire queste cose – quando occupiamo le università, quando manifestiamo, quando chiediamo che i nostri atenei rompano gli accordi con aziende belliche – veniamo accusati di essere "indottrinati".

Loro. A. Noi.

Gli stessi che hanno trasformato l'università in un diplomificio dove si studia per "inserirsi nel mercato del lavoro" invece che per sviluppare pensiero critico. Gli stessi che vogliono farci credere che Leonardo S.p.A. che sponsorizza convegni universitari è "collaborazione scientifica" e non marketing della morte. Gli stessi che quando parliamo di diritti umani ci guardano come se fossimo noi gli estremisti.

L'università dovrebbe essere il tempio del dubbio, del dissenso, della ricerca della verità. Invece vogliono trasformarla in una fabbrica di consenso, dove si impara a chinare la testa e a non fare domande scomode.

La repressione del dissenso: il DASPO della democrazia

E quando protestiamo? Manganelli, idranti, denunce.

L'Osservatorio Repressione ha conteggiato decine di DASPO urbani emessi contro attivisti nel 2024. A Pisa, per esempio, l'occupazione dell'università ha portato a numerose denunce per "interruzione di pubblico servizio". Come se l'università fosse un supermercato e non il luogo dove si forma il pensiero critico di una nazione.

Il Viminale ha emanato direttive che limitano sempre di più i luoghi e i tempi delle manifestazioni. Ci dicono quando, dove e come possiamo dissentire. Praticamente ci stanno chiedendo di prenotare la rivoluzione con tre settimane di anticipo e compilare il modulo in triplice copia.

L'articolo 21 della Costituzione – quello che garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero – sta diventando carta straccia. Ma tranquilli, ci dicono che "è per la nostra sicurezza". La sicurezza di chi? Dei palazzi del potere che tremano ogni volta che la piazza si riempie?

Quello che vogliamo (e che otterremo)

Le nostre richieste sono chiare, concrete, innegabili:

  1. Embargo totale sulle armi verso tutti i Paesi coinvolti nel conflitto israelo-palestinese
  2. Applicazione immediata della Legge 185/90 senza eccezioni di comodo
  3. Sospensione degli accordi di cooperazione militare con Israele
  4. Trasparenza totale sui flussi di armamenti: vogliamo sapere chi vende cosa a chi
  5. Disinvestimento delle università e delle banche pubbliche da aziende belliche

Non sono richieste impossibili. Sono richieste di legalità. È il governo che sta violando le proprie leggi, non noi.

Gli altri massacri dimenticati

E visto che siamo qui, ricordiamoci anche degli altri. Perché l'ipocrisia occidentale non si limita a Gaza.

In Sudan, una guerra civile ha causato centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati. Ma il Sudan ha l’oro, quindi restiamo in silenzio.

In Congo, sei milioni di morti dal 1996. Sei milioni. Il più grande massacro dalla Seconda Guerra Mondiale, e nessuno ne parla. Il Congo ha il coltan per i nostri smartphone, quindi meglio non disturbare il business.

In Myanmar, i Rohingya vengono sterminati mentre il mondo guarda altrove.

In Libia, dove abbiamo "esportato la democrazia" lasciando un Paese distrutto, lager a cielo aperto e milizie che si spartiscono il territorio.

E poi c'è il Venezuela, che rischia di essere schiacciato dall'ennesimo tentativo di ingerenza imperialista americana. Ma tanto Maduro è un "dittatore", quindi va bene tutto. Come sempre, quando vogliono appropriarsi di petrolio o risorse, i diritti umani diventano improvvisamente molto fluidi.

La rabbia è carburante, l'umanità è la bussola

Ci dicono di calmarci. Di essere "costruttivi". Di proporre "alternative realistiche".

Ma sapete qual è l'alternativa realistica? Smettere di vendere armi a chi massacra civili. Non mi sembra un'utopia: mi sembra il minimo sindacale di decenza umana.

La rabbia non è un problema, è la risposta sana all'insanità del mondo. È il sintomo che la nostra umanità è ancora viva, che non ci siamo assuefatti all'orrore, che rifiutiamo di scrollare le immagini di bambini morti come se fossero pubblicità tra un post e l'altro.

L'umanità è la nostra bussola. E finché avremo entrambe – rabbia e umanità – non ci arrenderemo.

Non vogliamo pagare le vostre guerre. Non con le nostre tasse, non con le nostre banche, non con il nostro silenzio.

E se pensate di fermarci con denunce, DASPO e manganelli, sappiate che ogni repressione crea dieci nuovi attivisti. Perché questa generazione ha capito una cosa semplice: o cambiamo il mondo, o il mondo ci distruggerà tutti.

La scelta è vostra. La nostra l'abbiamo già fatta.

Note: Intervento alla manifestazione del 13 Dicembre a Lecce "LASCIATECI IN PACE! Non vogliamo pagare le vostre guerre"
https://www.peacelink.it/calendario/event.php?id=12746

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