Il giornalismo come memoria resistente

12 gennaio 2010
Carlo Ruta

Scrivere di cose del presente: da certe prospettive, non si tratta di un lavoro comodo. Quando lo eserciti, senti che ti interroga, ti mette alla prova, ti chiama a responsabilità, anche difficili. Per definire le ragioni di tutto questo, può essere utile una riflessione. I fatti della vita non si fanno incalzare facilmente. Recano tante sfaccettature. Non stanno fermi. Sono grevi e resistenti. Prorompono da mondi e situazioni che ai nostri sensi e alla nostra ragione si stagliano come rebus. Si tratta allora, nell’ordine del possibile, di mettere ordine, individuare nessi, prossimi e lontani, in ultimo di trarre dei significati. Cosa già non facile. Poi viene il resto. Necessariamente, i fatti richiamano le lacerazioni che sono proprie delle vicende umane. Finiscono per investire quindi la coscienza di chi li interpreta e li registra perché diventino conoscenza comune. Possono venirne allora scelte, variamente declinate, distanti, perfino irriducibili le une alle altre. Anche questo, ovviamente, implica dei costi. Se capace di difendere la propria indipendenza, quindi la propria identità, il giornalismo costituisce comunque una risorsa.

Nel mondo odierno, l’informazione, pur assimilata al potere o considerata essa stessa un potere, in senso proprio o improprio, appare relegata un po’ in basso nella scala del sapere, quasi deputata a garantire una conoscenza low cost. E i fatti stessi, gli accadimenti del giorno dopo giorno, possono apparire fugaci, inidonei a restituire il quid delle cose, le verità. Tutto però è ben più complesso. Le cose che cadono sotto lo sguardo, i fatti, colti in superficie, appaiono muti, ma se incalzati finiscono per uscire dalla loro afasia, svelandosi. Sono inoltre transitivi: una porta di accesso, di cui il reportage, l’inchiesta, la semplice cronaca possono costituire per certi versi una chiave. Chi fa giornalismo può utilizzare beninteso una miriade di strumenti: la parola, la scrittura, l’immagine, il gesto. Sul piano tecnico, l’informazione può passare attraverso il giornale, il libro, il fumetto, il teatro, il cinema, la fotografia, la televisione, il web. Non a caso oggi si parla di giornalismi. Al plurale. Una cronaca può significare tante cose. Può limitarsi a registrare in modo notarile, certificare quel che è già nel sentire sociale, attestare degli equilibri, intimare, rassicurare. Può segnare tuttavia l’epifania di un mondo. Può essere cioè lo strumento per far diradare quel che erompe davanti a noi come buio, e che rischia di diventare una débacle: il silenzio di quella realtà profonda che gli antichi greci chiamavano logos. D’altra parte, solo nell’oblio si alimenta la cattiva coscienza che accompagna, nella storia degli uomini, i percorsi inesausti della prepotenza.

A volte basta davvero poco per rivelare un mondo. L’immagine della bambina di Hanoi che fugge dai bombardamenti, senza vesti e deturpata dal napalm, è bastata a dare agli americani e agli europei il senso profondo della guerra in Vietnam. Ha costituito un tarlo che si è insinuato nel sentire di intere generazioni, senza più uscirne. In sostanza, nel loro svelarsi, nel loro irrompere nella coscienza sociale, attraverso il linguaggio di un cronista, i fatti sono in grado di fare memoria in modo denso, fino a scandire fino in fondo gli itinerari civili delle società. Il reportage, di concerto con altri saperi, con altre consapevolezze, è in grado di concorrere allora alla memoria resistente delle cose, di forgiare la “scatola nera” di questa modernità, mentre tanti abusi, delitti, torti alla dignità della vita, rischiano di rimanere ignoti, quindi “inesistenti”. La vicenda dell’ultimo secolo e il presente suggeriscono beninteso che l’informazione può essere anche altro. Può scendere come pietra tombale sui percorsi di conoscenza. Può scortare addirittura l’iter di un regresso. In tali casi, il giornalismo finisce per essere tuttavia altra cosa: l’oracolo di una ragione silente appunto, incapace di resistere al buio, purtroppo ritornante, della storia.

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