Honduras: tentazione-Chavez
Chi l'avrebbe mai detto che il semisconosciuto e miserrimo Honduras, base militare Usa e santuario dei contrasin chiave anti-sandinista negli anni ottanta del '900, avrebbe avuto un giorno un sussulto di dignità nei confronti di Washington? Ebbene è accaduto qualche giorno fa e anche qui, come nel resto dell'America latina, a riguardo del tema dell'approvvigionamento di combustibile. Il prezzo della benzina schizzato alle stelle ha indotto il liberale Manuel Zelaya (da pochi mesi presidente della repubblica) a esplorare l'ipotesi di acquistare greggio raffinato dal Venezuela a condizioni di favore. Anzi, più probabilmente è stato lo stesso presidente venezuelano Hugo Chavez ad avanzare un'offerta, ovviando con grande pragmatismo al fatto che di Zelaya tutto si può dire meno che sia uomo di sinistra.
E così, mentre era in corso una gara pubblica di facciata per il rinnovo dei contratti petroliferi cui partecipano le solite multinazionali energetiche statunitensi, dirigenti della compagnia statale Pdvsa venezuelana sono giunti nella capitale honduregna con un velivolo privato e si sono incontrati segretamente con funzionari ad alto livello del governo.
Ma come poteva non accorgersene l'intelligence Usa, oggi capitanata dal quel John Negroponte che da ambasciatore degli Stati uniti a Tegucigalpa durante i passati conflitti nell'istmo centro-americano, convertì di fatto l'Honduras in una portaerei della U.S. Force (lasciando in eredità la base aerea di Palmerola, tuttora perfettamente in funzione)? Una assai indispettita nota verbale di protesta dei gringos, che denunciava la riunione, è stata subito diffusa. Ma l'amministrazione Bush è passata in men che non si dica anche ai fatti, disponendo una misura di ritorsione durissima: la sospensione totale del rilascio dei visti per gli States. Che in una parola significa la graduale paralisi degli scambi commerciali fra i due paesi, proprio in coincidenza con l'entrata in vigore del Cafta (trattato di libero commercio fra Stati uniti e paesi del Centramerica).
La rappresaglia, infatti, non fermerà certamente, anzi ingigantirà la marea di disperati (i cosiddetti mojados, bagnati, costretti ad attraversare il Rio Grande che fa da confine fra Stati uniti e Messico) che emigrano clandestinamente verso il vicino del nord in cerca di lavoro. Ma penalizza da subito i permessi di ingresso di parenti degli emigrati (circa 850.000 che inviano 2 miliardi di dollari di rimesse familiari ogni anno superando ogni altro bene di esportazione) e soprattutto gli operatori economici, senza risparmiare neanche i ricchi che il fine settimana vanno a fare shopping a Miami.
L'ambasciatore statunitense in Honduras, Charles Ford, richiamato per qualche giorno al Dipartimento di stato, ha naturalmente fatto sapere che il congelamento dei visti non ha nulla a che fare con la questione del petrolio («anche se invero era in corso una gara pubblica mentre qualcuno giocava sporco sottobanco con i venezuelani», si è lamentato il diplomatico). Ufficialmente la drastica decisione sui permessi (c'erano da sempre interminabili file tutti i giorni di honduregni fuori dal consolato Usa) avrebbe a che vedere con un traffico di passaporti falsi che verrebbero riconosciuti da disinvolti funzionari di emigrazione honduregni ad asiatici e africani.
In effetti si parla di circa tremila nazionalizzazioni false concesse a cittadini cinesi, indiani e camerunesi negli ultimi mesi (a ben 50mila dollari l'una) che poi regolarmente chiedono il visto d'ingresso negli States(con relativi «problemi di sicurezza nazionale»). Ma il fenomeno è noto da anni, così come la marcata corruttela degli impegnati pubblici in questo paese. Perché allora proprio ora lo stop dei visti?
Il coraggioso presidente Zelaya ha risposto all'arroganza dell'ambasciatore Ford con un clamoroso «a casa nostra incontriamo e negoziamo con chi ci pare; siamo un paese sovrano». Aggiungendo: «Dobbiamo intraprendere una politica di stabilità energetica superando i monopoli ed pagando prezzi più giusti».
In questa posizione il presidente ha l'appoggio dell'arcivescovo di Tegucigalpa, il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, che da tempo denuncia lo squilibrio dei termini di interscambio fra Nord e Sud per cui «il combustibile dovrebbe avere costi minori mentre le nostre materie prime (caffè, banane, oro...n.d.r.) dovrebbero essere pagate di più». Ma già alcuni ministri del composito governo liberale di Zelaya (dove c'è un po' di tutto) si sono precipitati a fare i pompieri. Senza contare le categorie imprenditoriali e del commercio che in pubblico e in privato si sono scagliate contro il proprio capo dello stato, dandogli del «loco»(matto).
L'alzata di testa dunque, molto difficilmente durerà, anzi la crisi potrebbe rapidamente rientrare.
Zelaya è un allevatore e imprenditorre del legname senza troppi peccati alle spalle e neanche molto ricco, diventato presidente per caso (prevalendo d'un soffio sul suo avversario conservatore del Partito nazionalista) proprio perché il Partito liberale non aveva altre figure presentabili da candidare. Poche settimane fa Zelaya aveva fatto la sua prima visita cordiale alla Casa bianca senza smettere il suo cappello da vaquero. Il suo limite sta nel dover assolvere a un incarico assolutamente al di fuori delle sue modeste possibilità.
Il caso del governo di Tegucigalpa conferma comunque quanto il virus petrolifero di Chavez si stia diffondendo in tutto il subcontinente, includendo paesi come l'Honduras, repubblica bananerastoricamente fra le più sottomesse ai diktat del gigante del nord.
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