Rapporto sulla politica estera e di difesa dell'Italia (2001-2005)

Governo Berlusconi (2001 – 2005) - Prime note

a cura della Tavola della pace

Il rapporto sulla politica estera e di difesa del governo Berlusconi è stato consegnato da Flavio Lotti (coordinatore nazionale della Tavola della Pace) durante la sessione introduttiva (8 settembre 2005) della 6a assemblea dell'Onu dei popoli a Romani Prodi.

Il rapporto vuole costituire un monito affinchè la politica estera del prossimo governo cambi radicalmente rotta rispetto a quello attuale.
15 settembre 2005
Tonio Dell’Olio (Tavola della Pace)
Fonte: Tavola della Pace

Indice del rapporto:

- EUROPA

- MEDIO ORIENTE

- ONU

- GUERRA IN AFGHANISTAN E IRAQ

- Legge delega al governo per la revisione dei codici penali militari di pace e di guerra

- LEGGE 185 E COMMERCIO DELLE ARMI

- MINE

- INCREMENTO DELLE SPESE MILITARI

- LE BASI MILITARI

- DISARMO NUCLEARE

- OBIEZIONE DI COSCIENZA

- POLITICHE MIGRATORIE: LEGGE BOSSI-FINI E DIRITTO D’ASILO

- COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

- LA CANCELLAZIONE DEL DEBITO

- COMMERCIO INTERNAZIONALE

- AMBIENTE - ASPETTI INTERNAZIONALI

- LOTTA ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA - ASPETTI INTERNAZIONALI

RAPPORTO SULLA POLITICA ESTERA
E DI DIFESA DELL’ITALIA
Governo Berlusconi (2001 – 2005)
Prime note

a cura della Tavola della pace

L’escalation di missioni militari seguito all’11 settembre 2001 ha contribuito a definire la vera linea guida della politica estera del governo Berlusconi: quell’azione di fiancheggiamento della Amministrazione Bush, che lascerà sul terreno, oltre che tanti morti nelle zone di guerra, anche alcune vittime eccellenti: la tradizionale politica italiana nel Mediterraneo, i rapporti con i Paesi Arabi, l’appoggio al popolo palestinese, la scelta europeista di uno dei fondatori dell’Unione, infine, il multilateralismo in sede di organismi internazionali.
Segno, in ultima analisi, della scarsa attenzione per la politica estera in sé e per le relazioni internazionali, difficilmente documentabile con fatti precisi quanto ricostruibile attraverso le linee seguite dal governo nei diversi scenari internazionali.

EUROPA

Il Governo Berlusconi, come già avvenuto nella precedente breve esperienza del 1994, ha assunto posizioni di netta rottura rispetto alla tradizionale politica europeista dell’Italia. Molte decisioni e molti episodi testimoniano questa inversione di rotta.
L’abbandono del profilo europeista si è palesato fina di primi mesi del governo Berlusconi, con la gestione quanto meno “disattenta” del passaggio all’Euro e il ripetutamente dichiarato euroscetticismo di diversi membri dell’esecutivo, che hanno portato alle dimissioni del ministro degli esteri Renato Ruggiero e al conseguente “interim” degli Esteri al Presidente del consiglio, per la bellezza di 11 mesi.
La scarsa sensibilità europeista si riscontra anche nell’applicazione delle politiche dell’UE: molte direttive non attuate, il più alto numero di procedimenti d’infrazione da parte di Organismi comunitari, l’applicazione della “finanza creativa” alla stesura del bilancio dello Stato, per aggirare le condizioni di Maastricht, l’opposizione ai programmi europei di lotta alla criminalità (dal mandato d’arresto europeo all’istituzione di uffici come l’Olaf ed Eurojust), fino all’approvazione di leggi (come sul falso in bilancio) in netta controten-denza rispetto agli indirizzi comunitari. Abbandonato il ruolo di sostenitore dell’integrazione europea, l’esecutivo scarica a più riprese sulle conseguenze dell’allargamento la colpa della crisi economica interna.

In due ambiti tuttavia l’azione del Governo italiano è stata particolarmente negativa: nei lavori della Convenzione europea e nelle discussioni sulla revisione del Patto di stabilità.

La stesura della Costituzione rappresentava un’occasione straordinaria per far compiere all’Unione quel salto federale e sovranazionale senza di cui il nostro continente è condannato all’impotenza e alla marginalità. Ai tempi della CED e del Trattato Spinelli l’Italia ha saputo giocare un importante ruolo di avanguardia. Questa volta invece il nostro paese ha recitato una parte secondaria ed anzi ha spesso osteggiato le proposte più ambiziose emerse in seno alla Convenzione.
In particolare, a parte qualche formale e generica dichiarazione, il Governo italiano si è ben guardato dal condurre una battaglia contro il diritto di veto in settori cruciali come la politica estera ed il bilancio. Inoltre si è battuto con decisione contro l’inserimento del diritto alla pace e del ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali nell’articolo 1 della Costituzione europea. Non a caso, negli stessi mesi il Presidente del Consiglio ed i suoi ministri si accodavano nella vicenda irachena alle decisioni dell’Amministrazione americana, arrivando a vantare come un successo la rottura della solidarietà europea.
Durante il semestre di presidenza italiana, il nostro Governo ha tentato ancora una volta di annacquare le parti più innovative della Costituzione, finendo per accettare tutti i paletti posti dalla Gran Bretagna contro un rafforzamento delle istituzioni europee.

Non meno grave risulta il comportamento dell’Esecutivo nella revisione del Patto di stabilità. Dopo aver appoggiato durante il semestre di presidenza le pretese di Francia e Germania contro la lettera e lo spirito dei Trattati, l’Italia si è fatta capofila dei paesi che volevano allentare gli impegni liberamente assunti prima dell’adozione dell’euro. Molte dichiarazioni del premier e di importanti ministri hanno anzi accreditato l’idea che tutti i guai dell’economia italiana derivino dall’adozione della moneta unica, trascurando le proprie notevoli colpe nel passaggio dalla lira all’euro. Un partito di governo, la Lega Nord, è giunta addirittura a chiedere il ritorno alla vecchia divisa nazionale. Il risultato è evidente: insofferente e recalcitrante verso i vincoli europei, il Governo Berlusconi ha gettato il paese in una crisi che da economica e finanziaria si sta ora trasformando anche in morale e politica.

MEDIO ORIENTE

Gli ultimi sviluppi della situazione in Israele e Palestina introduce elementi di prospettiva positiva, pur con molti problemi aperti: la reale gestione del ritiro unilaterale da Gaza, gli effetti prodotti nell'opinione pubblica israeliana dalle immagini dei coloni e la delicata prospettiva di ripresa del processo di pace, a cominciare dall'attuazione della road map garantita dal Quartetto (Onu, Usa, Ue, Russia) con l'obiettivo della fine dell'occupazione dei Territori palestinesi e la costruzione del nuovo Stato palestinese.

Ciononostante, con il governo Berlusconi l'Italia è stata, sia nell'ambito dell'Unione Europea, sia in quello delle relazioni bilaterali, o assente o in una posizione completamente sbilanciata, in aperta discontinuità col passato, che vedeva nella posizione italiana un punto di garanzia ed equilibrio per entrambe le parti, se non con particolare attenzione alla causa palestinese. Il fatto che non si tratti, e non si sia mai trattato, di un conflitto tra pari - per la grande disparità delle forze, militari e non - giustificava questo, sia pur lieve, squilibrio italiano.
Oggi la posizione italiana è completamente appiattita su quella Usa, con il duplice riflesso di essere inaffidabile per entrambe le parti in causa e isolata nell'ambito dell'Unione Europea, e quindi ininfluente sulle scelte di quest'ultima. E' il caso di ricordare che è l'Ue che finanzia il funzionamento dell'Autorità nazionale palestinese e che ha in mano un potente strumento, l'Accordo di associazione con Israele nel quadro del partenariato euromediterraneo, che permette tra l'altro di pretendere il rispetto dei diritti umani. Lo scarso uso di questi ed altri strumenti da parte dell'UE deriva anche dal ruolo svolto dall'Italia.
La condizione di povertà diffusa in cui vivono i palestinesi (ormai il 70% vive sotto la cosiddetta "soglia di povertà", ossia con meno di due dollari al giorno, in buona parte provenienti da aiuti internazionali) non ha visto alcuna iniziativa del governo italiano, che pomposamente aveva annunciato un "piano Marshall" per la popolazione palestinese, che non solo non ha mai visto la luce ma di cui non sono mai stati chiari i contenuti effettivi. Nel contempo, sono stati drasticamente e quasi totalmente tagliati i fondi alle organizzazioni non governative italiane, minandone la pluriennale e costruttiva presenza nei Territori occupati.

Un'ulteriore aggravante dell'esperienza del governo Berlusconi nel cruciale scenario mediorientale è che la posizione italiana è stata pesantemente condizionata da ragioni di politica interna: come leggere infatti diversamente la visita di Fini in Israele, con tutto il suo corredo di immagini-simbolo? Per non parlare dell'effetto sulla rimozione della pregiudiziale antifascista su cui il governo stesso era nato.

Infine, è stato del tutto abbandonato il lavoro di tessitura delle relazioni tra le due parti, compito principale di qualunque paese voglia giocare un ruolo in quell'area. Il terrorismo è stato usato come alibi e giustificazione dietro cui celare il vuoto di qualunque politica reale, e in particolare l'assenza di iniziativa nel contesto regionale mediorientale, sia per favorire la soluzione del conflitto israelo-palestinese, sia per mantenere relazioni credibili con gli altri paesi dell'area. La questione palestinese è emblematica e inscindibile dall'equilibrio regionale mediorientale e mediterraneo: in questo senso non si può parlare di sviluppo delle relazioni nel Mediterraneo - fondamentali per l'Italia - senza affrontare questo punto cruciale.

ONU

Il fiancheggiamento della politica di Bush, oltre a colpire la comune politica estera europea e indebolire la stessa forza di contrattazione dell’Italia, ha avuto come effetto di allontanare il nostro Paese dalla tradizionale adesione al multilateralismo. Una conseguenza pesante giunta proprio nel momento del confronto per la riforma delle Nazioni Unite e in particolare del Consiglio di sicurezza. L’Italia, insieme alla UE, è stata nei fatti lasciata fuori dalle trattative, nel momento in cui, il 6 luglio scorso, Germania, Brasile, Giappone e India (il cosiddetto G4) hanno depositato a New York un progetto di risoluzione-quadro che allarga il Consiglio di sicurezza a sei nuovi seggi permanenti, privi del diritto di veto, e a quattro seggi non permanenti. Gli altri due seggi permanenti sarebbero riservati a nazioni africane. La Germania, partecipante al G4 insieme a Brasile, Giappone e India, sta portando avanti una pesante campagna di pressione internazionale per essere ammessa come nuovo membro permanente.
L'Italia oggi corre il serio rischio di subire una riforma dell'Onu che la escluda dal Consiglio di sicurezza.
Se passasse questa riforma, infatti, l'Italia perderebbe la possibilità di sedersi se non a intervalli di tempo molto lunghi, al Consiglio, a beneficio di altri paesi europei.
Il nostro Paese, nelle ultime settimane, aveva puntato il dito contro Germania, Giappone, India e Brasile, che avrebbero messo in campo anche mezzi illeciti per raggiungere il proprio scopo. Mezzi illeciti come il ricatto, con vere e proprie minacce a danni Stati del terzo mondo. 
Ovviamente, Berlino e Tokyo hanno smentito. Non solo, la stampa tedesca è partita al contrattacco ed ha assicurato che, in realtà, è proprio l'Italia ad usare l'arma del ricatto con i paesi più deboli. Il Financial Times Deutschland assicura infatti che il governo italiano ha minacciato di bloccare aiuti per 220 milioni di euro all'Albania se Tirana appoggerà la proposta di Germania, Giappone, India e Brasile. Notizia che la Farnesina ha smentito.

Inoltre, Roma ha perso credibilità in sede Onu per altre due questioni: il mancato rispetto degli impegni presi per gli Obiettivi di sviluppo del Millennio (MDG), sia per la disattenzione verso le violazioni dei diritti umani nel mondo.

GUERRA IN AFGHANISTAN E IRAQ

Il Governo Berlusconi ha colto al volo l’eredità delle missioni militari di “peacekeeping”, sperimentate in precedenza nei Balcani, adattandola alla mutata realtà sancita dalla politica di unilateralismo degli USA.
La decisione di partecipare, sull'onda politica ed emotiva della tragedia dell'11 settembre, alle operazioni militari di Enduring Freedom e poi al contingente ISAF in Afghanistan ha aperto la strada ad un' interpretazione elastica della Carta delle Nazioni Unite, e del Trattato NATO chiamati in causa per giustificare l'attacco sotto la stregua di legittima difesa da parte degli Stati Uniti. Il coinvolgimento italiano nella guerra in Afghanistan, oggi di gran lunga di maggior rilevanza, considerando che l'Italia ha assunto il comando della missione ISAF, ed anche la gestione di una Provincial Reconstruction Team ad Herat, ha creato le premesse per l'elaborazione della teoria della "guerra non dichiarata" , ma "guerra guerreggiata" che nella mente dei responsabili del governo Berlusconi non e' contemplata dall'articolo 11 della Costituzione e pertanto non ne rappresenta la violazione. Alcune delle preoccupazioni relative agli aspetti giuridico-legali ed alle responsabilita' italiane nel conflitto afghano, riguardano poi il rispetto della Convenzione di Ginevra per il trattamento dei prigionieri di guerra, questione di gran rilevanza per cio' che concerne i casi di tortura e maltrattamenti, se non di esecuzioni extagiudiziali avvenuti nelle carceri afghane su prigionieri di guerra possibilmente consegnati dalle truppe italiane alle autorita' americane. In tal senso va anche ricordata l'eccessiva cautela mostrata dal governo Berlusconi circa il caso di Guantanamo, e le violazioni del diritto internazionale compiute in quel campo di detenzione e nelle carceri irakene.
Più grave l’adesione alla “good willings’ coalition” contro l’Iraq: conseguenze devastanti per l’Italia e l’Europa, che si è trovata spaccata e nell’incapacità di interloquire con pari dignità con gli USA. La stessa decisione di inviare il contingente militare in missione “di pace”, per ‘sedersi al tavolo dei vincitori’ dimostrò la scarsa comprensione della reale situazione del paese, che non sarebbe stato tanto facilmente pacificato, quanto richiedeva la cupidigia dei petrolieri e degli speculatori di casa nostra.
L’intervento in Iraq ha inoltre sancito una spaccatura tra paese reale e governo.
Si è ignorata la volontà della stragrande maggioranza degli italiani, espressisi in tutte le forme possibili contro la guerra in Iraq e contro la presenza di un contingente italiano nel paese. Si ricordi il successo oltre ogni previsione della campagna “Bandiere di pace”: il governo è arrivato persino a diramare indicazioni” alle Prefetture in data 04/2/2003, per impedire l’esposizione della bandiera della pace sugli edifici pubblici, citando gli articoli 292, 323, 327 del Codice Penale, ("vilipendio della bandiera dello Stato" e "abuso d'ufficio"). E' apparso evidente che fin dal primo momento Roma e Washington avevano concordato una distribuzione dei compiti nell'affaire irakeno, con l'Italia a svolgere un ruolo di sostegno politico alla prima fase dell'invasione irakena, e un ruolo di appoggio militare e logistico in quella che avrebbe dovuto essere la seconda fase, nelle parole dell'allora Ministro degli Esteri Frattini, di scorta ai convogli umanitari. La realta' pero' si e' dimostrata del tutto diversa, come hanno dimostrato l'attentato di Nassirya e la cosiddetta battaglia dei ponti, nonche' i conflitti a fuoco che hanno visto la morte del militare Matteo Vanzan ed una conseguente "escalation" nella tipologia della presenza militare italiana nel paese. Sulla battaglia dei ponti le versioni fornite dal governo hanno fatto poca luce sulle vittime civili irakene, nonche' sul ruolo svolto dall'allora governatrice di Nassirya Barbara Contini oggi inviata speciale di Palazzo Chigi per il Darfur, regione che e' oggi al centro di un nuovo impegno militare del nostro paese ed in parte della NATO.

Legge delega al governo per la revisione dei codici penali militari di pace e di guerra

Questo disegno di legge, che pure è stato fermato per ora lo scorso maggio alla Camera, con l’approvazione di un emendamento dell’opposizione che ne limita fortemente gli effetti, punta ad attivare una vera e propria censura preventiva e di "normalizzare" la guerra attraverso un'ambigua legificazione sul coinvolgimento delle nostre forze militari in "missioni di pace" durante conflitti armati.
La legge segue due linee guida. La prima è l’esigenza di ridurre l’area di controllo di legalità affidata alla giurisdizione ordinaria, incrementando la competenza della giurisdizione militare attraverso la “militarizzazione” dei reati comuni commessi dai militari. La seconda è l’esigenza di abbassare la soglia fra pace e guerra, riesumando le leggi di guerra, rendendole pienamente utilizzabili ed estendendone l’applicazione.
la riforma accentuerebbe l’azione repressiva nei confronti del personale militare, perché reati civili e moltissime infrazioni disciplinari già previste dai regolamenti sarebbero trasformati in gravi reati penali e sottoposti a tribunali speciali, assoggettati all’ordinamento militare e non, come prevede la Costituzione, da un potere autonomo rispetto all’esecutivo.
Per il personale militare verrebbero meno anche alcune forme di tutela sul piano giuridico. Dal dopoguerra a oggi moltissimi articoli del codice penale militare sono stati dichiarati incostituzionali a seguito di ricorsi collettivi del personale militare. Con la nuova legge, qualsiasi forma di dissenso diventerebbe un reato.
La riforma non riguarda solo i militari ma chiunque abbia in qualche modo a che fare con le forze armate. Il codice militare di guerra verrebbe applicato anche in situazione di pace, svincolando il tempo di guerra (stabilito dal governo) dallo stato di guerra (ratificato dal Parlamento). E poi vi sarebbe una totale limitazione della libertà di stampa durante le missioni di peace-keeping”. Un giornalista che venisse a conoscenza di notizie che riguardano un’operazione di pace, infatti, non le potrebbe pubblicare perché sarebbe sottoposto al controllo militare in quella zona, e potrebbe essere condannato da un tribunale militare. Le uniche notizie dal fronte sarebbero quindi le veline dei comandi di zona, mentre gli unici giornalisti in grado di fare il proprio mestiere sarebbero quelli embedded con le autorità militari.
Gli effetti di queste norme si farebbero sentire su molte altre categorie professionali: dai dipendenti civili della Difesa, fino agli operai di un’officina dove si riparano i mezzi destinati all’Iraq, o ai membri di organizzazioni non governative presenti nelle zone in cui siano impegnati contingenti italiani. Chiunque decida di diffondere “verità scomode”, sarebbe tenuto al segreto.
La riforma infine influirebbe sui civili non solo nelle zone di guerra ma anche sul nostro territorio, limitando il diritto di appartenere ad associazioni di cui facessero parte anche militari. Sarebbe il caso, ad esempio, di un’associazione di genitori contro il nonnismo o di un’associazione che si batte per il risarcimento dei danni provocati dall’uranio impoverito. Entrambe sarebbero passibili del giudizio di un tribunale militare direttamente dipendente dal ministero della Difesa.

LEGGE 185 E COMMERCIO DELLE ARMI

Per quanto riguarda il tema degli armamenti le direttrici di analisi del comportamento di un governo sono due: la legislazione che viene adottata o promossa e l’impostazione (sia normativa che strutturale) fornita all’industria bellica nazionale. Ciò risulta particolarmente vero per quanto riguarda l’Italia dove il Governo è azionista di maggioranza della holding di riferimento del settore.

All’inizio dell’attuale legislatura il tema principale ad aver avuto risalto, e che ha visto mobilitazione molto ampia anche da parte del mondo dell’associazionismo, è stato quello della modifica alla legge 185/90, proposta e poi ottenuta dal governo. La 185/90 è la legislazione che nel nostro paese regolamenta la produzione e l’export di sistemi d’arma.

Tutto prende l’avvio da un’approvazione in Commissioni riunite Esteri e Difesa il disegno di legge n.1927 rivolto a facilitare le attività dell’industria europea per la difesa, con diretti ed importanti emendamenti alla legge n. 185/90 sulla trasparenza e il controllo del commercio di armi. Il testo proposto dal Governo (tra i relatori alla camera l’on. Previti e l’avallo di molti ministri ed esponenti di spicco della maggioranza – si pensi all’on. Selva) ricalca nelle linee principali un similare provvedimento già ipotizzato durante il governo D’Alema. L’intervento legislativo viene inserito nell’ambito della ratifica dell’accordo Quadro di Farnborough fra Italia, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna e Svezia atto a razionalizzare l’industria europea della difesa (accordo sottoscritto dal Ministro Mattarella)
Nonostante una grossa pressione della società civile il Governo (ed anche alcune sue parti inizialmente sensibili alle sollecitazioni della campagna “Contro i mercanti di armi!”) procede dritto per la sua strada non concedendo alcuna variazione di rilievo.

La “Campagna contro i mercanti di armi in difesa della legge 185” promossa da più di 50 organizzazioni della società civile italiana, è stata lanciata nel gennaio del 2002 in opposizione alle modifiche apportate alla legge 185/90. Nel 2002/2003 la Campagna Italiana ha consegnato al Parlamento italiano più di 150.000 firme alla petizione proposta per bloccare il ddl, organizzato riunioni, conferenze, sit-in ed azioni di mobilitazione diffuse su tutto il territorio.
La Campagna si è poi trasformata in una Rete stabile di controllo sui temi del commercio di armi e del disarmo (www.disarmo.org), e ciò costituisce uno dei suoi frutti migliori, poiché con questo strumento è garantito un controllo annuale dell’export italiano anche in base ai dati della 185.

Non è un caso infatti che nei due anni susseguenti alla modifica della legge l’export italiano (sia in autorizzazioni che in commesse concluse) sia cresciuto enormemente, con un incremento di oltre il 60% in due anni. Senza dimenticare che molte delle armi esportate finiscono in paesi sicuramente in stato di conflitto e dalle grosse problematiche per quanto riguarda i diritti umani e la situazione delle popolazioni (Grecia, Malaysia, Cina, Arabia Saudita, Pakistan, Turchia…) – In allegato le schede di analisi

Il controllo del commercio delle armi, anche in relazione ai comportamenti dei Governi, non può circoscriversi solamente ad un ambito legislativo e normativo. In esso incidono pesantemente anche scelte di natura industriale ed economica, con evidente dipendenza dalla politica economica generale di un paese. Ciò avviene in misura ancora maggiore quando l’esecutivo è anche pesantemente coinvolto nelle maggiori industrie belliche (come in Italia, con il ruolo di principale azionista della holding armiera Finmeccanica).
Senza soffermarci sul chiaro corto circuito tra “controllore” e “controllato” che questa situazione può comportare, gioverà qui ricordare alcuni dei numerosi e notevoli interventi che questo Governo ha portato avanti a supporto dell’industria bellica nazionale (che sta infatti attraversando un periodo di enorme espansione e successo)

1) Sarò il vostro "commesso viaggiatore". Così ha detto il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ai dirigenti delle principali industrie armiere italiane in occasione della presentazione ufficiale del primo volo del caccia M-346. ''Mi chiedete che il vostro presidente del Consiglio divenga il vostro commesso viaggiatore - ha detto Berlusconi. Lo sto facendo: credo che attirerò l'attenzione dei miei colleghi su questo nuovo prodotto della tecnologia italiana all'avanguardia nel mondo. Si prevede di avere ordinativi cospicui. Abbasseremo i costi attraverso la quantità" (11 ottobre 2004)
2) Interrotto un monopolio cinquantennale delle aziende Usa: L'elicottero di Bush sarà italianoFinmeccanica: "Fieri della scelta". Il tutto anche a grosse pressioni dell’amico fidato di Bush, Berlusconi
3) Supporto alla leadership di Finmeccanica sia in termini personali (conferma dei vertici con lodi decise) che fattivi, si pensi ai soldi investiti dal Tesoro o dalla Difesa per permettere spregiudicate mosse nell’ambito della politica industriale della holding (acquisizione di AgustaWestland su tutte)
4) Intenzione espressa nell’ultima relazione annuale al parlamento di diminuire la qualità dei controlli sull’export per favorirne un maggiore sviluppo ed avvantaggiare quindi il settore industriale militare
5) Continuo tentativo di rilancio di poli industriali bellici (si pensi a diversi Arsenali navali) e intenzione di dismettere e separare la porzione civile delle attività di Finmeccanica per concentrarsi sul “core businness” militare (invece di favorire una riconversione al civile)

Tutto ciò comporta come già detto una grande crescita di valore e di quantità del nostro export, ed una rinnovato successo delle nostre industrie del settore nel panorama mondiale (numerose sono le commesse che società italiane o controllate stanno ottenendo in giro per il mondo da sole o in partnership con i colossi mondiali della difesa)

MINE

Nel 2004, in sede di discussione della Finanziaria, è stato preso in esame il rifinanziamento triennale del Fondo per lo Sminamento Umanitario, istituito in base alla legge 58/2001, e destinato a sostenere attività di bonifica umanitaria, educazione al rischio ed assistenza alle vittime nei Paesi colpiti dalle mine. Pur a fronte di una richiesta da parte del Ministero degli Affari Esteri di uno stanziamento di almeno 12 milioni di euro all’anno, di vivaci pressioni da parte di organizzazioni non governative e associazioni nazionali e internazionali e di una risoluzione della Commissione Affari Esteri della Camera (30/3/2004) che impegnava il governo a garantire una copertura adeguata al Fondo, la sua dotazione per il periodo 2004-2006 è stata ridotta a 2.582.000 euro all’anno: circa la metà di quanto stanziato nel triennio precedente (29 miliardi di lire). Nella finanziaria 2005 è stato operato un ulteriore taglio, portando i fondi disponibili per il 2005 a 2.415.000 euro, e per il 2006 è già stata prevista una nuova riduzione.

Dalla relazione sulla legge 85/1990 relativa alle autorizzazioni per l’importazione definitiva di armi rilasciate nel 2004, risulta l’importazione di 43.419 mine antipersona. Questo costituirebbe a prima vista una violazione del Trattato di Ottawa e della legge nazionale di messa al bando delle mine (legge 374/97). Ad accertamenti più approfonditi risulta però che le mine sarebbero state importate per consentirne la “demilitarizzazione” in uno stabilimento italiano, unico caso previsto dalla legge in cui è consentita l’importazione di mine. Malgrado numerose richieste da parte della Campagna Italiana contro le Mine ed una interrogazione parlamentare alla Camera, non è stato ancora possibile risalire al Paese d’origine delle mine. Inoltre questa importazione non è stata registrata nella relazione annuale per il 2004 trasmessa dal governo italiano alle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 7 (“misure di fiducia e trasparenza”) del Trattato di Ottawa.

L’Italia è uno degli almeno 57 Paesi al mondo che hanno nei propri arsenali munizioni cluster, definizione che comprende sia le bombe d’aereo che munizioni più piccole d’artiglieria. L’Italia ha inoltre partecipato a missioni internazionali nelle quali è stato fatto uso, da parte di forze alleate, di munizioni cluster (ad esempio in Kossovo), anche se non risulta averne mai fatto uso direttamente. Il nostro paese risulta però anche paese produttore. Non ci sono indicazioni sui quantitativi di questi stock, né sul ruolo che queste armi hanno nelle linee strategiche della difesa italiana.
Un fatto grave anche se lo stoccaggio, la produzione e la vendita di una simile arma si deve al fatto che queste armi micidiali, i cui effetti sono del tutto assimilabili a quelli delle mine antipersona (se non addirittura più gravi), sono completamente legali. Infatti, sia la legge 374/97 che mette al bando le mine antipersona sul territorio italiano che il Trattato di Ottawa1 entrato in vigore il primo marzo 1999, danno una definizione di mina basata sul progetto dell’ordigno e non sugli effetti che questo produce.
Il nostro Paese non sarebbe però solo uno dei tanti che stoccano questo tipo di munizioni. E’ anche uno dei 33 (tra i quali 11 membri dell’UE) produttori di cluster. A quanto risulta alla Campagna italiana, le ditte italiane che producono questo tipo di armi sono due: la Simmel Difesa di Colleferro (Roma) e la SNIA BDP.

Nell’ottobre 2004 à stato presentato al Senato un disegno di legge (DDL 3152) per estendere la proibizione vigente per le mine antipersona anche alle sub-munizioni delle munizioni a grappolo (cluster), che quando rimangono inesplose sul terreno hanno effetti altrettanto devastanti o addirittura peggiori. Il DDL, sottoscritto da 65 senatori appartenenti ad entrambi gli schieramenti, giace in Commissione Difesa dal gennaio 2005, senza che ne sia stata nemmeno messa in calendario la discussione. Il Ministero della Difesa ha risposto solo dopo nove mesi ed in maniera assolutamente non esauriente ad una interrogazione parlamentare presentata alla Camera in merito a produzione, stoccaggio e trasferimenti di munizioni cluster nel territorio italiano e del loro eventuale uso da parte delle forze armate italiane.

INCREMENTO DELLE SPESE MILITARI

"L'obiettivo nel medio periodo - il pensiero del ministro Antonio Martino a fine novembre - è di aumentare del 50% l'attuale bilancio, per far sì che lo strumento militare italiano si avvicini ai livelli qualitativi dei principali partner europei e alleati". Non è stato accontentato alla lettera dal voto dei due rami del parlamento. Ma il suo dicastero è tra i pochi ad aver mantenuto un segno "più" dopo i tagli alle spese imposti dal ministro del tesoro Domenico Siniscalco. "Il Dpef contiene la meritoria decisione", ammette Martino, "di incrementare il bilancio della difesa, legandolo al Pil, verso l'obiettivo di un rapporto dell'1,5". Attualmente è dell'1,058. Un traguardo che sgonfia i timori dei militari.
In realtà, la percentuale del PIL attribuita alle spese militari si aggirerebbe già intorno al 2%, secondo i calcoli sia del SIPRI (l'Istituto Internazionale di Stoccolma per la ricerca sulla pace) che nei dati NATO (mentre impieghiamo solo lo 2,7% del Pil per politiche sociali e ambiente!).

Inizialmente, la capacità di spesa per il 2005, chiesta dal ministro, era di 20.793 milioni di euro. Cifra record. Con un incremento del 5% in termini monetari e del 3,4% in termini reali rispetto al 2004, quando era stata di 19.811 milioni. Alla funzione sicurezza dovevano essere destinati 4.982 milioni. Alla funzione difesa 15.208, contro i 14 milioni e 148 del 2004. Con aumenti sia per il personale (8.028 milioni, più 6,5%), per la manutenzione e supporto (3.771 milioni, più 10,6%) e per l'investimento, quindi nelle acquisizioni dei sistemi d'arma (3.409 milioni, più 6,5%).

C'è un altro elemento, poi, che spesso si trascura: il Bilancio del Ministero della Difesa costituisce solo una "buona approssimazione" della spesa militare italiana. Ad esempio, non viene considerata la cifra stanziata dal governo per le missioni all'estero. Nel 2005 è stata confermata quella del 2004, istituita con la Legge 24 dicembre 2003, n. 350: un miliardo e 200mila euro, con l'operazione in Iraq che succhia quasi la metà dei finanziamenti. Si arriva così alla cifra record di 22.000 milioni, con un incremento del 16% rispetto al 2001.
E ancora, non sono comprese le spese per sviluppo di armamenti (riportati nel Bilancio del Ministero delle Attività produttive); i finanziamenti diretti o indiretto dello Stato a favore dell'industria militare nazionale e per prodotti dual use (militare e civile); la spesa di quella parte dell'Arma dei Carabinieri che di fatto svolge compiti militari.

Vi sono poi ulteriori stanziamenti, non raggruppati nella nota aggiuntiva, in altri bilanci dello Stato, dalla sanità alle attività produttive, alla ricerca e università, alla cassa mutui e prestiti per le infrastrutture ed altri innumerevoli capitoli.

Si è assistito in realtà all’adeguamento della spesa militare pubblica in Italia al cosiddetto “Nuovo modello di difesa” che dagli anni 2000 ha spostato l’asse dalla difesa del territorio italiano alla difesa degli interessi economici nazionali. Questo modello è costoso, lavora per la professionalizzazione delle forze armate e abolisce di fatto la leva obbligatoria nel 2005.
Riguardo poi all’utilizzo dei fondi, la spesa militare italiana presenta diverse anomalie soprattutto a confronto con quella sia di altri Paesi dell'Unione Europea che della Nato tra cui:
un'alta incidenza della spesa militare (attorno al 2%) rispetto ad altre voci dello stato sociale (attorno al 2,7%) del proprio PIL; 
un eccessivo numero ed costo incongruo del personale militare rispetto ad altri Paesi Nato (che secondo il SIPRI , si aggirerebbe intorno all’85%, contro il 75,5% medio dei paesi europei della NATO); 
una parteciazione (ed un costo) ad un numero elevato di missioni di peacekeeping che non appare giustificato dal ruolo dell'Italia nello scacchiere geo-politico internazionale;
una spesa militare pro-capite di gran lunga superiore a quella di altre nazioni del G8 (tra cui Giappone, Germania e Canada), pari a 478 dollari pro-capite annui, a fronte di appena 545 euro per assistenza (contro i 1.558 di media UE);
un'elevata spesa per "programmi di ammodernamento" già obsoleti alla nascita (EFA, Andrea Doria).

LE BASI MILITARI

Questa escalation bellicistica si esplica anche con il potenziamento delle basi militari di terra e di mare. 
La Puglia e la Sardegna rappresentano il massimo della pervasività militare in un territorio. La Sardegna, come la Puglia, con la presenza dei poligoni di tiro e dei sottomarini a propulsione nucleare sta pagando un altissimo prezzo nella salute pubblica determinato dall'incremento delle neoplasie. 
Alla Maddalena sono già numerose le nascite di bambini nati con problemi. I sardi hanno già chiesto agli americani di togliere il disturbo. A Gaeta sono felicissimi che gli americani vadano via. Il Cermis lo ricordano tutti. Aviano e Sigonella rappresentano le classiche città martoriate da un aeroporto da cui decollano jet a reazione. Brindisi ha conosciuto e continua a conoscere la "discreta" presenza americana che tutto osserva. Decine di città sono soffocate dalla ingombrante presenza militare. 
Taranto ha già dato e continua a dare. L'inaugurazione della più grande base navale italiana è solo il suggello di una lunga tradizione. E dovrebbe essere affiancata da un nuovo insediamento americano, di supporto logistico. 
In Puglia non mancano i poligoni di tiro; è presente la più grande base navale italiana, presidio dei sistemi informativi e comunicativi Italia-Usa. Viene ipotizzata, ma è molto più di una ipotesi, una base logistica americana di appoggio all'imminente trasferimento della VI flotta Usa da Gaeta a Taranto. Ciò significa che Taranto è candidata ad essere un'altra La Maddalena del Mediterraneo. Con questa mossa il Mediterraneo diventa Mare Loro.
La stessa situazione può essere documentata sul resto del territorio nazionale.

DISARMO NUCLEARE

L’Italia ha ratificato il Trattato di Non Proliferazione nucleare (NPT), come paese non nucleare, nel 1975. In base agli articoli del Trattato, si impegna a non accettare il dispiegamento di armi atomiche sul proprio territorio; in base allo stesso Trattato, le cinque potenze nucleari si impegnano a non consegnare a Stati non nucleari tali armi (articoli I e II del Trattato). Nel consesso internazionale, l’impegno della diplomazia italiana fino al 2000 ha perseguito la piena applicazione di tutti gli articoli del Trattato, in particolare del VI che prevede il disarmo da parte delle potenze nucleari e dell’impegno generale a prevenire la proliferazione di armi nucleari, sia in senso orizzontale (che nuovi Stati non si dotino di arsenali nucleari) che verticale (che le potenze nucleari non aumentino o ammodernino i loro).
La contraddizione del Trattato ratificato con la dottrina nucleare della Nato non è mai stata affrontata seriamente dall’Italia.

Fino al 2000, nei consessi internazionali, l’Italia ha promosso documenti imperniati sull’inscindibile duplice impegno al disarmo e alla non proliferazione. Nella VI Conferenza di Revisione, ad esempio, il “non-paper” di Italia, Belgio, Germania, Olanda, Norvegia fu determinante nel porre le basi per l’accordo raggiunto sui 13 punti, che comprendono “l’impegno inequivocabile all’eliminazione totale dei propri arsenali nucleari, per realizzare quel disarmo nucleare globale al quale sono obbligati in base all’articolo VI dell’NPT.” Ma negli anni successivi la posizione espressa dall’Italia nelle varie sedi ha teso a distanziarsi da quella degli Stati europei non nucleari, anche membri della Nato, per avvicinarsi invece a quella delle potenze nucleari. Un esempio per tutti, il voto del 28 ottobre 2004 sulla Risoluzione presentata dalla NAC (New Agenda Coalition), in cui l’Italia si è astenuta mentre Belgio, Germania, Olanda, Norvegia hanno votato a favore. Una scelta di campo preoccupante.
L’Italia è in violazione dell’NPT?
Ad Aviano (Pordenone), nella base dell’USAF, sono custodite 50 testate B-61 (secondo Bulletin of Atomic Scientists e NRDC). Come si concilia la ratifica dell’NPT da parte dell’Italia con la presenza di armi atomiche sul territorio nazionale?
Ancora più grave ci sembra la presenza all’aeroporto militare di Ghedi (Brescia) di altre 40 testate nucleari B-61 di proprietà statunitense (stesse fonti). In questo caso, infatti, sono i militari del Sesto Stormo dell’Aeronautica militare Italiana ad essere incaricati di montare le bombe sui Tornado e, eventualmente, di sganciarle sugli obiettivi che verranno decisi, presumibilmente, dal Nuclear Planning Group della Nato. Si tratta della pratica Nato del nuclear-sharing. Negli altri Paesi, membri della Nato, dove tale pratica esiste (Belgio, Germania) sono in corso iniziative politiche e governative per far cessare questa situazione di violazione dei trattati internazionali, ma non in Italia. Altri Stati, come Spagna e Grecia, hanno imposto agli Stati Uniti di rimuovere le bombe dal loro territorio.
Ricordiamo il parere espresso all’unanimità dalla Corte Internazionale di Giustizia nel luglio 1996, secondo cui sia l’uso che la sola minaccia di uso di armi nucleari è illegale ed immorale.
L’Italia, con le bombe di Ghedi, si pone in violazione del diritto internazionale, del Trattato NPT, della propria Costituzione. Ultimo, ma non meno importante, aspetto è costituito dai sommergibili nucleari di varia nazionalità, con missili nucleari, che scorrazzano nel Mediterraneo, sostano nei nostri porti (violando l'efficacia di sistemi di allarme e sicurezza), e dispongono di basi come quella de La Maddalena. 
Questa presenza ingombrante del nucleare militare in Italia causa precisi rischi. In particolare nei cosiddetti «porti nucleari», in cui possono attraccare navi o sommergibili a propulsione atomica. Sono 11, dalla Maddalena a Gaeta passando per Cagliari e Taranto.

Il silenzio del Governo italiano su questa grave situazione è inaccettabile.
L’unico commento del Governo, nella persona del Ministro Martino, rispondendo ad una delle ultime interrogazioni sul tema (presentata dal Senatore Malabarba il 17/02/05), rassicura i parlamentari e la popolazione italiana sul fatto che queste bombe, in quarant’anni che sono dislocate sui territori dei Paesi europei alleati, non hanno mai causato danni o presentato rischi per la cittadinanza. Non una parola sul rispetto della legalità.

OBIEZIONE DI COSCIENZA

Il Governo Berlusconi ha puntato molto a darsi una buona immagine con il servizio civile, anche grazie all’impegno del Ministro Carlo Giovanardi che ha la delega in materia, anche se però ha lasciato andare alla deriva l’obiezione di coscienza.
Ma se da un lato si è propagandata l’idea di voler anticipare la fine della leva obbligatoria, già decisa dal governo dell’Ulivo, dall’altra si è faticato non poco a tradurre tali affermazioni in atti legislativi. Infatti il disegno di legge che sospendeva la leva alla fine del 2004, è stato varato dal Consiglio dei Ministri il 28 marzo 2003, ma approvato dal Parlamento solo il 29 luglio 2004, arrivando proprio a ridosso della data della sospensione, creando alcuni problemi alle strutture militari, ma molte di più alle realtà di servizio civile che non godono di tutti quei provvedimenti di tutela dati ai militari.
Infatti si è deciso che, sospesa la leva si avrà, per le forze armate, un organico di 190.000 uomini, di conseguenza vi si destinano tutti i fondi necessari.
Per il servizio civile nazionale, che sostituisce il servizio civile degli obiettori, si destina un fondo, e si fanno partire solo coloro che si riescono a pagare con quei soldi, a prescindere dalle esigenze del paese. Per questo la cartina di tornasole dell’attenzione sul servizio civile si misura in base ai fondi ad esso destinati, e su questo il Governo Berlusconi non ha brillato. Per diversi anni il capitolo è rimasto sempre con lo stesso fondo: 120 milioni di euro, la stessa cifra di quando nel 2001 ci sono stati quasi 65.000 giovani obiettori, mentre è evidente che i volontari hanno un costo maggiore, e che comunque se si vuole caratterizzare il servizio civile con la qualità servono fondi anche per una maggiore formazione, per le ispezioni, per svolgerlo nelle missioni di pace all’estero, ecc..
Il 2005, il primo senza la partenza degli obiettori, che quindi doveva aprirsi anche all’universo femminile, il fondo è stato quasi raddoppiato, arrivando a 224 milioni di euro, cifra che però permetterà di far partire circa 40.000 volontari. Quasi la metà dei 70.000 giovani che erano l’obiettivo dato dal Ministro Giovanardi all’inizio del suo mandato, lo stesso numero degli obiettori in servizio all’epoca.
Alcuni dati mostrano chiaramente che al decrescere degli obiettori non è corrisposto un eguale incremento dei giovani volontari, anche se le domande sono mediamente il doppio rispetto ai posti disponibili. Nel 2001 sono state presentate 64.059 domande di obiezione e sono partiti (in via sperimentale) 201 volontari; nel 2002 ci sono state 54.882 domande di obiezione e 7.865 volontari; nel 2003 sono state presentate 51.933 domande di obiezione e sono partiti 17.930 volontari; nel 2004 non sappiamo ancora quante domande di obiezione sono state presentate, visto che a luglio non è stato presentato l’annuale rapporto sul servizio civile, e sono partiti 37.800 volontari. Quest’anno dovrebbero partire circa 40.000 volontari.

Come è capitato spesso con questo Governo, per supplire alle carenze di investimenti concreti si ricorre all’immagine, infatti sono stati ineccepibili gli spot sul servizio civile, l’emissione di un francobollo, l’incontro con il Capo dello Stato e con il Papa l’8 marzo 2003. Il tentativo è stato di accreditare il servizio come parallelo al militare, mandando in soffitta l’antagonismo dell’obiezione di coscienza. Però malgrado la Corte Costituzionale abbia stabilito che sia il servizio civile che quello militare concorrono alla difesa della Patria, al primo si assegnano 224 milioni di euro, ed al secondo 19.021 milioni di euro, più 1.200 milioni di euro per le missioni militari e vari fondi fuori bilancio della difesa per nuovi sistemi d’arma. Culmine di questa operazione è la partecipazione di alcune volontarie in servizio civile alla parata militare del 2 giugno.

Infine, poco prima della vacanze, con un provvedimento sulle entrate, per finanziare la fusione delle imprese, si sono tagliati al servizio civile 3,34 milioni di euro nel 2005, 6,99 milioni di euro nel 2006 e 3,48 milioni di euro nel 2007. Per chi governerà la prossima legislatura è bene che sappia che per permettere a 60.000 giovani di prestare servizio civile volontario, occorrono almeno 350 milioni di euro, piuttosto che lasciarsi andare a fantasiosi quanto irraggiungibili progetti di servizio civile obbligatorio.

POLITICHE MIGRATORIE: LEGGE BOSSI-FINI E DIRITTO D’ASILO

La Legge Bossi-Fini sull’immigrazione, oltre ad accumulare una serie impressionante di rilievi d’incostituzionalità, ha di fatto sancito l’assenza di una seria politica dell’immigrazione, a vantaggio degli ingressi clandestini e delle regolarizzazioni postume.
Da un lato, infatti, la legge ha collezionato oltre 700 ricorsi per incostituzionalità riguardo tutte le parti dell’articolato. Inoltre, le modifiche apportate a seguito delle prime sentenze della Corte Costituzionale sono state a loro volta oggetto di numerosi ricorsi per incostituzionalità.
D’altro lato, l’ultima sanatoria del 2002 ha visto l’accoglimento di 620.000 domande, e la politica delle “quote” e delle richieste di ingresso a fini esclusivamente di lavoro sta semplicemente attuando una ulteriore regolarizzazione di rapporti preesistenti.
Nel marzo del 2005 il governo ha emanato il decreto flussi annuale (79 mila posti, la maggior parte stagionali, quindi non stabili, a fine permesso devono tornare a casa) e ha ricevuto 215 mila domande, secondo i dati del governo, più di 400 mila secondo quelli della Confindustria pubblicati dal Sole 24 ore. Queste domande sono tutte di chiamata diretta nominativa e presuppongono che il datore di lavoro conosca già il lavoratore. Quindi si tratta di un’altra sanatoria.

Le Regioni tutte, l’ANCI e tutte le organizzazioni consultate (CGIL, CISL e UIL, Forum del Terzo Settore, organismi religiosi, associazioni di promozione sociale, organizzazioni di categoria), hanno espresso, anche se con toni diversi, un giudizio negativo sui regolamenti d’attuazione della Bossi Fini, entrati in vigore nella prima parte di quest’anno. Nonostante ciò il governo si è ben guardato dall’apportare la benché minima modifica.

Stesso discorso vale per il Documento di Programmazione Triennale sull’immigrazione che il Governo ha pubblicato con un ritardo di 3 anni. Il documento ha collezionato giudizi negativi da parte di tutti i soggetti sociali e istituzionali. Non è cambiato niente.

Tralasciando la portata della riduzione del permesso di soggiorno a permesso esclusivamente di lavoro e, per di più, a tempo determinato, la Legge Bossi-Fini concentra la sua attenzione (e le risorse) sulle misure di contrasto e di repressione, ignorando quasi gli interventi di accoglienza e di integrazione, lasciati all’iniziativa dell’associazionismo e degli enti locali.
A parlare sono le cifre. Dalla relazione della Corte dei conti per l’anno 2004, le spese per “misure di sostegno” risultano pari a 29.078.933 euro contro i 115.467.102 euro per quelle di contrasto.
In queste ultime rientrano i costi per i cosiddetti CPT (Centri di permanenza temporanea), 14 in tutta Italia, dove migranti irregolari (ma non solo) vengono rinchiusi in seguito a misure di “detenzione amministrativa”, un mostro giuridico creato a suo tempo dalla Legge Turco-Napolitano e potenziato dalla Bossi-Fini.

Durante l’ultimo anno il Governo per la gestione dei CPT ha ricevuto numerose relazioni, giudizi tecnici e osservazioni critiche da parte di organismi nazionali e internazionali. Tra tutti ricordiamo il dossier di Medici Senza Frontiere (in seguito alla pubblicazione di questo il governo ha ritirato il permesso, prima concesso, a MSF di essere presente nei CPT con un presidio sanitario) e quello di Amnesty International.

Alcuni di questi centri (in particolare Lampedusa) vengono utilizzati come centri di raccolta dei migranti sbarcati sulle coste siciliane, e poi riportati in Libia, secondo la pratica dei respingimenti di massa, dopo affrettate procedure di verifica delle generalità, che impediscono agli stranieri fermati di poter anche solo conoscere il loro diritto di richiedere asilo. Tutte pratiche condannate dalla Corte di Strasburgo e dal Parlamento europeo, sia per la violazione del diritto di asilo, sia perché i respingimenti vengono effettuati verso un paese che non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra e che non da alcuna garanzia di rispetto dei diritti umani al proprio interno.
Inoltre, gli accordi tra Italia e Libia che sottostanno a questi respingimenti (accordi di cui prima nemmeno i parlamentari avevano alcuna conoscenza, nonostante più volte richiesti), sono stati nei fatti secretati dal governo Berlusconi e una parte del contenuto è stato reso pubblico solo dopo la missione di un gruppo di esperti della Commissione Europea in Libia (indagine sulla lotta all’immigrazione clandestina) nei centri di raccolta creati su territorio libico grazie agli aiuti italiani. Tra le varie misure concordate c’è anche la fornitura, da parte dell’Italia alla Libia, di 1.000 sacchi per cadaveri: segno della consapevolezza di quali siano le reali conclusioni di questi viaggi di ritorno.

Dopo gli attentati del 7 luglio a Londra, l’utilizzo dei CPT è stato fatto rientrare tra le misure antiterrorismo, e il ministro dell’interno Pisanu ha dichiarato che, contro il terrorismo ''assume rilievo ancora maggiore il contrasto dell'immigrazione clandestina''; per questo il Governo ''intende potenziare, diffondere e migliorare'' i centri di permanenza temporanea.
A tutto questo si aggiunge l’assenza di una legge di sistema sul diritto d’asilo. Il recente decreto di attuazione della Bossi-Fini in tema di rifugiati non solo non riempie il vuoto, ma allarga l’utilizzo della detenzione (anche se non dichiarata) per i richiedenti asilo, affretta le pratiche di presentazione delle domande, senza garantire ai richiedenti l’indispensabile assistenza legale per affrontare sistemi burocratici farraginosi. Tanto meno si mette mano al portafoglio per garantire la sopravvivenza degli stessi richiedenti fino ad approvazione delle domande.

COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

Al Summit del G8 a Gleneagles, il Governo italiano ha confermato che non è in grado di assicurare le risorse per la lotta alla povertà più volte promesse per tenere fede agli impegni internazionali, e respingendo le proposte per meccanismi che consentano di raccogliere nuove risorse e senza una propria strategia.
Oggi l’Italia investe meno di 10 centesimi al giorno per ogni cittadino nella lotta alla povertà nel mondo. Secondo i dati dell’Ocse-Dac, siamo l’ultimo tra i Paesi donatori, con lo 0,15% del PIL per il 2005, contro lo 0,33% che, secondo il DPEF 2003-2006, dovremmo raggiungere entro il 2006.

La possibilità che questa percentuale cresca nei prossimi anni è affidata anche alla contabilizzazione delle operazioni di cancellazione del debito (che ricoprono il 30% dei contributi “a dono”), e fra queste quelle collegate all’Iraq, che hanno fatto la parte del leone negli ultimi bilanci: il 64% delle “risorse a dono” sono costituite da operazioni di cancellazione e conversione del debito estero, che copre il 56% di tutti gli aiuti bilaterali italiani.

Tuttavia, l’attuazione della legge 209/2000, che prevedeva la cancellazione di 6 miliardi di euro entro il 2006, si è fermata a poco più della metà della cifra, che peraltro, dovrebbe essere contabilizzata, secondo i parametri MDG, al di fuori dell’APS vero e proprio.
L’APS italiano è inoltre significativamente gonfiato dalla contabilizzazione della cancellazione del debito, che costituiva nel 2003 una quota pari al 56% di tutti gli aiuti bilaterali italiani.

Il contributo per il 2004 di 100 milioni di euro al Fondo Globale per la lotta all'AIDS tubercolosi e Malaria é stato versato con oltre un anno di ritardo e per il 2005 risulta ridotto a 80 milioni, mentre non sono stati ancora quantificati i nuovi contributi per il 2006-2007, facendo perdere al nostro Paese la leadership europea tra i donatori del Fondo.

Il non mantenimento della road map fissata nel 2002 dal Consiglio degli Ministri degli Affari Esteri della UE di Barcellona per l’incremento dell’APS, ancora confermata dal G8 di Gleneagles, va di pari passo con il netto deterioramento degli standard qualitativi nell’utilizzo e nella destinazione delle scarse risorse stanziate. Dal 2000 al 2003, la percentuale di APS “legato” – cioè subordinato all’impiego di risorse, strumenti e soggetti italiani per la realizzazione dei programmi finanziati, che pure l’UE ha stabilito di eliminare - si è impennata dal 62 al 92%. Un calcolo che, per la non trasparenza di questo Governo che non ha comunicato i dati ufficiali all’OCSE, ha richiesto una stima da parte dell’organo internazionale ai fini di una sua quantificazione.

Inoltre, si riduce la quota in aiuti bilaterali, cioè connessi a un preciso indirizzo strategico del paese donatore, e si riduce la quota di finanziamento a progetti di Ong, a vantaggio di organismi estranei alla vera e propria cooperazione, come la Croce rossa e la Protezione civile: la percentuale di risorse destinate alle ONG ed alla società civile si attesta a meno del 3%, pari ad un terzo della media UE. A questo si aggiunge la paralisi dell’erogazione dei fondi stanziati in particolare nei confronti dei programmi promossi dalle ONG che vantano crediti pluriennali ammontanti a oltre 70 Milioni di Euro nei confronti del MAE.

Tra gli aiuti vengono contabilizzate anche le spese per missioni militari in zone di conflitto: per il 30% degli Aiuti ai Paesi poveri si tratta di finanziamento alle missioni militari italiane nelle zone di conflitto.

Infine, l’Italia continua ad attuare il dumping sulle proprie esportazioni: pratica che consente ai Paesi ricchi di produrre beni ad un costo molto basso e di rivenderli all’estero a prezzi inferiori al loro costo di produzione ed inferiori persino ai prezzi dello stesso bene prodotto in loco, svilendo e soggiogando così sempre più le già fragili economie dei Paesi poveri.

Fatta salva la lodevole priorità concessa ai Paesi africani, che hanno beneficiato di oltre il 40 % dei fondi, i restanti parametri di qualità dell’Aiuto sono stati rilevati come al di sotto della media dei Paesi OCSE. La percentuale degli Aiuti destinati ai Paesi Meno Avanzati perde quota passando in tre anni dal 77 al 66%; solo il 5,5 % dell’APS, a fronte dell’obiettivo fissato nel 20% al vertice di Copenaghen del 1995, sono stati investiti nei Servizi fondamentali di Base.

Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio all’alba del suo mandato quando affermò di voler sbalordire i Paesi donatori stanziando l’1% del PIL per l’APS, oggi appaiono solo come uno scherzo di cattivo gusto.

LA CANCELLAZIONE DEL DEBITO

L’Italia è stata all’avanguardia nella battaglia per la cancellazione del debito dei paesi poveri, quando nel 2000, tra i primi, ha varato la legge 209 sulla riduzione del debito estero dei paesi poveri. Il governo italiano, forte dell’iniziativa legata a questo atto, avrebbe avuto la possibilità di mostrare la propria leadership, favorendo il raggiungimento di un accordo da parte dei G8 per la cancellazione dei debiti multilaterali.

Contrariamente agli impegni assunti nei vari G8, così come alla Conferenza dell'ONU di Monterrey per Finanziamenti per lo Sviluppo e prima ancora a Barcellona e a New York all’Assemblea del Millennio delle Nazioni Unite, l'Italia ha scelto la strada della riduzione ai finanziamenti per lo sviluppo.
Ma l'Italia fa anche meno, poiché include nelle statistiche degli aiuti le cancellazioni del debito. Così, nel 2003 e escludendo le cancellazioni, le risorse reali destinate allo sviluppo corrispondono nel complesso a meno dello 0,13%.

A cinque anni dalla storica assunzione di responsabilità nell'anno del Giubileo, inoltre, l'Italia può "vantare" di non avere nemmeno rispettato gli obblighi derivanti dalla legge 209/2000, che prevedeva una cancellazione di 6 miliardi di euro, mentre ad oggi ne sono stati cancellati solo 2,5 miliardi.

L’Italia era chiamata ad affrontare notevoli sfide a livello bilaterale e multilaterale. Vediamo invece negato lo spirito stesso della legge 209, che all’articolo 7 prevedeva un impegno dell’Italia nelle sedi internazionali per favorire il coinvolgimento della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nella gestione della questione del debito estero dei Paesi più poveri. Su questo punto, che avrebbe dovuto accompagnare l’iniziativa bilaterale di cancellazione del debito rendendo più composita ed efficace l’azione, l’interesse è stato pressoché nullo, al punto da meritare solo qualche riga nella Relazione del Governo in Parlamento riguardo l’applicazione della legge 209.

Non si può continuare a parlare, anche in questo caso come a livello internazionale, di ‘insostenibilità’ finanziaria della cancellazione. Le risorse ci sono ma prendono altre strade. Altro che Piano Marshall per i Paesi poveri! Il volume degli aiuti verso i Paesi più poveri, rispetto alle entrate rappresentate del pagamento del debito da parte di questi ultimi verso i Paesi ricchi e sviluppati, è vergognosamente sproporzionato. Ciò indica con evidenza che, ancora oggi, la ragione di una mancata decisione politica seria che porti ad una vera e definitiva soluzione del debito è da ricercare nell'incalcolabile interesse rappresentato dai crediti pagati dai Paesi indebitati nelle casse dei Paesi più ricchi.

COMMERCIO INTERNAZIONALE

Negli ultimi quattro anni il governo Berlusconi ha giocato in diverse circostanze un ruolo di rilievo nell’ambito dei negoziati dell’Organizzazione Mondiale del Commercio – WTO avviati nel novembre 2001 alla Conferenza Ministeriale di Doha. L’Italia, infatti, ha avuto la presidenza dell’UE nel secondo semestre del 2003, proprio in coincidenza della cruciale Conferenza Ministeriale del WTO a Cancun, giro di boa dell’intero negoziato, che è terminata in un sonoro fallimento con l’Unione Europea al primo posto sul banco degli imputati per il suo deprecabile atteggiamento negoziale.
Il governo italiano, nonostante le resistenze esplicite dei paesi in via di sviluppo e della maggioranza dei paesi membri della WTO, nonché i forti dubbi mossi da diversi paesi membri dell’UE, non si è adoperato per modificare nel corso della Conferenza il mandato negoziale del Commissario Europeo al commercio al fine di eliminare la controversa richiesta di avvio di negoziati in materia di investimenti, concorrenza, trasparenza negli appalti pubblici e facilitazione al commercio, espandendo così significativamente ed oltre il mandato originale il campo di azione della WTO.

Nella stessa circostanza il governo italiano non si è adoperato per la definizione univoca di una data per la eliminazione totale dei sussidi all’esportazione che l’UE concede principalmente alle grandi imprese agro-alimentari effettuando un vero e proprio dumping sui mercati agricoli dei paesi in via di sviluppo a danno dei coltivatori locali. Inoltre ben limitate sono state le concessioni europee ai paesi più poveri al fine di permettere a questi di proteggere all’occorrenza i propri mercati interni e di contenere l’abbassamento del prezzo delle principali commodities. In particolare, nel caso dei paesi Africa-Caraibi-Pacifico, il governo italiano ha avallato l’approccio della Commissione mirato alla definizione di avanzati accordi di libero scambio con questi paesi che vadano addirittura oltre le regole di liberalizzazione fissate dal WTO.

Nel percorso verso la Conferenza ministeriale di Hong Kong a dicembre 2005, dopo il sostanziale fallimento dell’incontro di fine luglio, resta la riunione del Consiglio Generale del 19-20 ottobre, in cui sono previste decisioni importanti in tutte le aree. Il summit ministeriale di dicembre a Hong Kong, quindi, può trasformarsi in poco più di una sessione di ratifica, piuttosto che una riunione decisionale, soprattutto perché si sta cercando di definire i diversi ambiti in riunioni ristrette, che lascerebbero fuori la maggioranza dei paesi membri e non garantirebbero la trasparenza, nel totale silenzio del governo italiano.

Va notato, che allo stesso tempo il governo in materia agricola ha sostenuto una riforma troppo limitata e ben poco effettiva della Politica Agricola Comunitaria senza ottenere in ambito europeo un maggior sostegno per l’agricoltura familiare ed uno sviluppo rurale in armonia con l’ambiente e le tradizioni sociali delle comunità. Comunque, il ministro delle politiche agricole ha almeno riconosciuto pubblicamente che la materia agricola non può essere trattata semplicemente secondo un approccio di liberalizzazione dei mercati, quale quello perseguito dalla WTO.

Un capitolo a parte riguarda gli OGM. Il WTO sta minacciando il diritto dei consumatori di dire no a questi prodotti, premendo sulla UE perché tolga i bandi sugli OGM. A giugno gli Stati membri dell'UE si sono dimostrati fermi nella loro posizione votando a chiara maggioranza in favore del mantenimento dei bandi nazionali. Il risultato del ricorso statunitense si sarebbe dovuto conoscere il 5 agosto, ma è stato nuovamente rimandato in ottobre.
Tuttavia, la Commissione europea sta premendo perché vengano rimossi i bandi nazionali su una serie di prodotti OGM. E, proprio all’inizio di agosto, approfittando della generale pausa estiva, ha dato il via libera per la mangimistica al mais transgenico "MON863", nonostante ripetuti studi abbiano riscontrato anormalità nei ratti nutriti con questo Ogm. Non solo, questo mais contiene come marcatore un gene di resistenza agli antibiotici che, secondo la legislazione europea non dovrebbe più essere utilizzato dal 2005.
Il Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza consente agli Stati di regolamentare e rifiutare gli Ogm. Gli Stati Uniti, attaccando l'UE, vogliono intimidire i Paesi in via di sviluppo, minacciando di utilizzare il WTO contro di loro se non accetteranno di essere invasi dai prodotti Ogm.

Infine, il governo Berlusconi ha aumentato il sostegno per l’internazionalizzazione delle imprese a scapito dei fondi da destinare alla cooperazione alla sviluppo. Questa politica di “privatizzazione della cooperazione” ha portato ad avviare un lento processo di privatizzazione delle stesse agenzie preposte al credito all’esportazione, quali la SACE, con il rischio di una riduzione della loro già limitata trasparenza e precludendo la possibilità di imporre in futuro regole vincolanti e stringenti in materia ambientale, sociale, di diritti del lavoro ed umani, nonché di lotta alla corruzione, per le imprese beneficiarie dei vari sostegni, relegando così l’Italia in una posizione di arretramento al riguardo nel panorama europeo ed internazionale.

AMBIENTE - ASPETTI INTERNAZIONALI

Probabilmente il livello più indicato per capire la sostenibilità delle azioni del nostro governo nel contesto internazionale è quello europeo, dove purtroppo l’Italia ha recentemente superato la Spagna nella classifica europea delle infrazioni alla legislazione comunitaria in campo ambientale, conquistando il primo posto. Secondo gli ultimi dati a disposizione della Commissione –situazione aggiornata al 26 novembre 2004, ma dopo l’estate il quadro peggiorerà– sono attualmente aperte contro l’Italia ben 73 procedure di infrazione, su un totale europeo di 495, pari quindi al 14.7%. Si tratta di casi che riguardano in particolare la normativa comunitaria sui rifiuti (22), l’inquinamento dell’aria (16), la valutazione di impatto ambientale (15) e la conservazione della natura (13).
La situazione presa in esame riguarda l’Unione europea a 15, perché va ricordato che i nuovi Stati membri non hanno procedure di infrazione in corso, in quanto usufruiscono di un periodo transitorio per il recepimento nella legislazione nazionale della normativa comunitaria.
La nostra situazione ultimamente è fortemente peggiorata, e nel luglio 2004, infatti, la Commissione ha contestato all’Italia di aver violato in 28 casi la normativa ambientale comunitaria. Nel solo periodo tra luglio 2004 e gennaio 2005 la Commissione ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia per ben 14 violazioni della normativa ambientale comunitaria: 4 riguardanti i rifiuti; 3 concernenti sia la conservazione della natura che l’inquinamento atmosferico; e 2 relativi rispettivamente all’inquinamento delle acque e a quello industriale. Mentre in altri due casi l’Italia ha ricevuto un parere motivato (un secondo avvertimento scritto, che costituisce la seconda fase della procedura di infrazione) ed una lettera di costituzione in mora (un primo avvertimento scritto, che costituisce la prima fase della procedura d’infrazione), che la invitano a rispettare precedenti sentenze della Corte di giustizia per evitare di incorrere in gravi sanzioni pecuniarie. A ciò si deve aggiungere, sempre nello stesso periodo, l’invio al governo italiano di altri 14 pareri motivati.

Alcuni esempi
La legislazione italiana consente ad alcuni tipi di impianti di recupero dei rifiuti di non effettuare la procedura di VIA, di conseguenza, i loro effetti sull'ambiente rischiano di non essere adeguatamente valutati. Nella sola regione Lombardia, sono circa 3.000 gli impianti di recupero che si sono sottratti all’obbligo di procedere alla valutazione d’impatto ambientale. La Commissione ha già diffidato l’Italia due volte ed ha così deciso di deferirla alla Corte europea di giustizia.

Secondo il Corpo forestale dello Stato, nel 2002 esistevano 5.000 discariche illegali o incontrollate, 700 delle quali contenenti probabilmente rifiuti pericolosi. Non risulta che in questi siti siano state prese le iniziative necessarie per prevenire l’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria

Come vari altri paesi, anche l’Italia ha omesso di recepire nel proprio ordinamento la direttiva quadro sulle acque che costituisce l’elemento fondamentale della politica comunitaria di protezione delle risorse idriche e il quadro di riferimento per la tutela di tutti i tipi di corpi idrici nel territorio dell’UE, e tale direttiva doveva essere recepita negli ordinamenti nazionali degli Stati membri entro il 22 dicembre 2003.

Mancato rispetto dei requisiti della direttiva Severo II, il cui obiettivo è prevenire gli incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose e limitarne le conseguenze per la salute umana e l’ambiente.

Mancato rispetto, da parte dell’Italia, di un regolamento dell’UE che limita (e, a termine, intende sopprimere) l’uso di sostanze che riducono lo strato di ozono.

Mancato recepimento completo nell’ordinamento italiano della direttiva sullo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra; il termine ultimo per il recepimento di tale direttiva era il 31 dicembre 2003.

Infine, dopo circa 8 anni, il Protocollo di Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio di quest'anno. Secondo il trattato, il nostro paese deve ridurre le emissioni di circa il 6,5% rispetto al 1990. Nel frattempo, però, le nostre emissioni sono cresciute di un altro 6% circa. Quindi la riduzione si attesta attorno al 12,5% oltre i limiti stabiliti dal Protocollo.
Le stime parlano di una forbice che oscilla tra i 100 e i 130 milioni di tonnellate da qui al 2012.
L’Italia aveva presentato, lo scorso 24 febbraio, un Piano Nazionale di Allocazione (NAP) dei Permessi di emissione che, invece di prevedere una riduzione delle emissioni, come richiestoci dagli impegni di Kyoto, indicava scenari di crescita al punto che:
1) le quantità totali provvisorie assegnate nei tre anni presi in esame (2005-2006-2007) ammontano a 44,24 milioni di tonnellate di CO2 in più rispetto al piano precedente; 
2) Lo scenario di riferimento (previsioni di emissioni al 2010) subisce un incremento del 12,29%, tutto a favore del settore energetico; 
3) Lo scenario di riferimento fa salire le emissioni dei settori compresi nello schema di Commercio delle Emissioni del 29% rispetto al 1990, altro che -6,5 previsto dal protocollo di Kyoto! 

La Commissione Europea ha considerato sovrastimata la richiesta italiana di una assegnazione media di 255,5 milioni di tonnellate annue per il triennio 2005-2007 e ha chiesto ufficialmente al Governo italiano di non superare i 232,5 milioni di tonnellate annue, con una riduzione del 9% su quanto richiesto. La Commissione ha avanzato anche altre richieste al nostro paese come quella di rinunciare all’assegnazione di ulteriori quote di emissione ad imprese a discrezione del Governo. 
Il Governo, in particolare il Ministero delle Attività Produttive, nelle successive versioni del Piano ha gonfiato sempre di più le previsioni: questo ha determinato una situazione di incertezza per le stesse aziende italiane, rischiando di tagliarci fuori dal mercato delle emissioni.

Anche sulle politiche intraprese per raggiungere gli obiettivi imposti da Kyoto, i segnali sono contrastanti.
Prendiamo ad esempio il piano per le energie rinnovabili: l'Europa prevede un raddoppio della produzione di energia verde entro il 2010, ma l'obiettivo fissato dal governo è circa la metà di quello europeo. Il settore dei trasporti ha poi aumentato le emissioni del 25% dal 1990 a oggi. Inoltre si fa grande affidamento sui meccanismi flessibili. Si tratta di strumenti che consentono di ridurre le emissioni, attraverso progetti messi in atto nei paesi in via di sviluppo, ottenendo degli appositi crediti. Il meccanismo di applicazione però sembra più complicato del previsto.

LOTTA ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA - ASPETTI INTERNAZIONALI

A poche settimane dall’inizio della legislatura viene fatta approvare a colpi di maggioranza (e poi rapidamente promulgare e pubblicare sulla Gazzetta ufficiale, senza nemmeno l’ordinaria vacatio legis di quindici giorni) una nuova disciplina per le rogatorie penali internazionali, di cui si prevedeva l’immediata applicazione anche ai processi in corso (legge n.5 ottobre 2001, n.367). L’occasione era data dalla necessità di ratificare e dare esecuzione all’accordo di cooperazione giudiziaria tra l’Italia e la Svizzera del 1998. In realtà si profittava della circostanza per modificare, complicandola, la disciplina vigente delle rogatorie internazionali.

Anche la legge Cirami o sul legittimo sospetto (legge 7 novembre 2002 n.248) riguarda un aspetto internazionale in quanto è accertato che numerosi mafiosi e criminali abbiano usufruito anche dei vantaggi del rientro dei capitali dall’estero, con la garanzia dell’anonimato stabilito dal decreto legge n.12 del 22 febbraio 2002.

La legge Bossi Fini sull’immigrazione (legge 30 luglio 2002 n. 189) favorisce il lavoro sommerso e le varie forme di caporalato e di sfruttamento della manodopera in agricoltura e nel settore edile. Così come il disegno di legge delega sul mercato del lavoro (n. 848 del 2001) aveva previsto una sempre maggiore privatizzazione del sistema di collocamento e l’abrogazione della legge 23 ottobre 1960 n.1369, in tema di divieto di intermediazione di manodopera.

Il ministro Castelli, al Consiglio dell’Unione europea del 6 dicembre 2001, dichiarava che l’Italia non accettava il progetto di decisione quadro sul mandato di arresto europeo e lo escludeva per i reati di riciclaggio e corruzione. Successivamente il Governo era costretto a tornare sui suoi passi e si impegnava ad avviare le procedure di diritto interno per rendere la decisione quadro stessa (del 13 giugno 2002) compatibile con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali.
L’Italia ha approvato il mandato d’arresto europeo (ultimo Paese dell’Unione europea) solo il 22 aprile 2005 con la legge n. 69, con alcune disposizioni che prevedono procedure anche più complicate rispetto alle vecchie rogatorie.

Le nomine italiane all’Olaf (ufficio europeo antifrode) e a Eurojust (unità di cooperazione giudiziaria contro la criminalità organizzata) hanno suscitato molte polemiche, perché le funzioni presso questi organi, evidentemente giudiziarie, sono state definite amministrative e come tali sottratte alla decisione del Consiglio superiore della magistratura.
La stessa legge italiana che dà attuazione della decisione quadro dell’Unione europea su Eurojust del 28 febbraio 2002 è stata approvata solo il 14 marzo 2005 e prevede per il nostro rappresentante in questo organismo una procedura di nomina governativa (decreto del ministero della giustizia).

L’Italia non ha ancora ratificato altri strumenti e convenzioni europee in materia di cooperazione giudiziaria e lotta alle varie forme di criminalità transnazionale, tra cui:
a) la decisione quadro del 13 giugno 2002 in materia di squadre investigative comuni;
b) la Convenzione di assistenza reciproca in materia penale, del 29 maggio 2000;
c) la decisione quadro di esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio.

Il 29 settembre 2003 entra in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale, firmata a Palermo nel dicembre del 2000.
È stata ratificata da poco più di 100 paesi su circa 150 firmatari. Tra i primi mancano importanti Paesi europei tra cui l’Italia, la Germania e la Gran Bretagna, nonché gli Stati Uniti.
Molto importanti sono i tre protocolli annessi alla Convenzione: il primo sul contrabbando dei migranti e l’immigrazione clandestina, il secondo sulla tratta degli esseri umani e il terzo sul commercio delle armi leggere, anche questi non ancora ratificati dal nostro Paese.

C’è da registrare che in data 11 agosto 2003 entra in vigore la legge n. 228 con la quale nel codice penale è stato introdotto il reato della tratta delle persone.

Nel dicembre 2004 sono partiti in Messico i lavori che hanno portato alla firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione. Al 31 luglio 2005 la Convenzione è stata firmata da 124 Paesi, di cui solo 29 sono quelli che l’hanno anche ratificata (tra questi ultimi non ci sono molti Paesi europei, come l’Italia).

Il disegno di legge Fini sulle droghe che modifica la legge n. 309 del 1990 "in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza", approvato dal Consiglio dei Ministri nel novembre 2003, si pone nettamente in contrasto con la Raccomandazione al Consiglio europeo sulla Strategia antidroga dell’Unione europea per il periodo 2005 - 2012 elaborata dal Parlamento europeo nel dicembre 2004, relatore Giusto Catania.

5 Settembre 2005

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Coordinamento di Tonio Dell’Olio – Redazione di Elisa Marincola
Contributi di: Gianfranco Benzi – CGIL; Giorgio Beretta - Campagna Banche Armate – Rete Italiana per il Disarmo; Raffaella Chiodo – Sdebitarsi; Maurizio Gubbiotti – Legambiente; Sergio Marelli - Associazione ONG Italiane; Filippo Miraglia - ARCI; Massimo Paolicelli - Associazione Obiettori Nonviolenti; Davide Pati - Libera; Antonio Tricarico – Campagna Riforma Banca Mondiale; Nicola Vallinoto - Movimento Federalista Europeo; Lisa Clark – Beati i costruttori di pace; Francesco Vignarca – ControlArms - Rete Italiana per il Disarmo; Simona Feltrami – Campagna italiana contro le mine; Francesco Martone – Commissione diritti umani del Senato.

Note: http://www.mfe.it/doc/2005/TDP_Rapp_Pol_Estera.rtf

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